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04 agosto 2017

Il declino della supremazia militare statunitense: due articoli.

1) La fine del ‘nuovo secolo americano’ pronunciata dal Pentagono da Selva Blog. 

Wayne Madsen Strategic Culture Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ama rilasciare rapporti, molti dei quali contengono grande quantità di gergo e astrusità del Pentagono. Ma una recente relazione, pur non mancando del tipico esoterismo, contiene un messaggio chiaro e inequivocabile.
Il progetto neoconservatore del “Nuovo secolo
americano”, che ha visto gli Stati Uniti impelagarsi in Iraq e Afghanistan, nonché nell’”infinita guerra mondiale al terrorismo”, è morto e sepolto.


Un rapporto dell’USAWC (United States War College), intitolato “A nostro rischio: valutazione del rischio del DoD in un mondo post-primazia”, turba la Beltway di Washington e oltre. Il rapporto, redatto dall’Istituto di Studi Strategici dell’esercito (SSI) e dalla squadra dell’USAWC guidata dal professor Nathan Freier, afferma di “non riflettere necessariamente la politica ufficiale o la posizione del dipartimento dell’Esercito e della Difesa o del governo degli Stati Uniti”.

È dubbio che la relazione, sponsorizzata dallo Stato Maggiore riunito del Pentagono, verrebbe commissionata se il Pentagono non vedesse la necessità di prepararsi alla fine del dominio militare unipolare degli USA, vigente dalla fine della guerra fredda. Il rapporto post-primazia ha avuto il contributo di dipartimento della Difesa e Comunità d’Intelligence degli Stati Uniti, tra cui Stati Maggiori Riuniti, Comando Centrale degli USA (USCENTCOM), Comando Operazioni Speciali degli USA (USSOCOM) e Ufficio del Direttore dell’Instelligence Nazionale (ODNI), tutti attori cruciali per la rinnovata strategia militare statunitense.

Affinché nessuno creda che il rapporto rappresenti il nuovo modo di pensare dall’amministrazione di Donald Trump, va sottolineato che la stesura e preparazione della relazione iniziò nel luglio 2016, sei mesi prima della fine dell’amministrazione Obama. La relazione era un requisito finanziato per il bilancio annuale di Obama del 2017 per il Pentagono.
La relazione individua cinque componenti chiave della strategia post-primazia degli Stati Uniti:

– iperconnessione e armonizzazione delle informazioni, della disinformazione e della disaffezione (questo si è già visto con la decisione di separare il Cyber Command degli USA dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale consentendo ai “cyber-guerrieri” dello “spazio” extra-costituzionale di attuare operazioni da guerra dell’informazione con offensive contro militari e civili).
– situazione di rapida fine dello status quo post-guerra fredda.
– proliferazione, diversificazione e atomizzazione di una resistenza efficace agli Stati Uniti.
– ritorno, anche se mutato, della concorrenza di grandi potenze.
 dissoluzione violenta o distruttiva della coesione politica e identitaria.

 

L’accettazione del Pentagono della “rapida fine dello status quo post-guerra fredda” è forse la più importante comprensione del cambio di status di una superpotenza da quando il Regno Unito comprese che i giorni dell’impero erano alla fine. Ciò portò alla decisione del primo ministro Harold Wilson, nel gennaio 1968, di ritirare tutte le forze militari inglesi ad “est di Suez”.

Il ministro della Difesa Denis Healey fece il drammatico annuncio che tutte le forze militari inglesi sarebbero state ritirate entro il 1971 dalle importanti basi militari nell’Asia sud-orientale, “ad est di Aden”, principalmente Malesia e Singapore, così come Golfo Persico e Maldive. La decisione vide l’indipendenza di Aden come repubblica socialista, lo Yemen del Sud, e la cessione agli Stati Uniti della base militare di Diego Garcia nel territorio dell’Oceano Indiano inglese appena formato (insieme alla rimozione dalle isole Chagos dei residenti), l’indipendenza degli Stati della Costa della Tregua, come gli Emirati Arabi Uniti, e il trasferimento del controllo agli statunitensi della base navale inglese in Bahrayn.

Il rapporto post-primazia del Pentagono mette in dubbio la necessità di basi militari estere a sostegno dell’avvio di operazioni militari. La relazione afferma che “le considerazioni di un avvio non vanno limitate ai combattimenti combinati convenzionali”. È solo la punta dell’iceberg per i cyber-combattenti, che vedrebbero le proprie capacità aumentate relegando il combattimento militare. Il rapporto afferma inoltre che il DoD “non può più, come in passato, ottenere automaticamente una superiorità militare locale coerente e continua”.

 In altre parole, dimenticate una risposta militare statunitense come l’operazione Desert Shield che vide il massiccio trasferimento di forze militati statunitensi in Arabia Saudita prima della riconquista del Quwayt e dell’invasione dell’Iraq nel 1991.

Il Pentagono vede alcuni rischi internazionali come accettabili se possono essere gestiti. Questa riduzione dei rischi sembra essere incentrata sulla minaccia dei missili balistici nucleari ed intercontinentali nordcoreani. La relazione afferma che gli Stati Uniti dovrebbero evitare “obiettivi politici che si dimostrano troppo ambiziosi o inattuabili nella pratica. La sconfitta militare statunitense della Corea democratica sarebbe possibile solo dopo lo sterminio di militari sudcoreani e statunitensi e di civili della Corea del Sud”. Rimarcando come la sconfitta militare della Corea democratica sia “troppo ambiziosa” e “irraggiungibile” per gli USA.

Portaerei USA R. Reagan
La relazione sottolinea inoltre che vi sono “costi proibitivi” per certe politiche militari.

Gli autori osservano come la dottrina militare statunitense indichi “obiettivi che alla fine si dimostrano poco più che vittorie di Pirro”. Un chiaro riferimento ai timori e alle “false vittorie” in precedenza annunciate da Stati Uniti e alleati in Iraq e Afghanistan, vittorie di Pirro nel vero senso della parola. Un membro del gruppo di studio post-primazia ha sconvolto i colleghi dicendo che è probabile che gli Stati Uniti siano sconfitti in alcuni scontri militari. Lo spettro “possiamo perdere” ha aiutato a portare alle conclusioni della relazione, tra cui la possibilità che “vulnerabilità, erosione o anche perdita del presunto vantaggio militare statunitense verso le maggiori sfide nella difesa”, dovrebbe essere presa sul serio e la “ristrutturazione volatile degli affari internazionali della sicurezza appare sempre più contraria a una leadership statunitense imbattibile”.

L’emergere della Cina a potenza militare mondiale e il ritorno della Russia a potenza militare sono i casi in questione. L’allontanamento della Turchia dall’Europa secondo una visione del mondo “eurasiatica” e “pan-turca”, aggiunge la nazione della NATO nella crescente lista dei potenziali avversari degli statunitensi. Questi e altri sviluppi sono visti dai pianificatori post-primazia come parte del “ritorno, mutato, della concorrenza tra grandi potenze”.

Il team di studio del Pentagono vede chiaramente anche la “dissoluzione violenta o distruttiva della coesione politica e identitaria” come spartiacque per alterare l’era post-guerra fredda e post-11 settembre, che videro il dominio degli Stati Uniti sugli affari militari e economici mondiali.

Il successo del referendum Brexit che ha visto il Regno Unito votare l’abbandono dell’Unione europea, nonché il sostegno popolare all’indipendenza di Scozia e Catalogna sono visti dal Pentagono come “dissoluzione della coesione politica ed identitaria”. Mentre nelle precedenti relazioni il Pentagono avrebbe suggerito come contrastare tale “disgregazione” con una risposta militare e contro-insurrezionale, nel mondo post-primazia, il Pentagono chiede solo la gestione del rischio, lungi dal rumore di sciabole che si susseguono ai tamburi di guerra, come in Libia e Siria, Somalia e Panama.

Il rapporto post-primazia riconosce che la politica militare degli Stati Uniti dopo l’11 settembre non è più praticabile né fattibile. Questa politica, espressa dalla Revisione della Difesa Quadriennale (QDR) del 2001, dichiarava: “la fondazione di un mondo pacifico… si basa sulla capacità delle forze armate statunitensi di mantenere un margine sostanziale di vantaggio militare rispetto agli altri. Gli Stati Uniti usano questo vantaggio non per dominare gli altri, ma… per dissuadere nuove competizioni militari operative o geografiche o gestirle se accade”. Quei giorni sono finiti con Cina e Russia, insieme a Turchia, Iran, Germania, Francia e India che formano “i nuovi concorrenti operativi militari”. Gli Stati Uniti non possono “gestirli”, per cui Washington dovrà decidere come convivere con il “rischio”.

Gli autori del rapporto ritengono che “lo status quo curato e alimentato dagli strateghi statunitensi dalla Seconda guerra mondiale e che per decenni fu il principale “punto” del DoD non solo si blocca, ma può anche crollare. Di conseguenza, il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e il loro approccio ad esso possono cambiare radicalmente”. Questa è una visione cauta dello status attuale degli affari mondiali, senza il jingoismo spesso sentito nella Casa Bianca di Trump e dai membri di destra del Congresso degli Stati Uniti.

Le raccomandazioni post-primazia vedono la principale priorità degli Stati Uniti nella protezione del proprio territorio: “Proteggere il territorio, le persone, le infrastrutture e le proprietà statunitensi da gravi danni”. La seconda priorità è “garantire l’accesso alle comunità globali, alle regioni strategiche, ai mercati e alle risorse”. Ciò includerebbe tenere aperte rotte marittime e aeree al commercio degli Stati Uniti.

Gli autori della relazione concordano con la dichiarazione della prima ministra inglese Theresa May a Filadelfia il 26 gennaio 2017, sei giorni dopo la nomina di Donald Trump: “i giorni della Gran Bretagna e degli USA che intervengono nei Paesi sovrani nel tentativo di rifare il mondo a nostra immagine è finita… il Regno Unito interverrà solo nel caso di interessi nazionali… Le nazioni sono responsabili delle proprie popolazioni e i loro poteri derivano dal consenso dei governati, e possono scegliere di aderire ad organizzazioni internazionali, cooperare o commerciare con chi desiderano”. C’è un messaggio chiaro nel rapporto sulla “post-primazia” del Pentagono. I giorni in cui le “dubbie” coalizioni guidate dagli Stati Uniti avviavano azioni militari unilaterali, sono finiti.
Fonte: Strategic Culture
Traduzione di Alessandro Lattanzio




2) Alastair Crooke - Il crollo di alcuni capisaldi statunitensi, da Io non sto con Oriana. 

Traduzione da Consortium News28 luglio 2017.

Facebook è l'icona di chi crede in certi punti fermi. Poco tempo fa ha scritto a uno dei siti della "destra alternativa" statunitense informandolo del fatto che vari post da esso curati dovevano essere rimossi immediatamente o sarebbero stati cancellati.
riferimenti offensivi erano la parola "travelli" per indicare i transgender, e la parola "travestiti." Il messaggio scritto da Facebook suggeriva inoltre che l'identità di genere costituisse una "caratteristica protetta" su base legale, cosa che non è vera, e che riferirsi ai transgender definendoli "travelli" poteva essere considerato "istigazione all'odio", ovvero un illecito penale.
In sé è una questione di rilevanza nulla, non fosse per il fatto che è un perfetto esempio della discussa visione delle cose che ingloba la società civile statunitense di oggi. Da una parte c'è l'idea secondo cui la diversità, l'orientamento sessuale liberamente scelto e il diritto all'identità si traducano sul piano sociale in coesione e solidità. Dall'altra invece c'è l'idea di cui è esempio Pat Buchanan: un paese, ivi compresi i nuovi arrivati, sta insieme per lo più grazie al patrimonio di memorie, al retaggio culturale di usi e costumi, all'attaccamento a un certo "modo di essere" e per i principi che lo governano. Questo è quello che costituirebbe la fonte della solidità di un paese.
La questione, qui, è che i punti fermi dell'Occidente stanno franando. Insistere per gestire e controllare il discorso (per dirla con Michel Foucault) mantenendolo all'interno di un'ideologia politica strettamente delimitata attira adesso un pubblico disprezzo -e negli Stati Uniti anche manifestazioni di piazza- che si dirigono contro i media sociali e contro costituitivi del mainstream mediatico come la CNN. Insomma, più le parole d'ordine del caposaldo della diversità vengono imposte negli USA, e maggiore è la ripulsa popolare che incontrano, a quanto sembra.
I siti che si oppongono a questa "correttezza" stanno attirando un pubblico molto più vasto di quelli che la promuovono. Ma non è tutto qui. Anzi, non è neppure la metà. I capisaldi stanno cedendo su vari fronti, con ampie e probabilmente burrascose conseguenze.


Il caos in politica estera

Il settore in cui questo è più evidente è quello della politica estera in generale e della politica mediorientale in particolare. Il mainstream mediatico se ne è occupato poco, ma stando a certi resoconti il Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti ancora una volta non è riuscito a presentare alcun argomento convincente su come l'AmeriKKKa potrebbe in qualche modo vincere in Afghanistan, anche con un sostanziale incremento della forza militare come auspicherebbe il consigliere per la Sicurezza Nazionale H.R. McMaster. La guerra in Afghanistan è stata una guerra lunga e nessuno ne trarrà un esito soddisfacente, anzi. E questo è da molto tempo chiaro per quasi tutti coloro che ne hanno seguito le vicende.
In secondo luogo, Hezbollah ha cacciato in pochi giorni Al Qaeda dalla enclave di Arsal nel Libano del nord. Il Libano confina con la Siria, proprio come vi confina l'Iraq, che della Siria è alleato. Facilitati dallo shock provocato sugli insorti dalle notizie sulla fine della fornitura di armi da parte della CIA e delle paghe passate ad alcuni (non a tutti) gruppi di insorti, l'Esercito Arabo Siriano e i suoi alleati stanno rapidamente rioccupando il territorio dello stato siriano. Sembra che gli USA siano arrivati alla conclusione che in Siria l'AmeriKKKa non ha nulla da guadagnare e che con la caduta di Raqqa e la sconfitta dello Stato Islamico la Casa Bianca può ritenere a buona ragione che gli obiettivi degli USA sono stati raggiunti.
In terzo luogo, il popolo iracheno ha subito una trasformazione significativa. La brutalità dello Stato Islamico e il totalitarismo ideologico nel Nord del paese lo hanno mobilitato e radicalizzato, e l'Iraq è oggi un paese in trasformazione. Anche il panorama politico cambierà: gli sciiti iracheni stanno prendendo coscienza del loro rafforzamento.
Il governo (che è impopolare) e la leadership religiosa, la Hauza rispettata ma oggi minata dall'età, devono per forza vedersela con questa nuova ondata di mobilitazione popolare. Questi profondi mutamenti di tendenza già si riflettono sul posizionamento strategico di un Iraq che si sta avvicinando alla Russia (si veda l'acquisto dei carri armati russi T90), alla Siria e all'Iran. La spina dorsale del Medio Oriente sta rafforzandosi, certo, ma seguendo un'altra strada.
Questo mutamento del clima può determinare anche il futuro dell'Islam sunnita. La maggior parte dei sunniti iracheni ha provato repulsione e disgusto davanti agli eccessi del Da'ish wahabita, al pari dei siriani di ogni confessione. I cittadini sunniti di Mossul, adesso liberi di raccontare la loro esperienza, hanno raccontato ai loro compatrioti iracheni (così mi è stato riferito) della perenne rabbia per le decapitazioni del clero sunnita della zona da parte dello Stato Islamico: c'erano state lamentele per il comportamento non conforme all'Islam di jihadisti stranieri parte del Da'ish a Mossul. Quella dell'Islam venuto dal Najd è stata una brutta esperienza, che alla fine avrà conseguenze sull'Arabia Saudita e sui suoi vertici -ferocemente odiati oggi in Iraq- oltre che sull'AmeriKKKa che dell'Arabia Saudita è un alleato stretto.
Insomma, i punti fermi della politica mediorientale dell'Europa e degli USA stanno collassando, ed è in crisi anche il baluardo presieduto dal Consiglio per la Cooperazione nel Golfo. Per quanto riguarda la Siria, lo starnazzare dei "falchi" esasperati risuona in tutto l'Occidente.
Ovviamente ci saranno delle conseguenze. Lo stato sionista asserirà minaccioso che "non può rimanere impassibile" mentre Hezbollah e l'Iran si acquartierano sulla linea armistiziale nel Golan, e magari cercherà di mettere alla prova la Russia come garante della zona di de-escalation militare nel sud ovest della Siria. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è particolarmente irritato perché lo stato sionista è stato messo fuori dai giochi in Siria ad opera del Presidente russo Putin: la speranza di creare un cordone sanitario sotto controllo sionista all'interno del sud ovest siriano è stata frustrata. Lo stato sionista e i suoi alleati adesso faranno forti pressioni sugli USA perché per rappresaglia si argini l'Iran in maniera punitiva.
Il nuovo reggente saudita, principe della corona Mohammed bin Salman detto MbS, costituisce un altro elemento imprevedibile e volatile in questo miscuglio. Nonostante ciò, il Pentagono sa bene che gran parte della spacconeria sionista nei confronti dell'Iran non è altro che un bluff. Lo stato sionista, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti non hanno alcuna capacità di sfidare l'Iran così, da un giorno all'altro, senza il pieno sostegno dell'AmeriKKKa.


Vacillano i punti fermi dell'economia

Quello della politica economica è un altro bastione sempre più vacillante. Sembra che la convinzione diffusa fra alcuni leader del mercato secondo cui i valori azionari non possono salire all'infinito, retti da un oceano di liquidità e da tassi di interesse vicino allo zero, che significano volatilità vicina allo zero e scambi a senso unico, che hanno fatto somigliare i mercati ad una sorta di barca sovraffollata e sul punto di rovesciarsi, dal momento che tutti i passeggeri sono corsi a sistemarsi su un unico lato.
Alcuni fra quanti partecipano ai mercati sembrano convinti che i governatori delle banche centrali non avranno mai il coraggio di alzare i tassi o di  far deperire i propri bilanci, mandando in bestia i mercati. Tutti costoro, che fino a qualche tempo fa erano forse la maggioranza, credono che questa barca fatta di bassa inflazione e di bassi tassi di interesse continuerà a stare a galla praticamente a tempo indeterminato, magari con l'aiuto di un'altra ventina o cinquantina di migliaia di miliardi di quantitative easing, detto QE.
La questione è tutt'altro che nuova, ma in questi ultimi tempi un considerevole numero di responsabili della finanza di alto livello e anche alcuni banchieri delle banche centrali hanno scandito ammonimenti tombali sul conto delle alte sopravvalutazioni dei valori finanziari, sulle sacche di debiti sub-prime che stanno tornando a galla (i prestiti per le automobili) e i livelli del rapporto fra debito interno e prodotto interno lordo sia a livello individuale che a livello pubblico che stanno salendo oltre i valori della crisi del 2008.
Il debito globale ha superato cinquecentosessantottomila miliardi; il 46% in più rispetto alla crisi del 2008. Adesso vale il 327% del prodotto mondiale. Una massa critica di opinionisti finanziari esperti sembra se ne sia accorta. Essi contrappongono questa problematica distorsione monetaria e dei mercati alla prospettiva che un tetto al debito USA tagli nell'immediato futuro le gambe alle spese del governo federale, e alla probabilità che un Congresso profondamente minato dai conflitti e interessato da fenomeni di polarizzazione in entrambi gli schieramenti principali non potrà né approvare un bilancio, né portare alla "reflazione" vagheggiata da Trump, né varae una campagna significativa per la ricostruzione di infrastrutture.
Il loro timore è che esista una significativa percentuale di membri del Congresso e di senatori, in entrambi i partiti, talmente ostili a Trump da volerne vedere volentieri la rovina, anche a prezzo di una crisi economica. O che temono che se anche venisse approvato qualche provvedimento per stimolare l'economia, le banche centrali toglierebbero troppo velocemente ai mercati la massa di liquidità offerta loro. In un modo o nell'altro vedono tutti gravi rischi per quest'anno e per il 2018.
In breve, non solo la politica estera ma anche la politica finanziaria potrebbe trovarsi ostaggio della dissoluzione dei capisaldi della politica statunitense con tutto quello che ne consegue, ovvero la mancanza di quell'organismo efficiente, centralizzato e portatore di coesione che il governo ameriKKKano è stato e per come esso era noto fin dalla seconda guerra mondiale.


Invitare al rifiuto

Ed eccoci di nuovo all'ininfluente aneddoto citato all'inizio, su Facebook che cerca di rifondare il caposaldo narrativo secondo cui la scelta del genere apparterrebbe in maniera indiscutibile alle "categorie tutelate". Il problema è che questo caposaldo non regge. Più ci prova, più si fa ribadire, più rifiuti deliberati esso ottiene.
In maniera analoga, lo starnazzare dei falchi che invocano il ripristino dei vecchi caposaldi della politica secondo cui armare, addestrare e pagare jihadisti wahabiti per massacrare centomila soldati siriani (sunniti in molti casi, se non nella maggioranza) costituisce una tutela degli interessi ameriKKKani non regge più. Si consideri ad esempio David Stockman, il suo Bravo Trump, per quel tweet che ha messo sottosopra il partito della guerra (Trump: "Lo Amazon Washington Post ha distorto i fatti in merito alle mie ultime massicce, pericolose e sprecate elargizioni ai ribelli siriani che combattono Assad...").
La tiritera secondo cui si rimedia al troppo debito aggiungendovi altro debito, e che il conseguente crescere dell'inflazione andrebbe ben accolto in quanto mera conferma del fatto che è in atto proprio un recupero dell'economia, non regge più neanch'essa. Anche questo modo di intendere le cose è adesso oggetto di aspra disputa.
Persino i banchieri della banca centrale adesso si preoccupano dell'inflazione da loro stessi agevolata, ma si preoccupano anche di più delle conseguenze che potrebbe avere un qualunque tentativo di farle fronte. Stanno fra l'incudine e il martello.
Dove andremo a finire? Magari l'angoscia per le batoste subìte dagli USA in politica estera continuerà a dispiegarsi per l'intera estate, ma in autunno magari in USA ci sarà meno bramosia -o meno attenzione- per le iniziative in politica estera intanto che si avvicina l'inverno dell'economia. Nel peggiore dei casi il tumultuoso incombere del conflitto interno potrebbe anche far sembrare allettante l'idea di un'iniziativa in politica estera, che sarebbe un benvenuto diversivo rispetto alle preoccupazioni economiche.
In questo momento la retorica statunitense sta usando l'Iran e la Corea del Nord come sacche da boxe. Nessuno dei due tuttavia andrebbe considerato come un candidato per una qualche distrazione. Essi rappresentano piuttosto delle potenziali nemesi.
E per le preoccupazioni economiche, non servirebbe tanto un quarto quantitative easing, ma forse una qualche chiamata diretta a un ripianamento del deficit con una pioggia di denaro. Insomma, si dovrebbe usare denaro fresco di stampa per finanziare direttamente le spese federali. Ah, nella sua attività Trump non è mai rifuggito dai debiti.
Si dice spesso che le condizioni monetarie di questo periodo sono eccezionali e prive di precedenti. Tuttavia la storia degli assignat francesi degli anni successivi al 1790 può fornire qualche suggerimento. Nonostante la massiccia creazione di denaro, Andrew White, nel suo Fiat Money Inflation in France pubblicato nel 1896 afferma che "anche se è cresciuto l'ammontare della moneta cartacea, la ricchezza è sensibilmente diminuita. Nonostante tutte queste emissioni di carta le attività commerciali sono cresciute in modo sempre più stentato. L'impresa è rimasta congelata e gli affari hanno ristagnato sempre di più".
Infine è bene ssere chiari. Trump senza dubbio sta agevolando la dissoluzione dei capisaldi dello establishment, e questo era in fondo il suo obiettivo dichiarato. Solo che questo non sta accadendo grazie a lui. Si tratta di un evento che era già in corso: Trump se n'è accorto e si è messo a cavalcare l'onda al momento giusto. 




03 luglio 2014

Gloria all'Ucraina!

Da Bye Bye Unlce Sam

Il bombardamento dell’orfanotrofio di Slaviansk..

 .


Il bombardamento della cittadina di Luganskaya.

04 marzo 2014

Da leggere, rileggere e diffondere.


Dunque, riassumendo: se una massa di scontenti (giustificatamente) assalta i palazzi del potere di un qualsiasi paese, li brucia e li conquista, deve essere esaltata e lodata.
Questo è quanto è avvenuto nei giorni scorsi a Kiev, Ucraina. L’Occidente, unanime, ha esaltato uncolpo di Stato violento e sanguinoso, cercando di dipingere un presidente regolarmente eletto come un “dittatore”, magari anche “sanguinario”.
Ma questo non cambia il quadro, sia di fronte alla storia, che alla cronaca.
Da questo momento in avanti dobbiamo tutti sapere che non c’è più alcuna difesa legale contro l’eversione organizzata dall’esterno contro un qualsiasi paese. Valga come lezione per tutti.
E’ molto peggio del lontano momento in cui un presidente regolarmente eletto venne rovesciato e ucciso con un colpo di Stato militare. Si chiamava Salvador Allende. Aveva stravinto un’elezione democratica. Fu rovesciato, come subito si capì (ma come venne dimostrato in seguito), dalla Cia americana. Ma allora l’esecrazione fu generale. Nessuno dei leader occidentali di allora ebbe il coraggio e la sfrontatezza di applaudire il generale Pinochet.
Oggi è il contrario: ne abbiamo fatta di strada!  Adesso si applicano le tecniche di “rovesciamento dei dittatori” elaborate dal gran maestro dell’eversione “democratica” Gene Sharp, altrimenti detto “il Clausewitz della guerra non violenta”.
Vi piace l’ossimoro? Non è un ossimoro. La tattica consiste nel “sollevare” gli scontenti. Prima tappa. Come? Insufflando a suon di milioni le idee dell’Occidente. Comprando le catene televisive e i giornali. Cioè stipendiando legalmente centinaia di giornalisti e propagandisti. Pagando stipendi e “grants” a centinaia di professori universitari. Erogando fondi a centri di ricerca e fondazioni che lavoreranno a tempo pieno per organizzare la rivolta. Pacifica s’intende, soprattutto giovanile, s’intende.
Poi, seconda tappa, si passa all’offensiva con una serie di manifestazioni esterne. Non importa se sono piccole. Ci pensano i media a ingigantirle. Ci sarà qualche scaramuccia nelle strade. Anche queste verranno ingigantite dalla televisioni locali e dai grandi network internazionali. Di regola i governi di coloro che verranno immediatamente bollati con la qualifica di dittatori sanguinari, sono impreparati a fare fronte. Non conoscono le strategie comunicative dell’Occidente. Se non reprimono dovranno cedere subito. Se reprimono faranno il gioco dei Gene Sharp di turno. La gente semplice vedrà il sangue e sarà così convinta che il dittatore è davvero sanguinario. E la protesta crescerà. Alimentata dal sostegno dei governi esterni, tutti democratici e prosperi. Fino a che la repressione comincerà davvero. Ma sarà tardi, perché tutto il mondo “civile” sarà ormai schierato a difesa della “democrazia”.
E, a quel punto, entreranno in funzione le squadre paramilitari (nel caso ucraino palesemente naziste) che, nel frattempo, alla chetichella, saranno stato addestrate, armate, istruite, foraggiate da decine di ricchissime fondazioni, americane ed europee. Non entriamo in dettagli. Prendiamo la sintesi che ci è stata offerta dalla signora  Victoria Jane Nuland, assistente segretario di stato per gli affari europei e euroasiatici del Dipartimento di Stato Usa (e moglie di Robert Kagan,  uno dei più visibili neocon di Washington) : “Abbiamo investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita”. C’è tutto il necessario per capire.
Il resto è il disastro che adesso vediamo. Una crisi mondiale, da mettere i brividi. E lafalsificazione completa degli eventi, organizzata dal mainstream occidentale. Si va in guerra, purtroppo, con alta probabilità. La grancassa degl’ignoranti e dei mestatori risuona assordante: la colpa è tutta dei russi, di chiunque possa essere messo alla gogna. La russofobia si sposa con l’anticomunismo, sebbene non c’entri niente il comunismo in questa storia, se non in termini di storia. La folla è abbastanza istupidita per andare alla guerra a testa bassa. Senza nemmeno avere capito di che si tratta e perché. Roba da manuale. Mi chiedo come mai nessuno ha ancora avuto l’idea di proporre Gene Sharp per il premio Nobel .
Per la pace, s’intende.

26 febbraio 2014

Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi, ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Bill Clinton

Da Signoraggio.it 

Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran Mustafi?, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Miloševi?, ucciso in carcere, a Radovan Karadži? e al Generale Ratko Mladi?, ancora oggi detenuti all'Aja?
Lo storico russo Boris Yousef,  in un suo saggio del 1994, scrisse quella che ritengo una sacrosanta verità: «Le guerre sono un po' come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale. Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare danni talvolta permanenti e imprevedibili».
Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che, formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e pianificato da alcune potenze occidentali (con in testa l'Austria e la Germania), da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano.
La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l'obiettivo geo-strategico primario di una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi le sue spoglie.
Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose con forza soltanto Slobodan Miloševi?, divenuto Presidente della Repubblica Socialista di Serbia, e che toccò il culmine con la creazione in Croazia, nel Maggio del 1989, dell'Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli Ustascia di Ante Paveli?, guidato dal controverso ex Generale di Tito Franjo Tu?man.
Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due repubbliche ribelli e all'allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente.
Come ho scritto poc'anzi, ritengo che la saggia affermazione di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare 'naturalmente' manu militari nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le pressioni e le intromissioni della sedicente 'Comunità Internazionale', delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta, dall'alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di ridisegnare la cartina geografica dell'area sulla base delle convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale del territorio.
Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei, complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tu?man costruì il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi che dal Sud America gettavano l'ancora nel porto di Zara, secondo voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica Democratica Tedesca siano prontamente finiti nelle mani di Zagabria.
Si tratta di vicende che conosco molto bene, perché ho trascorso nei Balcani buona parte degli anni '90, prevalentemente a Belgrado e a Skopje. Parlo bene tutte le lingue dell'area, compresi i relativi dialetti, e ho avuto a lungo contatti con l'amministrazione di Slobodan Miloševi?, che ho avuto l'onore di incontrare in più di un'occasione. Sono stato, fra l'altro, l'unico esponente politico italiano ad essere presente ai suoi funerali, in una fredda giornata di Marzo del 2006.
Sono stato quindi un diretto testimone dei principali eventi che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika Krajina, sotto la spinta dell'occupazione croata delle loro case, avvenuta con l'appoggio dell'esercito americano.
Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia, i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che cambiava nel giro di poche ore il potere d'acquisto di una banconota. Ho vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto - a ragione - alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell'operazione di marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui tavoli di Washington e di Langley che impose a tutta l'opinione pubblica la favoletta dei Serbi 'cattivi' aguzzini di poveri e innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all'inevitabile criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo sui crimini e sulle nefandezze delle altre.
La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon. In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta, necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità, soprattutto dettate dal risveglio di un mai sopito odio etnico. Ma mai nessun conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile massiccio impiego di 'false flag', azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall'intelligence, per scatenare le reazioni dell'avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il concetto di 'false flag' in numerosi miei articoli, denunciando l'escalation del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra.
Fino ad oggi la più nota 'false flag' della guerra civile jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che determinò l'intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni serbo-bosniache sulle colline della città. Venne poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco di Alija Izetbegovi? a uccidere decine di suoi cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi.
E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale 'false flag' del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l'esercito serbo-bosniaco comandato dal Generale Ratko Mladi?, che da allora venne accusato di 'crimi di guerra' e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell'Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di 'false flag'.
I giornali italiani, che all'epoca scrissero titoli a caratteri cubitali per dipingere come un 'macellaio' il Generale Mladi? e come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadži?, anch'egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita, diretto dall'amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci.
Ibran Mustafi?, veterano di guerra e politico bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di coscienza, ha rilasciato ai media una sconcertante confessione: almeno mille civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito all'occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà».
Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran Mustafi? ha pubblicato un libro, Caos pianificato, nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai separatisti musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e - questo è molto significativo - anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni Unite.
Mustafi? racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell'amministrazione di Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser Ori?. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Ori? e le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia, sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono fuggiti in direzione di Tuzla ( governata dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi», svela Mustafi?. E, ben prima del massacro dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini che Mustafi? descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla.
«Lì - egli scrive - il mio parente Mirsad Mustafi? mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c'erano i nomi del suo compagno di scuola Branko Simi? e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ili?, dell’autista di Zvornik Mijo Raki?, dell’infermiera Rada Milanovi?. Inoltre, nelle battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di 3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi».
Mustafi? ci riferisce a riguardo una terribile confessione del famigerato Naser Ori?, confessione che non mi sento qui di riportare per l'inaudita credezza con cui questo criminale di guerra descrive i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di Mustafi?, anch'esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male, ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunovi? ha dilaniato il petto dell’infermiera Rada Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L'intera pista era inondata di sangue».
Da quanto ci racconta Mustafi?, gli elenchi dei 'bosniaci non affidabili' erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al Presidente Alija Izetbegovi?, e l'esistenza di questi elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte ho sentito l’ex capo della polizia Meholji? menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice Mustafi?, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafi?, l'elenco venne redatto dalla mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della città sin dal 1993. I 'padroni della vita e della morte nella zona', come lui li definisce nel suo libro. E, senza esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Ori?, assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica(clamorosamente assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia dell'umanità».
Ma l'aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni di Mustafi?  è l'ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegovi? , e in particolare tra Izetbegovi? e il presidente USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafi? afferma con totale convinzione.
«Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegovi? e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafi?. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di 'false flag'), nelle quali i miliziani albanesi dell'UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l'esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia.
Come sottolinea sempre Mustafi?, riguardo a Srebrenica ci sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da tempo emigrati e morti all'estero. E un discorso simile riguarda le persone torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani - sostiene Mustafi? - hanno deciso di dichiararsi vittime perché non avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato l'occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti invalidi di guerra di Srebrenica?».
Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto difficile  - sostiene nel suo libro - perché i fatti di Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il burattinaio capo di esse è stato Amor Masovi?, che con la fortuna fatta sopra il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di Izetbegovi? che, a partire dall'estate del 1992, hanno lavorato per realizzare il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime della guerra».
Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del 1995, la famigerata Operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l'uso di micidiali bombe all'uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il comando dell'esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale serbo-bosnica Banja Luka e che costrinse i Serbi ad un cessate il fuoco e all'accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba). Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri combattimenti.    
Alija Izetbegovi?, fautore del distacco della Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30% della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell'autoproclamato nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5 Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihi?. È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della 'comunità internazionale' la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all'epoca di Tito, (in particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e ostili allo Stato.
Nella sua celebre Dichiarazione Islamica, pubblicata nel 1970, dichiarava: «non ci sarà mai pace né coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non islamiche» e che «il movimento islamico può e deve impadronirsi del potere politico perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica Bosnia-Erzegovina, luogo dove storicamente hanno sempre convissuto in pace diverse culture e diverse religioni, in una satrapia fondamentalista, con l'appoggio ed i finanziamenti dell'Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e con l'importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di immani massacri.
Slobodan Miloševi?, accusato di 'crimini contro l'umanità' (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all'Aja. Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella sua cella l'11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che avrebbero scatenato le sue dichiarazioni.
Radovan Karadži?, l'ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladi?, comandante in capo dell'esercito bosniaco, sono stati anch'essi arrestati e si trovano in cella all'Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di 'crimini contro l'umanità', fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica.
Adesso che su Srebrenica è finalmente venuta fuori la verità, dovrebbe essere facile per loro arrivare ad un'assoluzione, a meno che qualcuno non abbia deciso che debbano fare la fine di Miloševi?.
Ma chi restituirà a loro e al defunto Presidente Jugoslavo la dignità e l'onorabilità? Tutte le grandi potenze occidentali, dagli Stati Uniti all'Unione Europea, dovrebbero ammettere di aver sbagliato, ma dubito sinceramente che lo faranno.
Nicola Bizzi

28 agosto 2013

Sulla guerra in Siria.


1) Siria: le "armi chimiche". E la storia alle loro spalle

Mentre la guerra civile in Siria divampava da un anno, in Italia «la Repubblica» pubblicava un articolo corredato da foto e da didascalie che alla versione strombazzata dai media facevano immediatamente seguire la verità nel frattempo emersa: 
«15 marzo 2011. Inizio ufficiale della rivolta, manifestazione nella città di Dara’a.
L’opposizione sostiene di manifestare contro l’arresto di alcuni bambini autori di graffiti anti-regime. Ma nessuno finora ha incontrato quei bambini.
[…] 6 giugno. Amina, la blogger “Gay Girl in Damascus” viene rapita dalla sicurezza siriana. La notizia appare sui media internazionali.
Pochi giorni dopo un giornalista britannico rivela l’identità della blogger. In realtà è un maschio americano che scrive dalla Svizzera.
8 agosto. La foto dei cadaveri di 8 neonati prematuri in un’incubatrice, uccisi da un black out fa il giro del mondo. L’originale della foto rispunta in Egitto: sono neonati addormentati in un’incubatrice
[…] Febbraio. Il direttore del “Syrian observatory for human rights”, di stanza a Londra, è la fonte principale per le notizie sulla Siria. Gli stessi attivisti ammettono che il sedicente direttore Rami Abdel Rahman non esiste» (Alberto Stabile, L’orrore online come arma di lotta. Tra regime e ribelli è guerra mediatica, in «la Repubblica» del 14 marzo 2012, pp. 14-15).
Purtroppo, il giornalista qui citato sciupava il suo meritorio lavoro con un commento all’insegna al tempo stesso dell’ovvietà e della manipolazione: a condurre la guerra mediatica erano e sono entrambi le parti! E chi mai potrebbe mettere in dubbio che la guerra presuppone uno scontro tra due parti contrapposte? Ma fermarsi a questa ovvietà significherebbe non pronunciare la verità bensì deformarla. Anche per quanto riguarda la guerra mediatica occorre procedere all’analisi dei rapporti di forza, distinguendo tra grandi potenze da un lato e un paese piccolo e sostanzialmente indifeso dall’altro, tra aggressori e aggrediti: appoggiati com’erano dall’Occidente, i «ribelli» potevano vantare una schiacciante superiorità per quanto riguardava la produzione del falso e la capacità di diffonderlo e bombardarlo in ogni direzione.


2) Decisioni irrevocabili (clicca su questo testo per aprire il video)


Il Presidente della Repubblica araba siriana in un’intervista esclusiva a “Izvestia” – ha parlato della minaccia di invasione da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente, dei rapporti con Vladimir Putin e sul destino comune dei russi e dei siriani. Ne proponiamo una nostra traduzione in italiano, non ufficiale.
Nel bel mezzo della crisi siriana Alexander Potapov e Yuri Matsarsky si sono  incontrati a Damasco con il presidente Bashar Assad. In un’intervista esclusiva a “Izvestia”, il Presidente ha detto che in realtà non sta usando armi chimiche, ha commentato inoltre le dichiarazioni dei politici occidentali intenzionati a mettere pressione militare sulla Siria e ha espresso l’apprezzamento  all’assistenza fornita dalla Russia e dal suo presidente al popolo siriano.
- Signor Presidente qual è la situazione in Siria? Quali territori rimangono sotto il controllo dei ribelli?
- Non ci sono aree che sono sotto il controllo dei terroristi, e aree sotto il controllo dell’esercito.  C’è un nemico che ha occupato la nostra terra.  Abbiamo a che fare con dei terroristi infiltrati nei villaggi e nelle periferie delle città.  Sono criminali che uccidono persone innocenti, distruggono le infrastrutture.
L’esercito, le forze di sicurezza e la polizia tendono a metterli fuori degli insediamenti e renderli poco pericolosi.  Quelli che riescono a sopravvivere, passano ad altre aree e si uniscono ad altre bande.  Così, l’essenza della nostra attività è fermare i terroristi.
La ragione principale della continuazione delle ostilità è il costante enorme numero di terroristi arrivanti in Siria dall’estero.  Mensilmente ne vengono sul nostro territorio decine di migliaia.  Inoltre, è continuo il finanziamento e il rifornimento di armi agli stessi terroristi provenienti dall’estero.
Ma vi assicuro che c’è l’esercito riesce a fermarli ovunque li incontra.
La stampa occidentale ha spesso detto che i terroristi coprono circa il 40 o il 70% del territorio della Siria. Quanto territorio controlla il governo siriano?
- Nessun esercito in qualsiasi paese del mondo sarà pienamente operativo in tutto il paese.  I terroristi approfittano di questo, cercando di penetrare ovunque, dove non c’è esercito.  Stiamo purificando ogni provincia che comprendeva i terroristi.  Quindi, ripeto, il problema non una zona precisa, ma cambia ogni giorno e ogni ora.  Il problema in molti film d’azione provenienti dall’estero.
L’esercito arabo siriano può entrare in qualsiasi area occupata dai terroristi e fermarli?  Vi dirò con certezza, “Sì”.  L’esercito continua a farlo.  Ci vuole più tempo, perché quella guerra che ci è stata imposta non si ferma immediatamente.  Ci vuole un tempo relativamente lungo.  E stiamo pagando un prezzo pesante per la guerra…
- I terroristi di cui parliamo, sono gruppi separati e distinti o sono parte di una forza unica, che mira a destabilizzare la situazione in Medio Oriente, anche in Siria?
- Si tratta di singoli gruppi […]  ma sono molto simili.  In primo luogo, ideologicamente.  In secondo luogo, perché ricevono denaro dalle stesse fonti.
La loro ideologia, il radicalismo, non sopporta l’esistenza di altre credenze religiose, tranne quella professata dai terroristi.  Hanno leader ideologici comuni come al-Zawahiri, ma ogni gruppo ha la sua guida.
I loro sponsor, come ho detto, sono gli stessi, e spesso interi Stati, come l’Arabia Saudita.
Nonostante la mancanza di unità dei gruppi, i loro sponsor e leader ideologici hanno la capacità di manipolare ciascuno di loro con messaggi radicali.  Ad esempio, possono dire a loro: “I musulmani sono tenuti ad effettuare la jihad in Siria.”  Di conseguenza, migliaia di militanti vengono inviati qui per combattere.
Gli sponsor controllano anche i gruppo di banditi, forniscono  armi e fondi per specifici atti di terrorismo.
Inoltre, la stessa Arabia Saudita combina le funzioni di ideologo e di sponsor: muovono  ribelli wahhabiti e li sostengono con il denaro.
- Il governo siriano parla di una stretta relazione tra Israele e i terroristi. Comeè possibile la collaborazione tra i due mondi?
- Perché Israele apre il fuoco contro le nostre truppe quando abbiamo colpiamo i terroristi alla frontiera?  E perché Israele con i terroristi al confine che si fronteggiano con la Siria ha attaccato la parte siriana?  Perché Israele più volte negli ultimi mesi ha attaccato parti dell’esercito arabo siriano?
Ma la prova principale sono i risultati della cooperazione in Israele stesso.
Israele ha detto più volte che gli ospedali del paese hanno aiutato decine di terroristi.  Se questi gruppi sono così odiati Israele e la sola espressione del suo nome li manda in crisi isterica e li fa odiare, perché questi gruppi radicali che si battono oggi contro l’Egitto e la Siria, nel corso della sua storia non hanno mai effettuato operazioni nei confronti di Israele?
Beh, ricordiamo che ha creato in origine questi gruppi.  Questi terroristi sono stati reclutati e sostenuto dagli Stati Uniti e l’Occidente, l’Arabia Saudita li ha finanziato sin dal 1980, al fine di combattere i sovietici in Afghanistan.  Come, allora, questi gruppi creati  dall’Occidente e dall’America, saranno in grado di colpire Israele?
- La nostra intervista con voi sarà tradotto in molte lingue, molti leader mondiali, tra cui quelli che vi si oppongono, la leggeranno. Cosa vuoi dire a loro?
- Tra i capi di stato al momento attuale, ci sono molti politici, ma pochi leader.  Il fatto che essi non conoscono la storia e non imparano da essa.  Alcune persone dimenticano il passato recente.
Hanno imparato la lezione degli ultimi 50 anni?  Almeno in un documento dei predecessori, che hanno fallito tutte le guerre dal Vietnam in poi?  Hanno capito che quelle guerre non hanno portato altro che il caos e l’instabilità in Medio Oriente e in altre regioni del mondo?
Vorrei spiegare che il terrorismo non è una carta vincente in tasca, che si può estrarre e utilizzare ogni volta che si vuole.  Il terrorismo, è come una puntura di scorpione.  Di conseguenza, non si può essere per il terrorismo in Siria e contro di esso in Mali.  Non si può sostenere il terrorismo in Cecenia e la lotta contro di esso in Afghanistan.
Alcuni capi dei paesi occidentali farebbero bene a smettere di entrare negli affari di altri paesi, creando i propri regimi fantoccio, e di più ascoltare le opinioni del loro popolo, forse allora sarà la politica occidentale più vicina alla realtà.
Se devo mandare un messaggio al mondo, dico io, se qualcuno vuole trasformare la Siria in un burattino dell’Occidente, allora non lo farà.  Siamo un paese indipendente e lotteremo contro il terrorismo, saremo liberi di costruire le nostre relazioni con i paesi che vogliamo, per il bene del popolo siriano.
Mercoledì scorso, il governo siriano ha affrontato le accuse da parte dei ribelli di usare armi chimiche. Questa accusa è stata subito raccolta da un certo numero di leader occidentali. Qual è la vostra risposta? Volete permettere alla Commissione speciale delle Nazioni Unite di indagare su questo caso?
- Le dichiarazioni rese dai politici negli Stati Uniti, in Occidente e in altri paesi è  un insulto al buon senso di ignorare l’opinione pubblica del loro popolo.  Questa è una sciocchezza: prima si  incrimina, e solo poi raccolgono prove.  E si tratta di potenti paesi come gli Stati Uniti.  Cioè, mercoledì siamo stati accusati e solo due giorni dopo il governo degli Stati Uniti ha annunciato l’inizio della raccolta delle prove.  E come si intendono raccogliere le prove, in lontananza?  Siamo accusati che l’esercito abbia usato armi chimiche in una zona che è presumibilmente sotto il controllo dei ribelli.  In realtà, in questo settore non esiste una chiara linea di fronte tra l’esercito e militanti.  E come si possono usare di sostanze chimiche o altre armi di distruzione di massa in un luogo dove lo stesso Governo concentra le sue truppe?  Ciò è contrario alla logica elementare.  Quindi questo tipo di accuse sono politiche, e la ragione di questo è la serie di vittorie da parte delle forze governative.
Per quanto riguarda le indagini sui crimini di guerra in Siria, siamo i primi che chiedevano l’arrivo di una commissione internazionale.  Quando i terroristi hanno sparato un razzo con un gas velenoso ad Aleppo, poco dopo furono numerose le dichiarazioni in Occidente circa la disponibilità di armi chimiche delle forze governative, e subito abbiamo richiesto la visita di esperti stranieri.  Questa posizione è stata concordata con la Russia, ci piacerebbe sentire che gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna siano convinti che non siamo stati noi, ma i nostri avversari stanno usando armi chimiche.  Tutto questo supportato da fatti specifici, non da accuse infondate.
Nelle ultime settimane, abbiamo negoziato con le Nazioni Unite sul lavoro della commissione, infine, gli esperti sono venuti da noi (in poche ore dopo l’intervista, si è saputo che il governo della Siria e la commissione delle Nazioni Unite hanno approvato una procedura per l’azione congiunta per indagare sul presunto uso di armi chimiche).  I risultati del loro lavoro sarà presentato alle Nazioni Unite.
Ma si sa anche che i risultati possono essere interpretati a favore dei singoli paesi.  Pertanto, ci aspettiamo che la Russia non permetterà di interpretare i documenti nell’interesse delle politiche statunitensi e occidentali in generale.
- A giudicare dalle dichiarazioni di leader negli Stati Uniti e in una serie di altri paesi occidentali fatte in questi ultimi giorni, gli americani non escludono un’azione militare in Siria. Lei dichiara che gli Stati Uniti agiranno nello stesso modo di operare in Iraq, cercando di trovare un pretesto per un’invasione?
- La questione di un intervento militare in Siria non è preso in considerazione per la prima volta.  Fin dall’inizio della crisi, gli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna stavano cercando di fare un intervento militare, ma per loro sfortuna, le cose hanno preso una piega diversa.  Hanno cercato di convincere Russia e Cina a cambiare la loro  posizione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma non ha funzionato.
[…] Si è inoltre constatato che la situazione qui è diversa dalla situazione in Egitto e Tunisia.
Lo stesso scenario di “rivoluzione araba” ha cessato di essere convincente.  Si può iniziare una guerra, ma non possono sapere quanto tempo durerà e quanto si diffonde su territorio.  Si resero conto che il loro copione era fuori controllo.
Un altro ostacolo all’intervento militare  è la comprensione di tutto ciò che sta accadendo in Siria e cioè che non siamo di fronte alla rivoluzione del popolo che esigere riforme.  E’ solo terrorismo.  In questa situazione, i leader occidentali non possono dire i loro cittadini: “Stiamo andando in Siria, al fine di sostenere il terrorismo.”
Signor Presidente, a cosa si troveranno di fronte gli Stati Uniti se osano attaccare la Siria o persino fare un’invasione del paese?
- Agli Stati Uniti faranno i conti con la sconfitta, come in tutte le precedenti guerre combattute da loro, dal Vietnam ad oggi.  L’America ha partecipato a numerose guerre, ma non è mai stata in grado di raggiungere i suoi obiettivi politici per i quali queste guerre hanno avuto inizio.  Lei non è  in grado di convincere il suo popolo multietnico alla giustezza della guerra, così come nell’infondere la propria ideologia in altri paesi.  Sì, in effetti le grandi potenze possono scatenare una guerra, ma possono vincerla?
- Siete in rapporti con il presidente russo Vladimir Putin? Comunica con lui al telefono? Se sì, quali sono le questioni da discutere?
- Abbiamo un rapporto di lunga data col presidente Vladimir Putin stabilito molto tempo prima dell  crisi siriana.  Di tanto in tanto abbiamo contatti.  Naturalmente è impossibile al telefono per discutere di questioni così complesse come la crisi siriana.  Le relazioni tra i nostri paesi sono ora supportati attraverso i decisori russi che ci visitano, sia attraverso i loro omologhi siriani, che vengono inviati a Mosca.
- Avete in programma di visitare la Russia nel prossimo futuro, o per invitare il presidente russo in Siria?
- E’ certamente possibile, ma credo che sia necessario fare tutti gli sforzi per risolvere la crisi siriana.  Ora stiamo perdendo persone ogni giorno, ma quando le circostanze miglioreranno, naturalmente, o farò visita al presidente Putin, o lo inviteremo a Damasco.
- Sempre sui rapporti con la Russia. Voi sapete che la Russia si oppone alla politica degli Stati Uniti e dell’Unione europea sulla questione siriana. Che cosa accadrebbe se la Russia darebbe spazio alla loro pressione? Non è possibile un tale scenario?
- Fino ad oggi è importante guardare le relazioni russo-americane non solo attraverso la crisi siriana ma attraverso una visione più ampia.  La differenza di posizioni sulla crisi siriana è solo una delle contraddizioni esistenti tra i vostri paesi.  Con il crollo dell’Unione Sovietica, agli Stati Uniti sembrava che la Russia fosse distrutta per sempre.  Ma alla fine del 1990, con l’avvento di Vladimir Putin, la Russia ha progressivamente guadagnato forza e con insistenza difende le proprie posizioni a seguito di una nuova guerra fredda di influenza politica.  Gli Stati Uniti hanno agito su più fronti, con insistenza cercando di bloccare gli interessi della Russia nel mondo.
L’obiettivo degli Stati Uniti è di sminuire il ruolo della Russia sulla scena internazionale, anche mediante la pressione sulla questione siriana.
Ci si può chiedere perché la Russia sostenga la Siria. Ed è molto importante spiegare questo punto.  La Russia di oggi non sta proteggendo il presidente o il governo di Bashar al-Assad, il popolo siriano può scegliere qualsiasi presidente e qualsiasi governo.
La Russia difende i principi che valgono almeno da un centinaio di anni: i principi di indipendenza e di non ingerenza negli affari interni di altri Stati.  La Russia ha ripetutamente sofferto di questo.
Inoltre, la Russia difende i propri interessi nella regione, ed è suo diritto.  Questi interessi non sono limitati al porto di Tartus, per esempio.  I suoi interessi sono molto più profondi: gli attacchi terroristici contro la Siria minacciano la stabilità di tutto il Medio Oriente.  Destabilizzare qui si rifletterebbe sulla Russia.
Per quanto riguarda la situazione culturale e sociale, non dobbiamo dimenticare le migliaia di famiglie russo-siriane che creano unione, un ponte sociale tra i due paesi.  […]  Oggi il quadro è diventato assolutamente chiaro a tutti.
- Ci sono dei negoziati con la Russia per la fornitura di carburante, beni e armi? In particolare vorrei chiedere sul contratto per la fornitura di S-300 sistemi,  sono stati consegnati a voi?
- Nessun paese può rivendicare l’esistenza di determinate armi o firmare il contratto di fornitura  questo fa parte dei segreti di Stato e delle forze armate.
Ma voglio dire che tutti i contratti stipulati con la Russia sono validi.  E né crisi né pressioni da parte degli Stati Uniti, in Europa e nei paesi del Golfo ne hanno impedito l’attuazione.  La Russia rifornisce alla Siria quello che serve per proteggerla e proteggere la sua gente.
Che tipo di aiuto attende la Siria dalla Russia: economico o materiale? La Siria non ha intenzione di chiedere un prestito dalla Russia?
- Quando la sicurezza nazionale è indebolita, questo porta a un indebolimento economico e non solo. E il fatto che la Russia fornisca contratti militari alla Siria porterà certamente ad un miglioramento della situazione economica in Siria.
Il Sostegno della Russia per il nostro diritto di affermare l’indipendenza sin dall’inizio ha aiutato la nostra economia. Un certo numero di stati si sono opposti al ​​popolo siriano, e inflitto gravi danni alla nostra economia, soprattutto a causa del blocco economico, a causa del quale noi oggi soffriamo. La Russia ha agito in modo diverso.
Il sostegno politico della Russia, e la precisa esecuzione di contratti militari, nonostante le pressioni degli Stati Uniti hanno inciso in modo significativo la nostra situazione economica.
I prestiti di un paese amico come la Russia, sono vantaggiosi per entrambe le parti. Per la Russia può significare l’espansione dei mercati e di nuove opportunità per le imprese russe, e per la Siria è l’occasione per raccogliere fondi per lo sviluppo della propria economia.
Questo è per non parlare dei contratti già firmati con diverse aziende russe per la fornitura di una vasta gamma di prodotti.
Ancora una volta, direi che la posizione politica della Russia e il suo sostegno ha un effetto positivo della Siria sulla stabilità e la prosperità dei cittadini siriani.
- È possibile specificare i dettagli dell’accordo: sia che si riferiscano a carburante che a cibo?
- Le sanzioni economiche oggi stanno bloccando la ricezione da parte dei cittadini siriani di cibo, medicine e carburante. Questi sono i prodotti di base necessari per la vita. E, di conseguenza, il governo siriano sta firmando accordi con la Russia e altri paesi amici, per avere questi prodotti.
- Tornando alla questione siriana – sappiamo che più volte è stata fatta un’amnistia. Quali sono i risultati? C’è qualcuno tra quei ribelli amnistiati che stanno combattendo nei ranghi delle forze governative?
- Sì, è vero, l’amnistia sta producendo risultati positivi. Soprattutto quando l’immagine di ciò che sta accadendo in Siria è diventato chiara a tutti.
Molti dei ribelli hanno deposto le armi e sono tornati alla vita normale. Molti di loro sono passati con il governo. Questi gruppi sono divisi in due parti: il primo è stato ingannato dalla stampa, la il secondo, coloro che sono stati costretti sotto minaccia ad entrare nelle file delle terroristiche. Pertanto siamo sempre convinti che si debba lasciare la porta aperta per chi ha deciso prendere la strada che andava contro il proprio paese. Mentre molti in Siria si sono opposti all’amnistia, essa ha pagato ed è stata in grado di ridurre la tensione nella società.
Signor Presidente, quali sono i principali alleati e gli avversari? Di chi è la colpa dei recenti cattivi rapporti sopraggiunti con alcuni paesi?
- I paesi che ci sostengono nel mondo sono la Russia e la Cina, e a livello regionale l’Iran. Ma posso dire che nel mondo vi è un cambiamento positivo: alcuni paesi che erano radicalmente contro di noi, hanno cominciato a cambiare le loro posizioni, mentre altri hanno già ripristinato i rapporti con la Siria. E ci sono paesi che non ci supportano direttamente.
Ci sono un certo numero di Stati che hanno sostenuto i terroristi in Siria alla luce del sole – il Qatar e Turchia.
Il Qatar – sponsor del terrorismo, e la Turchia offre corridoi per loro. Ora l’Arabia Saudita ha sostituito il Qatar come sponsor. L’Arabia Saudita – un paese che ha solo il denaro, ma chi ha solo il denaro non è in grado di creare una società civile e per mantenere la pace.
Se l’Arabia Saudita agisce come sponsor principale, la Turchia ha una posizione diversa. E’ un peccato che un tale stato come Ankara, possa essere controllato da un paio di dollari. Purtroppo, questo grande paese con una posizione strategica e una società progressista è controllato da uno degli Stati del Golfo. Ma Non vi è colpa del popolo turco, con cui condividiamo molti dei costumi e del patrimonio, le responsabilità sono del Primo Ministro.
- Cosa c’è dietro la posizione comune della Russia e della Siria  solo interessi geopolitici o persino la somiglianza delle due nazioni, che devono fare i conti con la costante minaccia del terrorismo?
- Russia e Siria hanno molto in comune. Il primo di essi, la Russia, ha sperimentato un’occupazione durante la seconda guerra mondiale, e la Siria è stato più volte occupato. In secondo luogo, la Russia, come la Siria, ha subito numerosi tentativi di interferire nei suoi affari interni. Terzo il terrorismo. In Siria si capisce cosa significa veder uccidere civili dai militanti nel Caucaso del Nord, sappiamo della presa di ostaggi a Beslan e del musical “Nord-Est” a Mosca. Così, i russi capiscono con che cosa abbiamo a che fare in Siria, perché essi stessi hanno avuto esperienza del terrorismo su se stessa. […]
C’è un’altra somiglianza tra la Russia e la Siria – è la famiglia comune di cui ho accennato in precedenza. Se non fosse per le affinità culturali e sociali e mentali, ci sarebbero quelle famiglie che legano i due paesi. Aggiungo a tutto questo: ci sono interessi geopolitici, che ho anche menzionato. L’instabilità in Siria e nella regione nel suo complesso influirà anche sulla Russia. Lei è ben consapevole che la minaccia del terrorismo non ha confini. Sarebbe sbagliato pensare che la posizione di questo grande Stato come la Russia, si basi solo su uno o due principi.
Cosa si aspetta dal convegno “Ginevra-2″?
- La missione della conferenza di Ginevra può aprire la strada a una soluzione politica in Siria. Ma non siamo in grado di avviare un dialogo sulla direzione politica finché non si finirà di sostenere il terrorismo dall’estero. Ginevra sta mettendo pressione su quei paesi che sostengono il terrorismo in Siria. E’ necessario fermare il contrabbando di armi e mercenari ai terroristi inviati a noi. Quando verrà a mancare questo sarà molto più facile lavorare sull’organizzazione del dialogo politico tra tutte le parti siriane sulla futura forma di governo, di legge e di Costituzione.