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28 giugno 2018

Scienza e militanza. Un ricordo di Domenico Losurdo




di Angelo d’Orsi per Micromega 

Il destino è sovente beffardo, oltre che crudele. Quando mi giunge la notizia, peraltro attesa, della scomparsa di Domenico Losurdo (nato nel 1941, a Sannicandro, in Puglia), mi è venuto alla mente Antonio Labriola, filosofo socratico, che poco amava scrivere ed affidava il suo sapere perlopiù alla parola detta, più che a quella fermata sulla carta: Labriola morì di un cancro alla gola, che gli impedì di parlare prima di strapparlo alla vita. Losurdo, storico e filosofo, militante comunista, docente, studioso di altissimo livello, scrittore prolifico, e insomma, quel che si dice “una gran testa”, è morto di un tumore al cervello che se l’è portato via in tutta fretta, lasciandoci attoniti. Quel cervello che sembrava inarrestabile, generoso quanto rigoroso, una vera macchina da guerra, sconfitto da una stupida malattia. 

Il suo attivismo quasi frenetico, sia che si trattasse di scrivere un articolo, di lavorare a una ricerca, o di tenere una conferenza, era sempre pronto. Saliva su un treno, con un piccolo bagaglio, con le sue camicie a righe, sempre senza cravatta, con abiti sempre da mezza stagione, e macinava chilometri e chilometri, per portare una sua visione del mondo in giro per l’Italia, per l’Europa, per il mondo: sono pochi i Paesi in cui Losurdo non sia stato invitato, per convegni, lezioni, o presentazioni di traduzioni dei suoi libri. E sono stati davvero tanti, quei libri, tutti ricchi di dottrina, persino ridondanti. Un regesto, anche incompleto, risulterebbe improponibile in uno spazio come questo. Il fatto è che Domenico, Mimmo per gli amici, è stato uomo davvero dai molteplici interessi, tra filosofia e dottrine politiche, in grado di coprire, grazie ad una erudizione sterminata, campi assai vasti del sapere. 

Di formazione filosofo, Losurdo aveva a differenza di buona parte dei suoi colleghi, non solo il massimo rispetto per la storia, compresa la dimensione biografica degli autori che studiava, ma ha nutrito ogni suo scritto di storicità. Era ben conscio che, per citare ancora Labriola, “le idee non cascano dal cielo”, e dietro, sotto, le idee egli cercò sempre le basi strutturali, i contesti ideologici, cercando, da autentico e ferrato storico materialista, di mettere in luce le connessioni tra economia e ideologia, tra interessi sociali e dibattiti culturali. Un marxista per convinzione, sia per gli ideali politici, sia per una precisa scelta metodologica. Era persuaso, Losurdo, che senza mettere in luce quelle connessioni, senza scavare nel backstage delle idee politiche, non si potesse averne piena cognizione. 

Comunista non pentito, aveva aderito al tentativo del piccolo partito cui era iscritto, il PdCI di dare vita a un nuovo, possibilmente grande partito comunista italiano: quando alle prime prove gli esiti elettorali furono modesti e, con un po’ di malizia, glielo feci notare, egli senza scomporsi mi rispose: “Noi lavoriamo sui tempi lunghi”, reiterando l’invito ad aggregarmi. Che non raccolsi, naturalmente, né, del resto, condividevo tutti gli orientamenti di Losurdo, anche se ho recensito e presentato parecchi suoi libri, e soprattutto abbiamo condotto molte battaglie in comune, in primo luogo quelle contro la retorica sionista pronta a usare il tabù dell’antisemitismo per emarginare e condannare all’isolamento chiunque criticasse i governanti israeliani. 

Discutendo alcuni suoi lavori, non ho rinunciato alle critiche, sempre mettendo in evidenza da un lato la prodigiosa capacità produttiva, e dall’altro l’originalità di molte sue analisi, mai scontate, anche se, talvolta, per chi conosceva il pensiero losurdiano, prevedibili. Aveva il chiodo fisso dell’antimperialismo, e si batteva perché la stessa categoria teorica di “imperialismo” e quella ad essa vicinissima di “colonialismo” ricuperassero piena cittadinanza nelle analisi geopolitiche. Ammiratore critico (ossia tutt’altro che becero, ma il dissenso qui tra noi era sensibile) di Stalin, come grande protagonista della lotta mondiale al nazifascismo, negli ultimi anni si era molto occupato della Cina, diventandone un esperto, sul piano dell’analisi ideologica. Ma rimase fino alla fine un militante, un combattente, e nei suoi interventi pubblici non abbandonava mai un certo tono comiziante, capace di tener desto l’uditorio, e di animarlo, anche se non sempre di convincerlo. 

A lungo docente di Storia della filosofia nell’Ateneo di Urbino, ne era diventato poi professore emerito, e ricopriva diversi prestigiosi incarichi scientifici a livello internazionale, specie nel mondo degli studi hegeliani e marxengelsiani. 

Nella vastissima bibliografia losurdiana, arbitrariamente, scelgo questi titoli: La comunità, la morte, l’Occidente (Bollati Boringhieri, 1991), forse il suo libro più affascinante; Il revisionismo storico. Problemi e miti (Laterza, 1996), caposaldo teorico della lotta antirevisionistica; Nietzsche, il ribelle aristocratico (Bollati Boringhieri, 1997), un autentico capolavoro, a dispetto della sua mole impressionante; Controstoria del liberalismo (Carocci, 2005), un affresco che svela il “lato oscuro” della pseudo-democrazia liberale; Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), un’analisi tanto più preziosa oggi davanti al “trumpismo”; La lotta di classe. Una storia politica e filosofica(Laterza, 2015), una lettura originale dell’eterno scontro tra oppressi e oppressori; Un mondo senza guerre (Carocci, 2016), libro che aggiunge a una sapiente analisi del mondo bellicistico una prospettiva di alternativa radicale. E l’ultimo: Il marxismo occidentale (Laterza, 2017), del quale è rilevante il sottotitolo: “Come nacque, come morì, come può rinascere”, dove si nota perfettamente la natura duplice dell’autore: studioso e militante. E la sua scomparsa, dunque, suona come un mesto messaggio per il mondo degli studi, ma anche per il quello della militanza politica. Anche sotto questo aspetto, Domenico Losurdo appare una figura oggi insostituibile. Il che rende la sua perdita gravissima. 

(28 giugno 2018)

Il mio personale ricordo.

E' morto, dopo una breve ma fatale malattia, Domenico Losurdo. 
E' una grandissima perdita ma ci lascia i suoi scritti, molte delle sue lezioni e i suoi allievi. 
A maggio dello scorso anno ho avuto modo di assistere a una sua conferenza e già lo trovai abbastanza debilitato. rispetto ai video delle conferenze che avevo visto nei mesi precedenti. 
I suoi insegnamenti e il suo metodo dovrebbero essere la guida per una sinistra che senza "autofobia" e sensi di colpa, deve tornare a imporre le proprie parole d'ordine .
Un affettuoso, grato e commosso addio, Maestro.

04 agosto 2017

Otto principi fondamentali della politica economica cinese contemporanea

Da Giù le mani dalla Cina.

Il rapido sviluppo economico della Cina negli ultimi anni è stato spesso definito con aggettivi quali “miracoloso” [1]. Parlare di un “Beijing Consensus” o di un “modello cinese” è diventata ormai prassi comune nei dibattiti accademici.
Ma, come abbiamo scritto altrove, “forti problemi teorici sono iniziati ad emergere per quanto riguarda l’esistenza, il contenuto, e le prospettive del modello Cina” [2]. La domanda chiave, quindi, è la seguente: quale tipo di teoria economica e quale strategia sono alla base di questo “miracolo”? Il modello cinese è stato variamente descritto, alternativamente, come una forma di neoliberismo, o come un nuovo tipo di keynesismo. Riteniamo che i grandi progressi recenti registrati nello sviluppo del paese siano i risultati dei progressi teorici nel campo dell’Economia Politica, verificatisi all’interno dello stesso contesto cinese; al contrario, i principali problemi che hanno accompagnato lo sviluppo della Cina riflettono l’influenza dannosa del neoliberismo occidentale.
Il presidente Xi Jinping ha sottolineato la necessità di sostenere e sviluppare una politica economica Marxiana per il XXI secolo, adattata alle esigenze e alle risorse della Cina. Il bollettino di una conferenza sullo stato dell’Economia cinese del Comitato Centrale del Partito Comunista (tenutasi nel Dicembre 2015), ha riaffermato, di conseguenza, l’importanza degli otto grandi principi della “Economia Politica Socialista con Caratteristiche Cinesi”.
Questi principi e le loro applicazioni sono discussi nel seguito, insieme ad alcuni commenti sulle possibili interpretazioni, attualmente oggetto di dibattito intellettuali cinesi.
Scopo di questo articolo è quello di chiarire il modello teorico ufficiale che sta alla base del “miracolo” economico cinese, utilizzando, a tal fine, i termini e i concetti prevalenti nella Cina odierna.
1. Sostenibilità guidata da Scienza e Tecnologia
Una premessa fondamentale delle teorie di economia politica elaborate da Marx sostiene che le forze di produzione, in ultima analisi, determinano i rapporti di produzione, dando origine ad una dialettica costante che modella la sovrastruttura dell’ideologia e delle istituzioni giuridiche e politiche. Allo stesso tempo, i rapporti di produzione che prevalgono in un determinato stadio di sviluppo finiscono per diventare vincoli che impediscono l’ulteriore sviluppo di altre modalità produttive. All’interno di questo processo le forze di produzione rappresentano gli elementi più dinamici, rivoluzionari e attivi della società; gli esseri umani che sviluppano costantemente le tecnologie più avanzate e nuove modalità organizzative rappresentano la forza motrice della produzione. Oggi lo sviluppo della produttività comporta tre elementi essenziali sostanziali: la forza-lavoro, gli strumenti ed i macchinari, i materiali. A questi si accompagnano tre ulteriori elementi fortemente interrelati: la scienza e la tecnologia, la gestione, l’istruzione. Tra questi, la scienza e la tecnologia tendono a guidare i cambiamenti decisivi che portano all’ulteriore sviluppo delle forze di produzione.
Il principio della sostenibilità, ispirato dalla scienza e dalla tecnologia, è fondamentale nello studio della politica economica della Cina. Questo principio enfatizza il fatto che la liberazione e lo sviluppo delle forze di produzione costituiscano la missione principale del Socialismo nei suoi stadi primari. Come modello economico, il Socialismo richiede un certo livello di sviluppo materiale e tecnologico alla sua base. Questo principio sottolinea che la crescita della popolazione, lo sfruttamento e l’allocazione delle risorse, l’ambiente debbano sostenersi a vicenda. In pratica, secondo il quadro economico-politico ufficiale della Cina, questo significa la costruzione di una società dalle tre caratteristiche fondamentali: una società qualitativamente avanzata,  da raggiungere attraverso il controllo e la riduzione della popolazione; una società efficientemente avanzata, cui pervenire attraverso la conservazione delle risorse;  una società in cui l’ambiente sia protetto e tutelato. Tutto ciò richiede continua innovazione come forza motrice.
L’accento sull’innovazione sostenibile è particolarmente importante oggi. Storicamente, il “collo di bottiglia” che ha limitato lo sviluppo economico e sociale cinese è stato rappresentato dalla carenza di forze motrici dell’innovazione. Dal 1998 al 2003, la produzione di alta tecnologia della Cina non solo dipendeva in larga misura da materiali importati, ma è stata anche in gran parte gestita da imprese e da investitori stranieri. Ad esempio, nel 2003, le imprese cinesi dipendenti da investimenti stranieri rappresentavano circa il 90% delle esportazioni del paese di computer, componenti e periferiche, ed il 75% delle sue esportazioni di attrezzature elettroniche e per le telecomunicazioni [3]. Da allora, il governo cinese ha prestato maggiore attenzione alla politica dell’ innovazione.
Solo se i diritti di proprietà intellettuale saranno protetti a tutti i livelli le imprese cinesi e l’economia nel suo complesso potranno sfruttare i vantaggi commerciali derivanti dall’utilizzo di marchi riconosciuti e da progressi tecnici in alcuni settori, così come soddisfare gli standard tecnici internazionali necessari per l’esportazione [4]. Nel clima economico attuale, solo se riconosciamo all’innovazione il ruolo di prima forza motrice dello sviluppo, possiamo proteggere il paese da vari rischi: risolvere la difficoltà connesse all’eccesso di capacità produttiva; realizzare la trasformazione strutturale e l’aggiornamento dell’economia; tenere il passo con il ritmo dello sviluppo scientifico e tecnologico globale. Solo se affidiamo all’innovazione il compito primario di promuovere lo sviluppo e la usiamo per trasformare le forze produttive esistenti, coltivarne di nuove, rivitalizzare quelle vecchie, e creare le condizioni affinché possano emergerne di nuove costantemente, possiamo infondere forti stimoli allo sviluppo sostenibile dell’economia e della società.
Dovremmo, al tempo stesso, abbandonare quelle vecchie idee prevalenti nel discorso economico cinese come “produrre non è vantaggioso come l’acquistare, che a sua volta non è altrettanto vantaggioso quanto la rendita”, “utilizzare il mercato per l’acquisizione delle tecnologie” e così via, e affrontare la questione dell’innovazione originale, dell’innovazione integrata, e della ri-innovazione, introducendo e assorbendo l’innovazione nell’economia. Dovremmo stabilire un sistema che combini governo, mercato e tecnologia, al fine di trasferire spontaneismo economico nei processi di “atomizzazione” produttiva. Durante questo processo, l’effetto determinante della scienza e della tecnologia deve essere pienamente compreso, e dovremmo, a livello strategico, riconoscere l’importanza della scienza e della tecnologia nel guidare la distribuzione delle risorse [5].
2. Orientare la produzione per migliorare la vita delle persone
Uno dei principi dell’economia politica è la teoria dello scopo della produzione. Nel Capitalismo, l’obiettivo diretto e finale della produzione è quello di accumulare la maggiore quota possibile di plusvalore o profitto privato; in questo contesto, la produzione di valore d’uso ha lo scopo di servire la produzione di plusvalore o profitto privato. A questo proposito, c’è una differenza sostanziale tra il Capitalismo e il Socialismo. Nel Capitalismo, che persegue il profitto dei pochi, l’accumulo si verifica su scala mondiale, mentre la grande maggioranza delle masse popolari vivono in povertà [6]. In contrasto con questo modello, l’obiettivo diretto e ultimo della produzione nel Socialismo è quello di soddisfare i bisogni materiali e culturali delle persone. La produzione di nuovo valore e di plusvalore “pubblico” ha l’obiettivo di servire la produzione di valore d’uso che rifletta obiettivi della produzione orientati al popolo ed ai suoi bisogni primari.
L’Economia Politica del Socialismo con Caratteristiche Cinesi deve seguire il principio di organizzare la produzione per migliorare il tenore di vita e soddisfare le esigenze primarie del popolo. Questo principio sottolinea che la principale contraddizione nel Socialismo nella sua prima fase è quella tra o crescenti bisogni materiali e culturali del popolo, e l’arretratezza della produzione sociale. Questa discrepanza può essere superata solo attraverso lo sviluppo rapido e costante delle capacità produttive; questo è il compito primario del Socialismo nelle sue fasi iniziali. Questo sviluppo deve avere il popolo al centro, con la prosperità collettiva come obiettivo-guida. Il nostro obiettivo deve essere una società in cui tutte le persone contribuiscano alla soddisfazione dei bisogni umani nella misura in cui essi sono in grado, e godano di un accesso alle risorse materiali, sociali, e spirituali di cui hanno bisogno per il pieno sviluppo del loro potenziale umano in accordo, naturalmente, con le esigenze di sostenibilità ambientale [7].
Il punto di vista per il quale il miglioramento delle condizioni di vita del popolo equivale allo sviluppo è un’articolazione del principio dello scopo della produzione e dello sviluppo economico socialista. Dobbiamo continuare a rendere lo sviluppo economico il nostro compito centrale e insistere sull’idea strategica di dare allo sviluppo economico primaria importanza. Dobbiamo perseguire l’innovazione come elemento fondamentale per questo cambiamento favorendo in tal modo lo sviluppo cinese e permettendogli di raggiungere livelli più elevati. Tuttavia, il punto di partenza e il punto di arrivo dello sviluppo della produzione e dell’economia deve essere quello di migliorare le condizioni di vita delle persone; ci dovremmo quindi porre l’obiettivo di costruire una società benestante a tutto tondo. Ogni piano di miglioramento delle condizioni di vita del popolo deve cercare di soddisfare sette criteri: creazione di ricchezza e distribuzione del reddito; alleviamento della povertà; occupazione; diritto alla casa; istruzione; accesso alle cure mediche; sicurezza sociale. Nelle attuali circostanze di rallentamento della crescita e di sviluppo dei mercati interni, questi criteri devono essere soddisfatti attraverso il coordinamento della necessità di sviluppo economico e di sviluppo sociale.
Migliorare le condizioni di vita del popolo è un compito senza fine, relativamente al quale emergono continuamente nuove sfide. Dobbiamo adottare misure più mirate e dirette, aiutare i lavoratori a risolvere le loro difficoltà e promuovere il loro benessere attraverso le istituzioni statali e la società civile. Dobbiamo valutare realisticamente gli effetti delle nostre azioni sugli standard di vita, assicurando che i servizi pubblici creino una affidabile “rete di sicurezza”.
3. La precedenza della proprietà pubblica sui diritti della proprietà nazionale
Le tensioni di base tra una produzione sempre più orientata a servire scopi sociali e la proprietà privata capitalista danno luogo ad ulteriori contraddizioni e possibili crisi. Queste includono il conflitto tra la gestione e la pianificazione delle imprese private e il caos del mercato, la disparità tra l’espansione indefinita della produzione e la relativa carenza di domanda reale, ed il verificarsi di periodiche bolle, fenomeni di panico nei mercati, recessioni. Gli antagonismi di classe che derivano da queste contraddizioni hanno storicamente ispirato movimenti di massa per sostituire la proprietà privata dei mezzi di produzione con la proprietà pubblica.
L’economia politica contemporanea cinese salvaguarda il principio dei diritti di proprietà privata, ribadendo, tuttavia, il predominio della proprietà pubblica. Nel contesto del relativo sottosviluppo delle forze produttive proprio degli stadi primari del Socialismo, lo sviluppo economico ha richiesto che ad una proprietà pubblica dominante fossero affiancate forme diversificate di proprietà privata: “Le imprese private nazionali ed estere possono essere sviluppate fatto salvo il presupposto della priorità – sia in termini qualitativi che quantitativi – dell’ economia pubblica” [8]. Questo principio sottolinea la continua necessità di rafforzare e sviluppare l’economia pubblica, favorendo, al contempo, anche lo sviluppo dei settori privati dell’economia, assicurando che tutte le forme di proprietà compensino le proprie mutue carenze attraverso una reciproca promozione ed uno sviluppo coordinato. Cionondimeno, il ruolo centrale della proprietà pubblica deve essere salvaguardato, così come il settore statale deve conservare un carattere dominante nell’economia. Questo rappresenta una garanzia istituzionale per tutti i cinesi rispetto al fatto che essi condivideranno, a livello collettivo, i frutti dello sviluppo; al tempo stesso, ciò è una garanzia importante del consolidamento del ruolo-guida del partito e del sistema socialista cinese.
Il principio mette in risalto una differenza fondamentale tra l’economia socialista ed il sistema economico capitalistico moderno, in cui la proprietà privata è dominante. Se gestita correttamente, la proprietà pubblica può non solo avere una integrazione organica con l’economia di mercato, ma anche ottenere, come risultato finale, una maggiore equità ed efficienza rispetto a quella cui è possibile pervenire tramite la proprietà privata. Nel frattempo, dovremmo anche notare chiaramente che attualmente il mondo è ancora diviso in stati-nazione e che la proprietà statale rimane una forma adeguata di proprietà socialista.
Allo stato attuale, dobbiamo essere guidati dall’idea che il settore statale agisca come fondamento dell’economia socialista, e che l’obiettivo delle riforme orientate a promuovere la proprietà mista non è quello di minare alle fondamenta l’impresa di proprietà statale, ma di rafforzarla. Dobbiamo imparare dagli errori passati della riforma del settore statale, che hanno permesso ad una élite ristretta di accumulare enormi fortune attraverso la cattiva gestione di fondi pubblici. Abbiamo bisogno di concentrarci sullo sviluppo di nuovi strumenti di proprietà mista con la partecipazione di capitali pubblici. Il modello collettivo e cooperativo delle economie cinesi rurali ha bisogno di ulteriori investimenti. Nuove politiche devono essere introdotte per migliorare la vitalità, la competitività, e la gestione del rischio dell’economia pubblica. Il governo dovrebbe controllare e regolare le imprese private, sia in patria che all’estero, e non solo supportarle, al fine di trarne benefici generali, riducendo al minimo i loro effetti negativi. La Cina dovrebbe incoraggiare e guidare le imprese private ad attuare le riforme che consentano ai lavoratori di accumulare partecipazione azionaria, in modo che sia il capitale che il lavoro possano trarre benefici che siano realmente a vantaggio della prosperità collettiva.
4. Il primato del lavoro nella distribuzione della ricchezza
In ogni economia capitalista, i lavoratori salariati sono pagati solo in base alla loro forza lavoro, e non per il valore delle merci che producono. In queste condizioni, il salario specifico che un lavoratore guadagna è associato con la sua posizione e le sue prestazioni. E mentre in alcuni settori delle economie capitaliste, la presenza di organizzazioni collettive del mondo del lavoro può limitare il tasso di sfruttamento e fornire l’apparenza di una equa distribuzione della ricchezza, il potere dominante resta quello fornito dalla proprietà privata dei mezzi di produzione ai datori di lavoro.
La distribuzione della ricchezza nell’economia socialista cinese deve essere guidata dalle esigenze del lavoro; non da quelle del capitale. Dobbiamo lottare contro lo sfruttamento e la polarizzazione. Le disuguaglianze nei redditi devono essere colmate, e crescita economica e aumenti nella produttività del lavoro dovrebbero tradursi in aumenti salariali per tutti i cittadini. E’ di vitale importanza, dunque, stabilire un solido e scientifico meccanismo per determinare i livelli salariali, così come un meccanismo di indicizzazione dei salari.
Dobbiamo mettere in pratica l’idea che solo attraverso la costruzione di istituzioni atte a garantire che i benefici della crescita della Cina siano equamente distribuiti si potrà fornire al popolo un senso di scopo comune rispetto al progetto di sviluppo economico. Dobbiamo rafforzare lo slancio dello sviluppo e promuovere l’unità popolare, avanzando gradualmente e costantemente verso la prosperità collettiva. Solo se l’allocazione delle risorse si concentrerà sul benessere collettivo, la produzione sociale potrà essere effettuata in modo sano e costante e la superiorità del sistema socialista potrà essere realizzata nella pratica.
L’adesione ad una idea di sviluppo condiviso coinvolge principalmente i problemi di sostentamento del popolo e della prosperità collettiva; tra questi, il problema della distribuzione della ricchezza è sicuramente il più rilevante. Infatti, oggi, la cattiva distribuzione della ricchezza è il più grande ostacolo alla prosperità collettiva. Abbiamo assistito a un grave declino della quota di lavoro del PIL (da circa il 53% nel 1990 al 42% nel 2007). La presenza di un crescente “esercito industriale di riserva”, la segmentazione del mercato del lavoro, e le massicce privatizzazioni delle imprese statali hanno significativamente depresso il potere e indebolito la solidarietà interna alla classe operaia [9]. In Cina oggi, le disuguaglianze nella distribuzione della proprietà e nel reddito sono grandi e in crescita, con un coefficiente di Gini nazionale superiore a quello degli Stati Uniti. Il più ricco 1% delle famiglie cinesi controlla un terzo di tutte le attività economiche; un dato simile a quello osservabile negli Stati Uniti. Dobbiamo notare che l’indice principale di polarizzazione tra ricchi e poveri non è fornito dal reddito da salari, ma dalla ricchezza, cioè, dal patrimonio netto delle famiglie [10].
Negli ultimi dieci anni, i documenti ufficiali hanno sottolineato l’importanza di implementare misure per affrontare il problema della disuguaglianza nei redditi, ma ciò si è rivelato controverso. In genere, alcuni articoli rintracciabili nella stampa cinese persino elogiano i ricchi come motori della crescita economica e come modelli di comportamento sociale, i quali, in tal modo meriterebbero di detenere una quota sproporzionata di ricchezza del paese. Questa idea, oggi assai popolare, ma dal potenziale altamente distruttivo, sostiene che l’attuale divario tra ricchi e poveri è un problema banale, non correlato allo sviluppo su larga scala delle economie non-pubbliche, e che la vera preoccupazione è ora la cosiddetta “trappola del reddito medio” [11].
In realtà, è stato il neoliberismo ad inventare il concetto di “trappola del reddito medio”, e a trascinare i paesi dell’America Latina in esso. Ha inoltre contribuito affinché le economie ad alto reddito, come gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione Europea, precipitassero in una crisi finanziaria, e paesi a basso reddito, come quelli dell’Africa sub-sahariana restassero impantanati in prospettive di sviluppo lento a lungo termine. L’economista Mylene Gaulard scrive quanto segue:
La crescita economica cinese ha rallentato dal 2002. Molte ricerche sulla “trappola del reddito medio” stanno mantenendo un occhio vigile sulla possibilità o meno, da parte della Cina, di unirsi al gruppo di nazioni ad alto reddito con il suo PIL pro capite. La maggior parte delle ricerche paiono esprimere scetticismo dovuto all’aumento del costo salariale, per l’esattezza, all’aumento del costo unitario del lavoro, che comporterebbe la perdita di competitività internazionale. Tuttavia, a causa del fatto che l’aumento del costo unitario del lavoro non sembra così rischioso come la diminuzione dell’efficienza del capitale, dovremmo consultare l’ analisi marxista per comprendere meglio questo problema. [12]
La Cina deve prestare attenzione agli insegnamenti di Deng Xiaoping, espressi alla fine del secolo scorso, per risolvere i problemi del divario tra ricchi e poveri e per raggiungere la prosperità collettiva, sviluppando un meccanismo per la ricchezza e la distribuzione del reddito basato sul primato del lavoro [13].
5. Il principio del mercato guidato dallo Stato
Il carattere anarchico del mercato capitalistico, e la spinta del singolo capitalista ad innovare al fine di ridurre i costi del lavoro, portano periodicamente alle crisi di sovrapproduzione, delle quali sono i lavoratori a soffrire maggiormente. Tali crisi possono essere a breve o a lungo termine, a seconda del grado di fattori “non di mercato” presenti, in particolare dal livello di condizioni monopolistiche. In un’economia di mercato capitalistica, questa legge proporzionale si basa principalmente su tali aggiustamenti spontanei, e il ruolo della regolamentazione statale è relativamente limitato.
Al contrario, nell’economia socialista cinese, il mercato è guidato dallo Stato; non il contrario. Marta Harnecker ha sostenuto che, senza la pianificazione partecipativa non può esistere il Socialismo, non solo a causa della necessità di porre fine all’anarchia della produzione capitalistica, ma anche perché solo attraverso l’impegno di massa la società può veramente appropriarsi dei frutti del suo lavoro. Gli attori da coinvolgere nella progettazione partecipata varieranno in base ai diversi livelli di proprietà sociale [14]. Questi principi di un “mercato guidato dallo stato” sottolineano che una società socialista è in grado di sviluppare un’economia di mercato in modo pianificato e proporzionato, e che il ruolo fondamentale svolto dal mercato nell’allocazione delle risorse deve dispiegarsi sotto la stretta supervisione del governo.
Nel dare al mercato un ruolo determinante nella allocazione generale delle risorse, promuovendo al contempo il ruolo regolatore del governo, ogni sforzo deve essere fatto per affrontare i problemi connessi ai meccanismi imperfetti di mercato, al rischio di un eccessivo intervento pubblico, e, sull’altro versante, a quello di una scarsa vigilanza regolamentativa. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo avanzare riforme orientate al mercato che riducano significativamente l’assegnazione diretta delle risorse da parte del governo e permettano a questa allocazione di verificarsi in base alle regole del mercato (in base a prezzi e concorrenza) per ottenere la massima efficienza. I compiti e le funzioni del governo sono principalmente di mantenere una politica macroeconomica stabile, di rafforzare i servizi pubblici, per garantire una concorrenza leale e rafforzare la sorveglianza del mercato, per promuovere la prosperità collettiva e correggere o compensare le carenze del mercato.
Dobbiamo continuare a cercare di combinare il sistema di base del socialismo con un’economia di mercato. In questo modo, saremo in grado di trarre il massimo vantaggio di entrambi gli aspetti. Va riconosciuto che nell’economia cinese, le leggi dell’ auto-regolamentazione del mercato svolgono un ruolo determinante per quanto riguarda l’allocazione delle risorse in generale, ma queste comunque operano in modo diverso rispetto ai mercati capitalistici. In un’economia capitalistica, il funzionamento del mercato decide l’allocazione delle risorse in maniera autonoma. Al contrario, in un’economia socialista, il governo usa il controllo dei prezzi, le sovvenzioni, il razionamento, e le altre politiche per assicurare che l’allocazione delle risorse sia pianificata e proporzionata. Abbiamo bisogno, quindi, di esaminare meglio il ruolo determinante del mercato e la sua integrazione nei piani del governo. Dovremmo approfittare dei benefici che il  mercato è in grado di offrire e, allo stesso tempo correggere le inefficienze nei meccanismi di regolamentazione sia dello Stato che del mercato stesso, pervenendo così ad un duplice approccio [15]. Ovviamente, visto che l’economia cinese socialista di mercato si basa sul primato della proprietà pubblica, la forza e la portata della regolamentazione in settori quali la legislazione, la politica fiscale, amministrazione, e l’etica superano la capacità di regolamentazione dei governi nelle economie di mercato capitalistiche. Le prestazioni senza precedenti dell’economia cinese negli ultimi decenni sono la prova convincente della maggiore capacità del governo di guidare lo sviluppo.
Non dobbiamo negare l’oggettività della programmazione statale, della pianificazione e della regolamentazione, e ritenere che concetti quali la “legge di regolamentazione statale”, la “legge di pianificazione”, e altre simili leggi fondamentali perdano di validità esclusivamente perché esse possano tramutarsi in eventuali azioni sbagliate a causa della implementazione da parte di attori umani. Sposando questa logica, si dovrebbe ugualmente convenire che, poiché anche nell’attività di mercato esiste un elemento umano, nozioni come la “legge di regolamentazione del mercato” e la “legge del valore” siano ugualmente non applicabili. Dopo tutto, il mercato è determinato dal comportamento umano. L’azione economica umana nel mercato regola l’impresa, la natura delle merci, i prezzi e la concorrenza. Pertanto, sia le leggi di regolamentazione del mercato che quelle di regolamentazione statale si basano su attività umane, nella forma e nel contenuto. Buoni ed efficaci approcci alla micro- e alla macroeconomia richiedono che tutti i lavoratori nelle imprese e il governo cerchino di fornire i propri contributi individuali in sintonia con le attività economiche oggettive in cui gli esseri umani partecipano.
6. Uno sviluppo rapido e ad alte prestazioni
Il tasso di crescita economica ottimale dovrebbe essere determinato in modo da massimizzare le prestazioni economiche. Un tasso di crescita relativamente basso, caratterizzato da un insufficiente uso delle risorse, inibisce la piena occupazione, l’ accumulazione di ricchezza e il benessere pubblico. Eppure, un tasso di crescita più elevato, con un utilizzo delle risorse estensivo piuttosto che intensivo è altrettanto dannoso per la sostenibilità ecologica e per la giustizia distributiva [16]. Qualsiasi indice basato sul Prodotto Interno Lordo (PIL) va analizzato dialetticamente. Valutato in isolamento, qualsiasi approccio di misurazione della crescita incentrato unicamente sul PIL è inadeguato: dobbiamo prestare attenzione non solo alla crescita fine a sé stessa, ma anche al tipo di crescita verso il quale ci stiamo indirizzando, in quali aree essa si concentra, e a quali costi.
L’economia cinese dovrebbe dare la priorità alle prestazioni, piuttosto che alla velocità. Dal 1980 fino al 1990, la crescita economica è stata la priorità assoluta del governo cinese; il PIL è stato quadruplicato nel corso di tale periodo. Entro il 2020, si prevede che il PIL ed il PIL pro-capite doppieranno gli analoghi indicatori misurati nel 2010. Dal 2013, a seguito di trenta anni di crescita rapida quasi ininterrotta, la Cina è entrata in una nuova fase che noi chiamiamo la “nuova normalità”. La crescita ha subito un rallentamento, e l’ economia cinese si sta trasformando da un ampio modello a forte crescita in un modello ad alte prestazioni.
Per raggiungere una crescita economica stabile, dovremmo preoccuparci, anzitutto, di effettuare riforme strutturali per quel che concerne l’economia dell’offerta. Le ragioni principali per il crescente rallentamento dei tassi di crescita dell’economia cinese sono: la mancata riforma delle strutture necessarie per sostenere lunghi periodi di crescita estensiva; la dipendenza di queste ultime dagli input di materie prime; il consumo di risorse primarie; i bassi livelli di innovazione. I cambiamenti della situazione economica, sia in patria che all’estero richiedono un aggiornamento urgente dell’economia cinese: da uno sviluppo rapido ad uno sviluppo di alta qualità [17]. Il mercato del lavoro cinese dovrebbe cambiare ed imbracciare una divisione maggiormente diversificata del lavoro, con una struttura più flessibile.
7. Sviluppo equilibrato con coordinamento strutturale
Uno dei principi di economia politica della Cina è la legge di distribuzione proporzionale del lavoro sociale (o “legge proporzionale” in breve), che governa la contraddittoria dialettica tra produzione sociale e la domanda, insieme alla necessità di coordinare lo sviluppo per l’intera economia nazionale. Tale legge richiede che il lavoro sociale complessivo di persone, strumenti e materiali dovrebbe essere distribuito proporzionalmente in base alla domanda, al fine di mantenere un equilibrio strutturale tra le diverse industrie ed i diversi settori. Nella riproduzione sociale, la produzione e la domanda mantengono un equilibrio dinamico nella loro struttura di valore massimizzando la produzione, riducendo al minimo, al contempo, l’utilizzo di lavoro. Il coordinamento strutturale generalizzato dell’economia si riflette, tra gli altri, nella crescente razionalizzazione e raffinatezza delle infrastrutture industriali, nel commercio estero, nella gestione aziendale, nell’innovazione tecnologica.
Questo principio di equilibrio strutturale coordinato è essenziale per l’economia politica cinese contemporanea. Esso fa parte del suo più ampio obiettivo di promuovere l’evoluzione dell’industria cinese da un livello medio-basso livello ad un livello medio-alto. Nel contesto di crescente modernizzazione, un equilibrio dovrebbe essere mantenuto tra i settori primario, secondario e terziario, ed all’interno di ciascun settore. Le strutture economiche delle province, delle città e delle regioni dovrebbero essere diversificate; il commercio estero dovrebbe coinvolgere una quota maggiore di prodotti nuovi e ad alta tecnologia dei marchi nazionali. Le grandi imprese cinesi dovrebbero mantenere la quota maggiore del commercio, coesistendo con imprese più piccole ed imprese straniere. Per quanto riguarda i prodotti ad alta tecnologia, la percentuale di tecnologie di base possedute e la proporzione dei diritti di proprietà intellettuale detenuti sul mercato mondiale dovrebbero essere aumentate. Nel mercato, la domanda e l’offerta dovrebbero mantenere un equilibrio dinamico, con l’offerta leggermente superiore alla domanda. Lo sviluppo dovrebbe servire l’economia reale e l’economia virtuale non deve essere eccessivamente sviluppata. Le attività di industrializzazione, informatizzazione, urbanizzazione e modernizzazione agricola dovrebbero essere condotte in stretto coordinamento.
Al momento, dobbiamo adattare le nostre teorie, le nostre linee guida e le politiche per lo sviluppo economico a quella che chiamiamo “nuova normalità”. Dobbiamo concentrarci sul rafforzamento delle riforme strutturali dell’offerta, e, al contempo, incrementare moderatamente la domanda lorda e riformare i principali settori dell’economia, con particolare attenzione alla riduzione della eccessiva capacità strutturale. Dovremmo gradualmente ridimensionare la capacità e le riserve, ridurre l’indebitamento delle imprese, e promuovere l’innovazione per ridurre i costi e rafforzare i segmenti deboli del sistema produttivo. I miglioramenti devono essere effettuati anche nella qualità e l’efficienza delle catene logistiche, degli approvvigionamenti, e nell’efficacia degli investimenti. E’ anche importante accelerare lo sviluppo di fonti energetiche eco-compatibili e la dare impulso ad una crescita sostenibile. Dobbiamo abbandonare la persistente idea sbagliata secondo la quale finché si eliminano surplus economici dovuti ad  interventi amministrativi, gli eccessi di capacità produttiva e le sovrapproduzioni causati dal mercato possano essere bilanciati automaticamente senza alcun intervento attivo del governo. Questo errore neoliberista e le sue conseguenze non sono solo la ragione principale per il grande eccesso di capacità produttiva presente nell’economia cinese, ma rappresenta anche una violazione dello spirito del Socialismo cinese.
8. Sovranità economica e apertura
Un principio finale è quello di aprire l’economia al commercio e agli investimenti. Secondo questo principio, tale apertura è vantaggiosa per la crescita economica sia in patria che per quel che concerne le attività commerciali con l’estero, favorendo l’ottimizzazione nell’allocazione delle risorse e il miglioramento delle interazioni tra industria e tecnologia. Le modalità di tali aperture, unitamente alla loro gamma e portata, dovrebbero essere discusse, decise ed attuate in modo flessibile e rispondente alle condizioni complesse e mutevoli dell’economia nazionale e globale. I paesi emergenti ed in via di sviluppo dovrebbero sempre dedicare particolare attenzione alle loro strategie e tattiche nel momento in cui si aprono ai paesi sviluppati, dati i rischi e le incertezze insiti in un rapporto così disuguale.
Una politica economica socialista con caratteristiche cinesi deve concentrarsi, di conseguenza, sul principio della sovranità economica. La Cina dovrebbe insistere sulla politica statale di apertura bidirezionale che integra la politica nazionale e internazionale, sviluppando un’economia aperta di livello superiore traendo vantaggio dai mercati nazionali ed esteri. Ciò comporta l’impostazione di una politica commerciale volta a identificare e sfruttare opportunità reciprocamente vantaggiose, proteggendo nel contempo lo sviluppo della Cina e proteggendo il paese da rischi per la sicurezza economica nazionale. Essa richiede una politica che dia uguale importanza al contributo straniero in economia sia in termini di input che in termini di output, ed in grado di sfruttare sia i latecomer advantages che i pioneer advantages in diversi settori dell’economia [18]. Per fare ciò, la Cina dovrebbe costruire imprese internazionali governate da tre livelli di controllo: il pacchetto azionario, le tecnologie chiave e gli standard tecnologici, unitamente ai marchi dovrebbero rimanere, saldamente, in mani cinesi. Allo stesso tempo, è importante non cadere nelle tradizionali trappole riconducibili alla teoria dei vantaggi comparati [19], e, al contempo, sviluppare teorie e strategie volte a trarre vantaggi dai diritti di proprietà intellettuale.
Nell’immediato futuro, dovremmo concentrarci sull’apertura di diverse regioni al commercio estero, utilizzando i loro punti di forza specifici al fine di evitare una inutile concorrenza tra regioni per lo stesso tipo di commercio, soprattutto quando determinate attività economiche si sposano naturalmente con le caratteristiche di alcune regioni piuttosto che con altre. La Cina dovrebbe fare il miglior uso possibile delle sue importazioni ed esportazioni, non importando prodotti che potrebbero essere altrettanto facilmente prodotti in ambito nazionale, né esportando prodotti per i quali esiste una domanda interna non soddisfatta. E’ altrettanto importante aumentare il livello di distribuzione internazionale, traendo il massimo da competenze e tecnologie straniere per lo sviluppo di capacità di produzione internazionale ed attività manifatturiere. Zone di libero scambio ed investimenti infrastrutturali devono essere negoziati con partner strategici. Nel complesso, la Cina ha bisogno di giocare un ruolo più forte nella governance economica globale.
Un’ulteriore sfida è quella di distribuire in modo efficace gli investimenti esteri cinesi per garantirsi benefici ottimali. Ciò vale anche per le riserve cinesi di valuta estera. A questo proposito è importante imparare il più presto possibile dall’esperienza delle economie sviluppate (Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti) nelle loro relazioni commerciali con partner stranieri. Il problema delle fusioni “decapitanti” è da evitare quando le aziende in crescita e le industrie dall’estero cercano di entrare nel mercato cinese [20]. La Cina deve impegnarsi a rimanere aperta al commercio estero, al fine di approfondire e ampliare la qualità e la crescita della propria produzione economica. Una componente chiave di questa strategia è l’iniziativa “Una Cintura, una Via” [21]. Questo progetto di investimento di massa deve andare di pari passo con lo sviluppo di una nuova architettura finanziaria globale, come incarnata da istituzioni quali la Banca Asiatica per gli Investimenti Infrastrutturali ed il Fondo per la Via della Seta. Queste istituzioni rappresentano punti di riferimento nel più ampio progetto di rafforzare e sostenere il successo economico della Cina.
Articolo di Cheng Enfu e Ding Xiaoqin 
Traduzione di Francesca Cirillo e Andrea Genovese
Ripreso dal sito della Rete dei Comunisti (Italia)
Note Biografiche
Cheng Enfu è un membro dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali e presidente della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World Association for Political Economy).
Ding Xiaoqinè vice direttore del Centro di Economia Politica Socialista con Caratteristiche Cinesi presso la Shanghai University of Finance and Economics, ricercatore post-dottorato presso l’Accademia cinese delle scienze sociali, e segretario generale della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World Association for Political Economy).
Questo articolo è stato tradotto dal cinese all’inglese da Shan Tong (Università di Scienze Politiche e Giurisprudenza della Cina Orientale) e, successivamente, dall’inglese all’italiano ad opera di Francesca Cirillo ed Andrea Genovese.
Note e Riferimenti Bibliografici
[1] La ricerca per questo articolo è stata supportata dal progetto 16NKS081 della Fondazione Nazionale di Scienze Sociali della Cina, e dal progetto 211 della Shanghai University of Finance and Economics. Eventuali richieste di chiarimenti vanno indirizzate Ding Xiaoqin (autore principale dell’articolo).
[2] Enfu Cheng, Xiangyang Xin, “Fundamental Elements of the China Model,”International Critical Thought 1, no. 1 (March 2011): 2–10.
[3] Martin Hart-Landsberg and Paul Burkett, “China, Capitalist Accumulation, and Labor,”Monthly Review 59, no. 1 (May 2007): 17–39.
[4] Xiping Han and Lingling Zhou, “A Review of the Theory of Advantage of Intellectual Property Rights and Its Application Value,”Journal of Economics of Shanghai School 11, no. 3 (2013): 1–9.
[5] Chengxun Yang and Yu Cheng, “The Evolution to Consciousness of Resource Allocation: The Ternary Mechanism—Rethinking the Lessons of Dialectics of Nature by Engels,”Journal of Economics of Shanghai School 13, no. 4 (2015): 31–43.
[6] Harry Magdoff and John Bellamy Foster, “China and Socialism: Editors’ Foreword”, Monthly Review 56, no. 3 (2004): 2–6.
[7] Pat Devine, “Question 1: Why Socialism?”Science & Society 76, no. 2 (2012): 151–71.
[8] Enfu Cheng and Xiangyang Xin, “Fundamental Elements of the China Model,”International Critical Thought 1, no. 1 (2011): 2–10.
[9] Hao Qi, “The Labor Share Question in China,”Monthly Review 65, no. 8 (2014): 23–35.
[10] Secondo Reference News del 17 Ottobre 2015, l’ultimo Hurun Wealth Report mostra che 2015 il numero di miliardari in China (596) ha superato quello degli Stati Uniti (537). Questo numero non include i miliardari di Hong Kong, Macao e Taiwan.
[11] Secondo Hu Shuli (direttrice di  Caixin, gruppo editoriale cinese specializzato nella analisi finanziaria ed economica), una volta che un paese è entrato nella sua fase di reddito medio – considerando l’esportazione di merci ad alta intensità di lavoro come il settore di crescita tradizionale e rappresentativo di una tale condizione – i costi del lavoro cominciano ad aumentare e si perde vantaggio competitivo; considerando la riduzione del divario tecnologico, se si mira a incrementare il tasso di produzione non ci si può più basare sul modello “studio e riproduzione dei prodotti”, ma bisogna avviare un processo di riconversione ricorrendo all’innovazione. Se non si procede in questo modo, si cade tra i due poli dei paesi a basso reddito e di quelli ricchi. Per evitare queste circostanze, settori liberisti cinesi hanno richiesto, più volte, un processo di riforme strutturali per trasformare il modello di crescita economica, lavorando sui punti seguenti: la competizione e la deregolamentazione economica creativa; università con un alto livello di ricerca; un sistema di mercato con una forza lavoro dinamica e che si basi su investimenti con un certo margine di rischio; un sistema finanziario con un mercato di private equity e Securities (Nota a cura dei traduttori)
[12] Mylene Gaulard, “A Marxist Approach of the Middle-Income Trap in China,”World Review of Political Economy 6, no. 3 (2015): 298–319.
[13] Xinghua Wei, “The Persistence, Development, and Innovation of the Economic Theories on Socialism with Chinese Characteristics,”Studies on Marxism, 10 (2015): 5–16.
[14] Marta Harnecker, “Question 5: Social and Long-Term Planning?” Science & Society 76, no. 2 (2012): 243–66.
[15] Guoguang Liu and Enfu Cheng, “To Have a Comprehensive and Accurate Understanding of the Relationship between Market and Government,”Studies on the Theories of Mao Zedong and Deng Xiaoping, no. 2 (2014): 11–16.
[16] La crescita estensiva si basa sul maggiore utilizzo dei fattori produttivi; la crescita intensiva si basa sulla crescita della produttività ottenuta tramite l’introduzione di innovazioni (Nota dei traduttori).
[17] Dal 2002 al 2011, il PIL cinese è  aumentato ad un tasso superiore al 9%. Il PIL è  cresciuto al 7.7% nel 2012 e nel 2012; il tasso di crescita è  poi sceso al 7.4% nel 2014 e al 6.9% nel 2015. Nei primi sei mesi del 2016, il PIL è cresciuto ad un tasso annualizzato equivalente del 6.7%. Nonostante questo rallentamento, la Cina rimane, tra le maggiori economie mondiali, quella che esibisce il miglior tasso di crescita. Il Fondo Monetario Internazionale stima che la Cina sia responsabile di un quarto dell’intera attività economica mondiale.
[18] Per latecomer advantages (letteralmente, vantaggio del ritardatario) si intendono i vantaggi ottenibili da una impresa (o, più in generale, da un sistema paese) dalla penetrazione in mercati che utilizzano tecnologie e modalità di produzione mature (acquisibili, dunque, a costi maggiormente accessibili). Al contrario, per pioneer advantages (letteralmente, vantaggio del  pioniere) si intendono i vantaggi ottenibili da una impresa (o, più in generale, da un sistema paese) dalla penetrazione in nuovi mercati o dalla produzione di nuovi prodotti (utilizzando, dunque, nuove tecnologie che presuppongono, tuttavia, maggiori investimenti). (Nota dei traduttori)
[19] La teoria dei vantaggi comparati fu elaborata dall’economista britannico David Ricardo. Secondo tale teoria (assai utilizzata in ambiti liberoscambisti, fortemente criticata dal pensiero economico critico), ogni paese può trarre vantaggio dal commercio internazionale. (Nota dei traduttori)
[20] Per “fusione decapitante” si intende, in ambito cinese, un processo innescato ad opera di una azienda volto ad eliminare dal mercato (tramite acquisizione) di un potenziale concorrente o una impresa in possesso di particolari tecnologie di interesse (Nota dei traduttori).
[21] Sul progetto “Una Cintura, una Via”, si veda anche il seguente articolo: http://contropiano.org/documenti/2016/10/05/treno-cina-rotterdam-seta-084337
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24 ottobre 2013

STALIN 60MILIONI DI MORTI, LA PIU' GRANDE CAZZATA DELLA STORIA!!!


Da Stachanov blog

Nel 1926 (dicembre) il censimento dette la cifra di 147.000.000, nel 1937 (gennaio) il censimento indicò in 162.000.000 la popolazione dell’URSS; 
Questo significa che in quel periodo la popolazione crebbe dello 1,02 %° l’anno, incremento identico a quello italiano e superiore al contemporaneo incremento medio annuale di Francia, Inghilterra e Germania. Il censimento del gennaio 1939 indicò in 170.000.000 la popolazione dell’URSS; secondo attendibili fonti la cifra è tropo alta e va ricondotta a 168-169.000.000. Anche accettando le cifre più base abbiamo un incremento medio rispetto al 1926 (dicembre) del 1,42%°, nettamente superiore a quello degli altri paesi dell’Europa occidentale.La popolazione dell’URSS nel 1939, sempre accettando la cifra più bassa, incideva sul totale della popolazione mondiale per il 7,77 % (1919 7,50%); nello stesso periodo (1919-39) la Francia passa dal 2,17 al 1,91, la Germania dal 3,33 al 3,13, il Regno Unito dal 2,39 al 2,13, l’Italia dal 2,11 al 2 ( malgrado la campagna demografica del fascismo), gli USA dal 5,84 al 6 e il Giappone dal 3,03 al 3,05.Bastava leggere i numeri per rendersi conto che le cifre dei repressi e delle vittime sono state addirittura decuplicate, in alcuni casi, nei vari libri neri, al punto che lo stesso coautore del Libro nero del comunismo, Nicholas Werth, ha dovuto rettificare al forte ribasso le cifre gonfiate presenti nell’opera, come riconosciuto da lui stesso in un articolo dei primi annni ’90 sulla rivista L’Histoire.

LOTTA ALLA CONTRO-RIVOLUZIONE

Dal 1921 al 1953 furono condannate per attività controrivoluzionaria circa 4.000.000 di persone, delle quali 780.000 furono fucilate; nei campi di lavoro, colonie penali e prigioni morirono 600.000 detenuti politici. Si possono calcolare pertanto in 1.400.000 i morti per motivi politici nell’URSS dalla fine della guerra civile alla morte di Stalin. Sono cifre ben lontane da quelle riferite dai vari Conquest, Medvedev, Solzhenitzin, che oscillano tra 10.000.000 e 40.000.000 milioni di esecuzioni. 

SISTEMA PENALE SOVIETICO


Nel sistema penale sovietico i condannati potevano,soltanto nei casi più gravi, essere inviati nei Gulag, per reati meno gravi nelle colonie di lavoro, dove i condannati erano impiegati nelle fabbriche o nell’agricoltura e percepivano un regolare salario, o in particolari zone di residenza con proibizione di risiedere in alcune città, in genere Mosca o Leningrado. In quest’ultimo caso godevano in genere dei diritti politici; in attesa della sentenza gli accusati erano tenuti nelle prigioni. Il totale dei condannati nei Gulag oscillò tra un minimo di 510.000 nel 1930 a un massimo di 1.711.202 nel 1952.
I condannati presenti nei Gulag, colonie di lavoro e prigioni oscillarono fra 1.335. 032 del 1944 e 2.561.351 del 1950. Mancano i dati complessivi fino al 1939, quando si raggiunse la cifra generale di 2.000.000.  La mortalità generalmente oscillante intorno al 3% annuo toccò punte elevate nel 1942 e 1943, 17%, durante il periodo bellico, quando anche le condizioni alimentari, igieniche, di salute della popolazione civile peggiorarono drammaticamente. Al tempo stesso la popolazione dei Gulag diminuì drasticamente, perché molti condannati furono arruolati nell’esercito.Il forte incremento degli anni postbellici è in parte da attribuire alla presenza di prigionieri di guerra, condannati per diserzione e collaborazione con gli occupanti tedeschi. E’ comunque interessante notare che la popolazione detenuta nel suo complesso arrivò a toccare al massimo il 2,4% della popolazione adulta; nel 1996 erano detenuti negli USA 5.500.000 persone cioè il 2,8% della popolazione adulta. Le statistiche ci dicono anche che la grande maggioranza dei condannati (80-90%) riceveva pene inferiori a 5 anni, meno del 1% superiori a 10. Vanno anche ricordati i provvedimenti di amnistia, i più larghi dei quali, che interessarono oltre un milione di detenuti, nel 1945 e nel 1953. Credo che qualunque paragone con i campi di concentramento nazisti sia un offesa alla verità; lì i deportati erano destinati, se ebrei, rom o di razze considerate inferiori, a morte certa; nessun tribunale aveva decretato la loro condanna; le pene non prevedevano un termine, non c’erano amnistie; non c’era la possibilità di revisione della condanna e di riabilitazione, come, anche in epoca staliniana avvenne per non pochi condannati: per quanto dure potessero essere le condizioni nei campi sovietici, non erano paragonabili a quelle dei lager nazisti. 

LE PURGHE
 Contrariamente a quanto affermato la maggioranza dei vecchi bolscevichi non fu colpita: dei 24.000 iscritti prima del 1917 ne sopravvivevano 12.000 nel 1922, 8.000 nel 1927, meno di 5.000 (cioè tra 4.500 e 5.000 n.d.r.) nel 1939, dopo la grande purga. Dei 420.000 membri del PCUS nel 1920 ne rimanevano 225.000 nel 1922, 115.000 nel 1927, 90.000 nel 1939. Altri dati indicano in 182.600 gli iscritti prima del 1920, dei quali 125.000 erano presenti nel 1939. La purga investì l’esercito, ma non nella misura indicata daglia nticomunisti. Dei 144.300 ufficiali e commissari dell’Armata Rossa 34.300 furono espulsi per ragioni politiche; di questi 11.586 entro il maggio 1940 furono reintegrati nel posto e nel grado; le vittime della purga nell’esercito furono pertanto 22.705, cioè il 7,7% del totale. Anche in questo caso furono gli alti gradi ad essere più colpiti. 

KULAKI

La composizione di classe dei contadini nel 1927 era la seguente: i contadini poveri costituivano il 35% del totale. La grande maggioranza della popolazione agraria, dal 51 al 53%, era costituita dai contadini medi (le cui condizioni di lavoro erano tuttavia arretrate). “Nell’insieme dell’Unione sovietica, tra il 5% e il 7% dei contadini erano riusciti ad arricchirsi: i kulaki. Dai dati del censimento del 1927, il 3,2% delle famiglie dei kulaki possedeva in media 2,3 animali da tiro e 2,5 vacche contro una media di 1,0 e 1,1 per le rimanenti famiglie. 950.000 famiglie, cioè il 3,8%, occupavano operai agricoli o affittavano mezzi di produzione.Al 1° ottobre 1928 su 1.360.000 membri e candidati, 198.000 erano contadini. Nelle campagne c’era un membro del partito ogni 420 abitanti e 20.700 cellule del partito, una ogni quattro villaggi. Queste cifre acquistano maggior peso se messe a confronto con quelle degli ‘effettivi permanenti’ della reazione zarista, i preti ortodossi e gli altri religiosi a tempo pieno, che erano 60.000. La gioventù contadina costituiva la più grande riserva del partito. Sempre nel 1928 un milione di giovani contadini militavano nel Komsomol ed inoltre il partito poteva contare sui soldati che avevano combattuto nell’Armata rossa durante la guerra civile e sui 180.000 contadini che si arruolavano ogni anno nell’esercito, dove ricevevano un’educazione comunista.
Negli anni 1939-1931vennero esprorpiati i terreni di 381.026 kulaki che furono costreti all'espatrio insieme alle loro famiglie, nelle terre vergini dell’Est della Russia. Si trattava di 1.803.392 persone. Al 1° gennaio 1932 nei nuovi insediamenti ne furono censite 1.317.022. La differenza era di circa 486.000, che non coincide con la loro eliminazione fisica. Data la disorganizzazione dell’epoca, bisogna mettere in conto che un numero imprecisato di deportati riusciva a fuggire durante il viaggio. Fenomeno frequente, confermato dal fatto che di quel 1.317.000 censiti nei nuovi insediamenti, 207.010 riuscirono a fuggire nel 1932. Molti altri, dopo la revisione del loro caso, poterono tornare nei luoghi d’origine.


FONTI

S. Fitzpatrick The cultural front. Power and revolutionary Russia Cornell University Press 1992
S. Fitzpatrick Educational level and social mobility in Soviet Union 1921-1934 Cambridge University Press 1979
J A Getty Origin of great purges: the soviet communist party reconsidered 1933-1938 Cambridge University Press 1999
J A Getty R T Manning Stalinist terror: new perspectives CambridgeUniversityPress 1993
S G Wheatcroft Toward explaining the changing levels of Stalinist repression in 1930s. mass killing Europe-Asia studies 51;113-145.1999
S G Wheatcroft Victims of Stalinism and the Soviet Secret Police. The comparability and reliability of archival data. Not the last word Europe-Asia Studies 51; 515-545, 1999
R W Davies M Harrison, S G Wheatcroft The economic transformation in Soviet Union 1914-1945 Cambridge University Press 1994

14 settembre 2013

Alcune radici del Socialismo con caratteristiche cinesi


Da Marx21,   di Francesco Maringiò*

Chinese-Dragon-at-Dusk(1) Qualsiasi discussione sul presente e sul futuro della Cina non può prescindere dal fondamentale contributo dato da questo paese alla lotta per il Socialismo.È interessante notare come nei primi 15 anni dalla nascita dell’URSS (1917-1932), ci siano state tre diverse “configurazioni” di Socialismo:a)    il Comunismo di Guerra (1918-1921), da Gramsci definito il “collettivismo della miseria”;b)    la Nuova Politica Economica (1921-1929), su impulso di Lenin;c)    la Collettivizzazione dell’agricoltura e la centralizzazione integrale dell’economia (1929-1932), su impulso del nuovo gruppo dirigente bolscevico, a seguito della morte di Lenin (1924).

Nessuna di queste fasi è stata indolore e, soprattutto, nessuna è stata la proiezione delle analisi dei classici del marxismo. Pertanto è del tutto legittimo che oggi ci siano nuovi esperimenti e che il gruppo dirigente cinese cerchi la sua strada per costruire il socialismo in un Paese orientale, arretrato tecnologicamente rispetto alla triade imperialista ed in cui vive un quarto della popolazione mondiale.(2) Quando il PCC prese il potere nel 1949 la Cina era uno dei Paesi più poveri al mondo, a seguito del lungo “secolo delle umiliazioni” (1839-1949) iniziato con la Prima Guerra dell’Oppio che diede vita a quel processo definito da Ken Pomeranz come “La Grande Divergenza”. Attraverso questo processo il mondo occidentale (segnatamente Europa Occidentale ed Usa) è inconfutabilmente emerso nel corso del XIX sec come la più potente e ricca civiltà mondiale, eclissando l’Oriente asiatico della Cina dei Qing, dell’India dei Moghul, del Giappone dei Tokugawa e dello stesso Impero Ottomano. Questa Grande Divergenza vede l’Europa in rapida ascesa utilizzando un processo di sviluppo che Adam Smith considerava “innaturale” (ossia basato prevalentemente sul commercio estero), mentre per l’Asia, dopo un percorso di sviluppo “naturale”, si avvia un profondo arretramento, a seguito della Guerra dell’Oppio e dell’inizio del periodo di colonizzazioni e guerre. Quindi, mentre per i Paesi europei diventa centrale combattere le guerre per controllare le rotte marittime e commerciali verso l’Oriente, per i governanti cinesi era centrale avere una politica di rapporti di buon vicinato con gli stati confinanti e di sviluppare il mercato interno per uniformare il proprio dominio sotto un’unica economia nazionale (cosa, questa, che li rende impreparati a fronteggiare le invasioni militari e coloniali che stanno per abbattersi sui loro mari e sul loro Paese).È interessante osservare come sin dall’era Ming e nella prima fase della dinastia Qing, i governanti cinesi facessero uso del mercato con l’obiettivo di arricchire la nazione. Chén Hóngmóu (1696-1771), filosofo ed influente ufficiale della dinastia Qing, già nel XVII sec insisteva a lungo sul ruolo dello Stato e sull’utilizzo del mercato come strumento di arricchimento della nazione.(3) Le riforme di Deng Xiaoping prendono le mosse dopo un periodo di caos e turbolenze e puntano ad individuare obiettivi di lavoro concreti capaci di portare il Paese fuori dalla condizione di pesante arretramento che stava vivendo. Infatti quanto il PCC prese il potere, si trovò a governare un paese profondamente arretrato. Compito principale del gruppo dirigente cinese fu quello di ridurre le disuguaglianze interne e, contemporaneamente, quelle tra la Cina ed i Paesi capitalisti più avanzati. Ma la lotta contro queste due disuguaglianze, molto spesso, non può essere fatta contemporaneamente. E se in una prima fase, soprattutto durante la Rivoluzione Culturale, il gruppo dirigente si è concentrato sulla riduzione delle disuguaglianze interne, è con la nuova politica di Riforma ed Apertura che si presta attenzione alla riduzione del divario tra la Cina ed i paesi capitalisti più sviluppati. Per fare questo, si attinge alla tradizione dell’amministrazione e del governo richiamata al punto (2) e si fa ricorso al mercato come elemento di dinamizzazione dell’economia, permettendo anche la nascita di un poderoso settore di economia privata. A bilanciare questo aspetto, rimane comunque il fatto che il potere politico resta saldamente nelle mani del PCC il quale compie una totale espropriazione politica della borghesia, ma non compie una totale espropriazione economica della stessa, al fine di non bloccare lo sviluppo delle forze produttive.Deng pose spesso l’accento sul fatto che il socialismo non significasse “socializzazione della miseria” ed il mercato non fosse prerogativa esclusiva del capitalismo: «pianificazione e forze di mercato non rappresentano l'essenziale differenza che sussiste tra socialismo e capitalismo. Economia pianificata non è la definizione di socialismo, perché c'è una pianificazione anche nel capitalismo; l'economia di mercato si attua anche nel socialismo. Pianificazione e forze di mercato sono entrambe strumenti di controllo dell'attività economica». [Deng Xiaoping, in: John Gittings, The Changing Face of China, Oxford University Press, 2005]Questo approccio ricorda molto quello avuto da Lenin con la NEP (Nuova Politica Economica) che introdusse l’idea della transizione come un lungo periodo che vede la compresenza nell’economia di piano e mercato. In questa nuova fase allo Stato socialista spetta il compito di controllare gli elementi chiave dell’economia, mentre al mercato gli si riconosce una funzione progressiva imprescindibile. Del resto lo stesso Marx dice che, nel passaggio dal capitalismo al socialismo, la proprietà dominante non è più quella capitalistica ma quella socialista, ma ciò non esclude che ci siano forme di proprietà privata. Il discrimine sta nel fatto che non è quella la proprietà che impronta di sé tutta la società.È indubbia l’influenza esercitata dalle riflessioni di Lenin sulla NEP nel pensiero di Deng ma, allo stesso tempo, credo valga la pena considerare l’importanza avuta anche dalla radicata tradizione dell’amministrazione e del governo del Paese, durante la fase di “sviluppo naturale” e prima richiamata nelle considerazioni dell’ufficiale Qing sull’uso del mercato come elemento di arricchimento della nazione. È per questa via che il nuovo corso cinese punta a combattere le due disuguaglianze: quelle interne ed il divario con i paesi capitalisti più sviluppati.(4) A determinare la natura capitalistica di un società non è quindi la presenza o meno del mercato in economia. È nel rapporto tra il potere dello stato e quello del capitale che va indagata la natura del carattere capitalistico dello sviluppo economico su basi di mercato: se lo stato non è subordinato all’interesse di classe dei capitalisti, allora l’economia di mercato mantiene un carattere non capitalistico. Ed è stato proprio il diverso modello di sviluppo economico tra l’Europa (“modello innaturale”) e l’Asia (“modello naturale”) e porre le basi per l’affermazione di differenti sistemi  economici e, nel primo caso, a porre le basi per lo sviluppo di un mercato capitalistico. Ed infatti, mentre in Europa l’identificazione tra interesse di classe ed interesse nazionale è stato molto forte, nella Cina dei Ming e dei Qing si è seguita una strada molto diversa. E così la società occidentale si è sviluppata ed organizzata sulla base dell’interesse immediato del capitalismo ad una accumulazione illimitata di capitale e potenza che l’ha portata a prediligere una continua corsa agli armamenti ed all’espansione militare. Caso emblematico è stata l’Inghilterra divenuta, a seguito delle esigenze del nascente capitalismo uno stato che è diventato il centro di un impero marittimo e territoriale mondiale, alla continua ricerca di mercati da dominare o materie prime di cui appropriarsi.Questo mancato intreccio tra militarismo, industrialismo e capitalismo nella Cina ha posto le basi per un diverso sviluppo economico, pur in presenza di un importante ruolo giocato dal mercato. Quello che è mancato -e tutt’ora manca- in questo Paese, che certo vive profonde contraddizioni e disuguaglianze che dovranno essere corrette in futuro, è una sovrapposizione tra l’interesse privato e quello dello Stato che, grazie al controllo rigido del suo sistema politico riesce ad esercitare un ruolo di guida ed indirizzo dell’economia in funzione di un arricchimento della nazione e quindi del suo sviluppo interno ed in relazione ai paesi capitalistici più avanzati.È in queste considerazioni che, a mio modesto avviso, vanno ricercate le radici culturali del sistema di pensiero che va sotto il nome di “socialismo con caratteristiche cinesi” e che rappresenta oggi un elemento importante di innovazione del marxismo del XX sec.Del resto, contrariamente a quanto pensava Lenin, il Novecento non ha visto la crisi generale e conclusiva del capitalismo con conseguente vittoria del socialismo, ma ha lasciato aperta la strada alla ricerca e costruzione di società “altre” dal capitalismo. La Cina popolare, figlia di questa ricerca, si configura oggi come una società dicotomica (non capitalista/non ancora socialista) in cui la prospettiva socialista può vincere solo se la contraddizione oggi presente fra elementi di socialismo e di capitalismo porta alla vittoria dei primi. Questo risultato, se ci sarà, non potrà che essere il frutto di un lungo processo storico (innescato da appena cinque decenni) che durerà alcuni secoli e pertanto, per cogliere il senso di questa “tappa iniziale della prima fase” di costruzione del socialismo, è necessario collocare l’’esperienza cinese in una fase storica molto ampia.FontiDomenico Losurdo, relazione al Seminario del Dipartimento Esteri del PdCI, Ancona, Giugno 2011Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, 2008Kenneth Pomeranz, The Great Divergence: China, Europe, and the Making of Modern World Economy, Princeton University Press, 2009William T. Rowe, Saving the World: Chen Hongmou and Elite Consciousness in Eighteen-Century China, Stanford University Press, 2001*Sintesi dell’intervento tenuto in occasione del Seminario internazionale: “La Cina nel 21° Secolo: Presente e Futuro”, realizzato al Parlamento Europeo a Bruxelles, il 6 e 7 Giugno 2013, su iniziativa della rete Correspondances Internationales, dalla Fondazione Gabriel Péri e dal Gruppo europeo GUE-NGL, che ha visto la presenza di dirigenti politici ed intellettuali da tutto il mondo e la partecipazione di una delegazione del Centro Studi sulle teorie sociali e filosofiche straniere del Partito Comunista Cinese.

24 gennaio 2013

DITTATURA DEL PROLETARIATO E SOCIALISMO: NON SOLO TEORIA



di
Norberto Fragiacomo


In questo scritto tratteremo – ovviamente senza nessuna pretesa di completezza – una questione in apparenza astratta e teorica, che però, come si proverà a dimostrare, ha avuto una notevolissima ricaduta pratica sulla storia del ‘900: ci riferiamo al passaggio da una società caratterizzata dal modo di produzione capitalistico al comunismo.
Nel Capitale, a conclusione del Libro primo, Karl Marx descrive piuttosto sinteticamente l’agonia del sistema capitalista, ma si assenta prima che sopravvenga il decesso, e rinuncia a formulare ipotesi sul dopo. Ci dice soltanto – semplifico all’eccesso – che, ad un certo punto, l’irreversibile caduta del tasso di profitto condurrà all’accentramento del capitale in pochissime mani (mani non più impegnate, nemmeno indirettamente, nella produzione) e ad una proletarizzazione di massa dei ceti intermedi. La crème del capitalismo, ormai ridotta a un pugno di rentiers, avrà esaurito la propria funzione storica e vivrà la sua vecchiaia letteralmente alle spalle dei lavoratori, senza svolgere altro ruolo che quello del parassita. Si appaleserà, con abbacinante chiarezza, il contrasto insanabile tra il sistema capitalistico e la necessità per le forze produttive di espandersi ulteriormente: i resti di quella che si era presentata come una classe sommamente rivoluzionaria (la borghesia) si riveleranno un freno a progresso e sviluppo, demandati a lavoratori salariati ormai pienamente autosufficienti. Toccherà a questi ultimi, presa coscienza dei nuovi rapporti di forza, scrollarsi di dosso il pesante fardello: finalmente “gli espropriatori saranno espropriati”.
Sul come l’espropriazione debba avvenire[1] e sugli assetti del mondo futuro il Marx del Capitale non si sbilancia, pur lasciandoci intuire che il modello sarà l’autorganizzazione dei ceti produttivi. La seconda tematica viene schematicamente affrontata in un opuscolo polemico del 1875, occasionato dalla pubblicazione del programma del partito operaio tedesco – un programma che dispiacque al padre del socialismo scientifico per la sua indeterminatezza e la persistenza di echi lassalliani[2]. Nella Critica al programma di Gotha Karl Marx getta un fuggevole sguardo sul domani, distinguendo tra una prima fase, “inferiore”, del socialismo/comunismo (per il filosofo di Treviri i due termini sono sinonimi!) ed una seconda fase, quella del socialismo compiuto. Diamogli senza indugio la parola[3]: “quella con cui abbiamo da far qui è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come sorge[4] dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita, Perciò il produttore singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che dà. (…) Questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. (…) Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro diseguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri. (…) Ma questi inconvenienti sono inevitabili nellaprima fase della società comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto della società capitalistica.”Successivamente (dopo dieci anni? dopo un secolo? M. non è un indovino, e quindi non ce lo dice), “in una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro (…) è diventato il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo (…) sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, - solo allora l’angusto orizzonte borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ciascuno secondo i suoi bisogni!”
Quello appena citato è uno dei passi marxiani più noti e suggestivi (l’uomo di Treviri era, fra le varie cose, uno scrittore di straordinario talento), che va letto in unum con alcune frasi contenute nella quarta parte dell’operetta[5]. Al pari degli anarchici, Marx e i suoi seguaci ritengono inevitabile l’estinzione dello Stato, strumento di dominio borghese, ma – in contrapposizione a Bakunin – affermano che, prima di sparire, lo Stato ha un ultimo compito da portare a termine: “tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Ma il programma(di Gotha) non si occupa né di quest’ultima né del futuro Stato della società comunista.
Interpretando sistematicamente le parole dell’autore, giungiamo alla conclusione che le due fasi postrivoluzionarie sono, in verità, tre: il periodo transitorio della dittatura proletaria, il comunismo imperfetto – perché inquinato da residui borghesi – e quello realizzato. La domanda da porci è la seguente: quand’è, precisamente, che lo Stato scompare? L’ultima proposizione marxiana sembra intorbidare le acque, suggerendo una sopravvivenza dello Stato almeno fino al termine della fase c.d. inferiore. Un testimone d’eccezione, Friedrich Engels[6], ci convince del contrario: “Con l'instaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé e scompare. Non essendo lo Stato altro che un'istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici, parlare di uno "Stato popolare libero" è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse dello schiacciamento dei suoi avversari, equando diventa possibile parlare di libertàallora lo Stato come tale cessa di esistere. Noi proporremmo quindi di mettere ovunque invece della parola "Stato," la parola "Comune," una vecchia eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese Commune.
Ecco spiegato l’arcano: lo Stato condannato all’estinzione dopo lo “schiacciamento degli avversari” del proletariato e il venir meno della divisione in classi è quello politico, cui la borghesia assegna compiti di repressione; la Res publica comunista (definita, per l’appunto, Comune) ha la funzione, radicalmente diversa, di favorire l’autogoverno dei cittadini ed il pieno godimento della libertà da parte di ognuno, in una società pacificata ed omogenea[7]. La confusione è dunque meramente terminologica, non concettuale.
Per quanto si protrarrà il periodo intermedio? Marx ed Engels non possono saperlo: per tutto il tempo necessario a completare l’opera di abbattimento del regime borghese, ripetono laconicamente. Possiamo arguire che si tratterà di una fase piuttosto rapida dal fatto che la rivoluzione/trasformazione non è un evento accidentale, un incendio che scoppia per puro caso, bensì il punto d’arrivo di un lungo processo storico: la scintilla è destinata a scoccare non prima che la struttura economica della società, già collettivistica, entri in aperta contraddizione con la sovrastruttura borghese. Ai rivoluzionari non resterà che arare il campo, dopo averlo liberato dalle erbacce.
Gli spunti presenti nella Critica del programma di Gotha verranno sviluppati, quasi mezzo secolo dopo, dal più geniale e “pratico” tra i continuatori di Marx: Vladimir Lenin. Il grande marxista russo dedicherà al tema dello Stato rivoluzionario una trattazione organica nell’opera Stato e Rivoluzione (1917), scritta nei mesi immediatamente precedenti alla conquista del potere, in Russia, da parte dei bolscevichi, ed anche negli anni successivi tornerà svariate volte sull’argomento. Saranno proprio l’esperienza acquisita sul campo, nei panni di leader rivoluzionario, e la necessità di confrontarsi con una realtà complessa e quasi indecifrabile a determinare talune oscillazioni nel pensiero leniniano, un certo distacco dagli ammaestramenti del fondatore del marxismo e, soprattutto, dai suoi epigoni occidentali (Kautsky in primis).
Nella sezione V del saggio appena menzionato, Lenin parafrasa quanto detto da Marx a proposito della prima fase della società comunista, ricorrendo volentieri a citazioni, ma inserisce pure qualche elemento di novità, differenziando il “socialismo” della prima fase dal “comunismo” della seconda e precisando che, nella società socialista, “lo Stato non si è ancora estinto completamente, poiché rimane la salvaguardia del "diritto borghese" che consacra la disuguaglianza di fatto. Perché lo Stato si estingua completamente occorre il comunismo integrale.[8]
Questa lettura del testo del ’75 si discosta notevolmente da quella che abbiamo proposto poc’anzi, ed implica uno strettissimo rapporto, quasi una sovrapposizione, tra il periodo della dittatura del proletariato e quello socialista, entrambi caratterizzati dalla perdurante esistenza del vecchio modello statuale. In effetti, par di capire che la società socialista sia destinata ad affermarsi proprio durante la transizione: “Ora, la dittatura del proletariato, vale a dire l’organizzazione dell’avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, la dittatura del proletariatoapporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti (…) ed è chiaro che dove c’è repressione, dove c’è violenza, non c’è libertà, non c’è democrazia.
Non siamo gli unici a pensare che, sul punto, l’allievo innovi, e contraddica il maestro. Secondo l’eminente studioso (marxista) Paresh Chattopadhyay, “il socialismo, anche quando venga considerato, in accordo con Lenin, come la prima fase del comunismo di Marx, evidentemente è già la nuova società e non può essere la transizione alla stessa società. Invece il periodo di transizione di Marx si riferisce a quello che precede la prima fase del comunismo. Confondere ancora la transizione di Marx con la prima fase, dove i produttori hanno cessato di essere proletari, significherebbe far volatilizzare il lungo processo di auto emancipazione dei produttori e trasformare le posizioni di Marx in quelle di Bakunin[9]”.
Alla luce di quanto fin qui esaminato, l’affermazione di Chattopadhyay appare incontrovertibile – sorprende, però, che un uomo della precisione e dell’intelligenza di Ul’janov possa aver grossolanamente travisato un concetto tutto sommato limpido. E se il travisamento fosse intenzionale, o addirittura frutto di un adattamento della teoria originaria? In fondo, il rivoluzionario di Simbirsk opera in un contesto – la Russia arretrata e immiserita da un triennio di guerra – molto diverso da quello immaginato da Marx ed Engels. Invero, la stessa bipartizione operata da Lenin tra socialismo e comunismo genera un’ambiguità che si può supporre voluta: passaggi come “lo sviluppo progressivo, cioè l’evoluzione verso il comunismo, avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire altrimenti” celano forse, dietro il ricalco dell’originale marxiano, un raffinato gioco di prestigio verbale, che assegna un nuovo significato a formule universalmente accettate.
Ma a quale scopo il capo rivoluzionario ripenserebbe Marx, pur mutuandone la terminologia?
A parere di chi scrive, la “contraffazione” è a fin di bene: salva lo spirito del fondatore, pur apportando modifiche al suo schema[10]. Testi alla mano, vedremo di motivare l’assunto.
Va anzitutto tenuto presente che Lenin affianca all’attività di elaborazione teorica l’azione e l’impegno concreto: dal rientro a Pietrogrado[11] (aprile 1917) si misura quotidianamente con i fatti, molto più indocili alla cavezza rispetto alle idee, ed è quindi costretto a frequenti correzioni di rotta. In uno scritto del ’19 Vladimir Il’ic fa un’ammissione interessante[12] (“La dittatura del proletariato in Russia, in confronto ai paesi avanzati,deve inevitabilmente distinguersi per certe sue particolarità, in conseguenza del carattere molto arretrato e piccolo-borghese del nostro paese”), salvo poi precisare che “le forze fondamentali sono in Russia le stesse che in qualsiasi altro paese capitalistico, cosicché queste particolarità possono riferirsi solo a ciò che non è essenziale”). Sotto la dittatura proletaria si compiono i “primi passi del comunismo in Russia perché tutte queste condizioni da noi sono realizzate soltanto parzialmente, o, in altre parole, la realizzazione di queste condizioni si trova allo stadio iniziale.
Esattamente due anni dopo, in occasione del quarto anniversario dell’Ottobre Rosso, il capo bolscevico rivendica addirittura il carattere “borghese-democratico” della Rivoluzione: “Il compito più diretto e immediato della rivoluzione in Russia era un compito borghese democratico: eliminare i residui del medioevo, spazzarli via completamente (…) Noi abbiamo condotto la rivoluzione borghese democratica fino alla fine, come nessun altro. Noi procediamo con piena coscienza, fermezza ed inflessibilità verso la rivoluzione socialista, sapendo (…) che soltanto la lotta deciderà in quale misura riusciremo ad avanzare (…) Le trasformazioni democratiche borghesi sono un prodotto accessorio della lotta rivoluzionaria di classe. (…) La prima (cioè la rivoluzione borghese) si trasforma nella seconda (quella socialista)”.Lungi dall’essere giunto al termine, il processo è ancora in corso[13]: abbiamo qui un riferimento al concetto di “rivoluzione permanente”. Riportiamo ancora un paio di frasi tratte dallo stesso discorso, che ci paiono rivelatrici: “Occorreva una serie di fasi transitorieil capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare – con un lavoro di una lunga serie d’anni – il passaggio al comunismo. (…) prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, conduca verso il socialismo, altrimenti voi non arriverete al comunismo.
Riepiloghiamo: il “capitalismo di Stato”, che qui fa capolino, non coincide con il socialismo, ma ne costituisce una premessa – dunque, è premessa di una premessa. E’ forse sinonimo di dittatura del proletariato la nuova locuzione? Non ci sono evidenze in questo senso[14]: forte della sua solidissima preparazione teorica, Lenin va avanti per tentativi. In ogni caso, al compito attribuito da Marx allo Stato rivoluzionario (schiacciare i nemici di classe) se ne aggiunge un secondo: costruire ex novo una base economica per il futuribile edificio socialista.
L’ultimo pezzo di cui consigliamo la lettura è datato 1923, e fu pubblicato poco prima della morte di Lenin[15]. L’articolo, assai breve (l’autore era da tempo gravemente infermo, e l’ictus gli impediva di scrivere in autonomia), ma densissimo, è un’appassionata difesa delle ragioni del bolscevismo. In risposta alle critiche dei socialdemocratici europei, il rivoluzionario riconosce che in Russia non esistevano, nel ’17, i presupposti economici obiettivi per il socialismo, ma giustamente ribatte: “che fare se la situazione, assolutamente senza vie d'uscita, decuplicava le forze degli operai e dei contadini e ci apriva più vaste possibilità di creare le premesse fondamentali della civiltà, su una via diversa da quella percorsa da tutti gli altri Stati dell'Europa occidentale?” Toccava forse subordinare i bisogni e le speranze di decine di milioni di esseri umani al rispetto di un dogma, dimentichi dell’ammonimento dello stesso Marx: “nei momenti rivoluzionari occorre la massima duttilità”? Alla domanda Lenin dà una risposta negativa, e noi la condividiamo, perché siamo certi, al pari di lui, che l’occasione “giusta” rischia di non presentarsi mai, e non ci attira la prospettiva di un’attesa infinita alla “Aspettando Godot”[16]. Un accenno alle “peculiarità” della situazione russa chiude il cerchio: “la Russia - la quale sta alla frontiera tra i paesi civili e i paesi attratti definitivamente da questa guerra per la prima volta nell'orbita della civiltà, i paesi di tutto l'oriente, i paesi non europei - poteva e doveva manifestare alcuni caratteri peculiarii qualinaturalmente sono compresi nella linea generale dello sviluppo mondiale, ma distinguono tuttavia la sua rivoluzione da tutte le rivoluzioni precedenti dei paesi dell'Europa occidentale e determinano alcune innovazioni parziali quando si passa ai paesi orientali.
In buona sostanza, la lezione leniniana è che la scelta di un modello non implica la sua imitazione pedissequa, che le opportunità – quando sono effettivamente tali – vanno colte e che un onesto pragmatismo rientra tra le doti dell’attivista/rivoluzionario. Certi ondeggiamenti ed oscurità testuali derivano dall’incessante sforzo di adeguare e far combaciare la propria analisi con la realtà multiforme dell’esistenza: in un universo in cui persino un fiocco di neve è unico e irripetibile occorrono acume, flessibilità e capacità creative. Lenin segue la dottrina marxiana finché può, se ne discosta[17] quando deve: il suo indiscutibile marxismo risiede nel fatto che, dopo una vita di studi, è riuscito per primo a mettere l’idea in pratica, rivoluzionando la società e gettando le basi per una sua evoluzione in senso comunista[18], che purtroppo non andò a buon fine.
Gli esiti dell’esperimento, in effetti, furono disastrosi: questo non comporta affatto una condanna retroattiva[19] (di solito pronunciata in malafede), ma impone un sovrappiù di ragionamento.
Ora, è fuori discussione che l’Impero zarista, non essendo un Paese a capitalismo avanzato, fosse immaturo per la rivoluzione ed il socialismo/comunismo: Lenin manco si sogna di negarlo, e proprio per questo concepisce una fase dittatoriale di lunga durata (v.supra).
Il periodo di transizione preconizzato da Marx era invece breve, poiché allo scoppio della rivoluzione – questo era il postulato – le nuove forze produttive sarebbero già state operanti, il lavoro sarebbe apparso socializzato e le esigenze di trasformazione radicale si sarebbero appuntate piuttosto sulla sovrastruttura che sulla struttura economica. Insomma, il socialismo/comunismo sarebbe uscito in armi dal bozzolo come Atena dalla testa di Giove.
In Russia tutto ciò era impossibile: come Lenin ribadisce, l’immenso Paese non aveva ancora sperimentato una rivoluzione borghese. Da qui il richiamo ad una presunta (ma difficilmente sostenibile) natura “democratica borghese” dell’Ottobre, l’introduzione, con la NEP, di un capitalismo a livello di bottega e l’invito rivolto a industriali stranieri, una volta conclusasi la guerra civile, ad aprire fabbriche in URSS. Visti il disinteresse dei capitalisti, irrimediabilmente ostili al regime bolscevico, la vastità e la povertà diffusa, non resta al governo sovietico che assumere su di sé l’onere di modernizzare la Russia: la sola opzione è il capitalismo di Stato, “il solido ponte che conduce al socialismo”. Negli anni assistiamo quindi ad una sorta di ripiegamento rispetto al progetto esposto in Stato e Rivoluzione: il socialismo - che pure non s’identifica con la prima fase del regno della libertà tratteggiata da Marx – è di là da venire, per il momento ci si contenta di gettarne le basi. Senza la ricchezza materiale ed un adeguato sviluppo produttivo non ha senso parlare di socialismo né, a maggior ragione, del comunismo dell’abbondanza.
Una decisa accelerazione potrebbe essere favorita dagli eventi europei: ancora nel ’19, Lenin e i suoi collaboratori non dubitano di una prossima esplosione della rivoluzione in Europa – cioè in Germania. La Russia è solo la miccia: la dinamite è il continente più progredito.
Le certezze si sgretolano assai presto: le repubbliche sovietiche bavarese (Toller, Levine) e ungherese (Bela Kun) saranno travolte dalla reazione, gli spartachisti incontreranno una sorte ancor peggiore. Mentre la guerra civile infuria, il giovane governo sovietico subisce l’aggressione degli eserciti occidentali e, più tardi, un durissimo embargo economico (il c.d. “cordone sanitario”). Un’ultima puntata ad occidente si infrangerà contro la resistenza polacca (1920); poi subentra una tregua armata, ma la situazione permane instabile, con l’URSS accerchiata[20] e sotto costante minaccia d’invasione. Avesse previsto il futuro, sappiamo che Lenin nel ’17 avrebbe rinunciato al “colpo” per cui si preparava fin dalla giovinezza: lui stesso non credeva alle prospettive della rivoluzione in un solo Paese, per di più arretrato, e – negli anni convulsi tra il 1917 e il 1920 – presentì varie volte il crollo del suo regime.
A salvare il potere sovietico furono la perseveranza del leader, l’abilità organizzativa e militare di Trotzky e, soprattutto, il territorio sconfinato: la Russia ha le dimensioni di un continente[21] e proprio per questo, al contrario di Baviera e Ungheria, non può essere occupata militarmente da eserciti che, nel caso specifico, erano usciti stremati da un tremendo conflitto.
L’eccezione, comunque, conferma la regola secondo cui un moto rivoluzionario socialista (=comunista) ha durature possibilità di successo solo se interessa l’intero mondo sviluppato o, perlomeno, la maggioranza dei Paesi guida, perché (riassumiamo) l’avverarsi di tale condizione 1) riduce la durata della transizione e, conseguentemente, 2) i rischi di un’involuzione autoritaria; 3)impedisce o attenua l’interferenza di forze esterne.
Esplicitiamo l’ultimo punto: già ai tempi di Marx l’economia capitalista era parzialmente “globalizzata”[22]; il fenomeno dell’internazionalizzazione si accentua tra ‘800 e ‘900 (non a caso, Lenin gli dedicherà uno dei suoi libri più celebrati[23]). Se il capitale è “cittadino del mondo”, altrettanto vale per i suoi detentori: assistiamo, nel diciannovesimo secolo, al formarsi di una borghesia apolide per interesse, cioè non più legata all’economia del territorio d’origine, di cui Marchionne e i “delocalizzatori” sono i pronipoti.
Gli appartenenti a questa classe conducono affari un po’ ovunque, e i loro emissari arrivano nei più sperduti angoli del globo: pertanto, essi reagirebbero con estrema fermezza ad un sommovimento socio-economico anche di rilievo locale, facendo intervenire forze militari al loro (indiretto) servizio o foraggiando gli oppositori attivi sul posto. Visto che la dittatura del proletariato è finalizzata alla neutralizzazione dei nemici di classe, e che questi non cessano di tramare, in combutta con i loro “confratelli”, una volta varcato il confine, per una comunità nazionale isolata e sotto tiro la transizione si prolungherebbe fino al giorno del giudizio[24], ed anche la fase “inferiore” resterebbe una pia illusione.
Se a questo aggiungiamo che l’URSS di novant’anni fa, oltre ad essere isolata, era ancora un Paese preindustriale non possiamo sorprenderci del fatto che, malgrado gli sforzi di Lenin (morto troppo presto), non sia mai andata al di là della fase “transitoria” del capitalismo di Stato: Eric Hobsbawm annota convincentemente[25] che, al di là della valutazione (pessima) sull’uomo, Stalin non aveva alternative alla corsa all’industrializzazione intrapresa alla fine degli anni ’20. Cosa avrebbe fatto Lenin, se fosse stato ancora vivo? Presumibilmente lo stesso, ipotizza lo studioso inglese, anche se con minore brutalità.
Arretratezza ed isolamento sono due problemi che la Russia bolscevica riesce a superare appena dopo il secondo conflitto mondiale (al prezzo di una cifra oscillante tra i 12 e i 28 milioni di morti, e grazie alla bomba atomica): allora, forse, la transizione si sarebbe potuta conchiudere.
Così non fu, evidentemente perché i dittatori “in nome e per conto” del proletariato si erano affezionati al potere, ed erano restii ad abbandonarlo: fino alla fine ingloriosa (ma, se non altro, incruenta!) dei suoi giorni, l’URSS rimase un capitalismo di Stato con alcuni elementi di socialismo[26], retto da un ceto burocratico permeabile ma nettamente distinto dalla cittadinanza comune, il cui entusiasmo, peraltro, era svanito da tempo.
Quale fu l’errore di Vladimir Il’ic Ul’janov? A parer nostro, quello di non commettere veri e propri errori[27] (oltre che di morire prematuramente, ma dell’ictus avrebbe fatto volentieri a meno). In circostanze straordinariamente difficoltose, e con tutto il mondo contro, l’uomo di Simbirsk riuscì a manovrare con accortezza, a realizzare l’impensabile, ad infondere speranza e orgoglio ad una generazione nata in servitù[28]. Nonostante l’inerzia del proletariato europeo e l’ostilità dei governi imperialisti, l’Unione Sovietica sopravvisse al parto; era però debole e malata sin dall’infanzia, e i medici che, dopo Stalin, l’ebbero in cura, la lasciarono deperire, finché si spense.
Cosa rimane di un’esperienza settantennale? Nient’altro che l’esperienza stessa: poca cosa, ma funzionale, se non altro, a gettare un po’ di luce sul presente e il prossimo futuro.
Prima di andarsene, Vladimir Lenin propose al Comitato Centrale di accogliere nel suo grembo 50-100 tra contadini e operai, per rendere più difficile il formarsi di una casta di governanti. Il suggerimento non fu accolto (e anche se fosse stato accolto non avrebbe mutato il corso degli eventi), ma è prezioso anche per noialtri: ci rammenta che, per quanto non serva un popolo intero per trasformare una società, una ristrettissima elite non basta. E’ necessaria e – crediamo – sufficiente una minoranza agguerrita e consapevole. 




[1] Coerentemente con la sua mentalità di scienziato (sociale), Karl Marx non si avventura in previsioni sulle modalità di svolgimento di un’ipotetica rivoluzione sociale – ipotetica, sottolineiamo, perché, criticando il programma del Partì Ouvrier ed il massimalismo del suo leader Jules Guesde (1880), il nostro autore sembra prendere in considerazione la possibilità di una transizione pacifica dal sistema capitalista a quello socialista.
[2] Ferdinand Lassalle (1825-1864) fu un teorico ed agitatore socialista tedesco che, a coronamento di una vita avventurosa, morì ancor giovane in duello. Marx, che finì per detestarlo (e che nei confronti dei rivali, veri o presunti, si mostrò sempre poco cavalleresco), non gli risparmia, nel libello, critiche mordaci e qualche colpo basso, a cui il povero Lassalle, scomparso da un decennio, non poteva ovviamente replicare. 
[3] I testi di Marx, Engels e Lenin da cui abbiamo tratto le citazioni sono liberamente consultabili sul sito internet MIA (http://www.marxists.org/italiano).
[4] In tutte le citazioni di seguito riprodotte, il corsivo è sempre dell’autore, ilgrassetto del sottoscritto.
[5] Delle due fasi si parla, invece, nella prima parte.
[6] Nella lettera ad August Bebel (dirigente socialdemocratico tedesco) del 18 marzo 1875.
[7] All’opposto dei precedenti dominatori (borghesi, feudatari medievali ecc.), il proletariato vittorioso non creerà nuove masse di sfruttati, ma si farà umanità intera. Fine della Storia, perché il suo motore (la dialettica tra le classi) si arresta. G. W. F. Hegel, con le sue sintesi, non è passato invano, ma il sostrato resta giudaico-cristiano (messianismo, Thomas Müntzer, anabattismo ecc.).
[8] “Democrazia vuol dire uguaglianza”, chiarisce Lenin, e la perfetta uguaglianza è concepibile solo nel comunismo realizzato, non prima.
[9] Il suo testo Marx vs Lenin può essere letto in traduzione italiana sul sitohttp://www.left-dis.nl/i/chatto.htm (il titolo del pezzo è “Il contenuto economico del socialismo. Marx contro Lenin”).
[10] Tocca rammentare che quella di K. Marx è sì scienza, ma “scienza sociale” (C. Preve): le leggi da lui formulate sono il risultato di osservazioni ed approssimazioni. Valide in generale, esse servono a spiegare l’essenza dei fenomeni, non a descriverli minuziosamente.
[11] Ai dietrologi non par vero di poter speculare sul coinvolgimento del miliardario “rosso” Parvus e del Governo del II Reich nell’organizzazione del viaggio in treno dalla Svizzera: Lenin è accusato di intelligenza col nemico (si parva licet componere magnis, l’elettorato pecorone piddino fa insinuazioni simili sul conto di Ingroia, che favorirebbe il cerbero Berlusconi: “è matematica”, recitano a memoria, incapaci come sono di distinguere i numeri dalla propaganda). A nostro avviso, si realizzò tra l’esiliato e la borghesia germanica un’occasionale convergenza di interessi: egli voleva la fine della guerra imperialista, osteggiata fin dal ’14, la sua controparte l’uscita della Russia dal conflitto. Il Trattato-capestro di Brest Litovsk, prova provata del “tradimento” bolscevico, si dimostrò in realtà assai più utile alla neonata URSS che al Kaiser.
[12] Nello scritto Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato, pubblicato sul numero 250 della Pravda del 7 novembre.
[13] Si consideri che, nella primavera del 1919, Lenin aveva varato la NEP (Nuova politica economica) per rimediare ai danni causati dal comunismo di guerra.
[14] Lenin sostiene che l’epoca del dominio della classe oppressa è appena all’inizio: essa “marcia verso una vita nuova, verso la vittoria sulla borghesia,verso la dittatura del proletariato (corsivo nostro)”.
[15] Sulla nostra Rivoluzione, apparso sul numero 117 della Pravda (30 maggio 1923).
[16] Il dirigente socialista sloveno Henrik Tuma (1858-1935) raffronta polemicamente l’indolenza e il verbalismo dei socialdemocratici occidentali (“Si parlava tanto, in tutte le lingue del mondo civile, di rivoluzione della classe lavoratrice, ma non ci si preoccupava di educare i lavoratori per metterli in grado di farla davvero, la rivoluzione, quando fosse giunto il momento”) con la genuina passione dei russi: “A dir la verità, soltanto la guerra diede vita in Russia ad un importante movimento di contadini e operai. Gli operai, i contadini, ma anche la maggioranza dei borghesi e degli intellettuali erano rivoluzionari senza bisogno di essere indottrinati. (…) Proprio questa generale tensione presente nelle grandi masse del popolo russo e degli altri popoli della Russia permise ad un piccolo drappello di marxisti veramente rivoluzionari di imporsi così saldamente. Certo, ebbero anche la fortuna di trovare in Lenin un leader geniale (H. TUMA,Dalla mia vita, pag. 343).”
[17] Rectius: la aggiorna.
[18] Attenzione: non stiamo indirettamente tacciando Marx di “astrattismo”, né gli imputiamo errori di previsione. Senza il pensatore di Trier il figlio dell’ispettore scolastico di Simbirsk non sarebbe mai assurto a Lenin, né ci sarebbe stato l’Ottobre. Affermiamo soltanto che nessuna costruzione logica, per quanto geniale e armoniosa, può conservare, a contatto col reale, la sua purezza libresca. Era pressoché inevitabile, quindi, che tre fasi tra loro nettamente distinte diventassero ora due ora quattro, contaminandosi pure a vicenda.  
[19] Per un giudizio, sofferto e controcorrente, sul fallimento delle rivoluzioni novecentesche si veda quanto scrive Tiziano Terzani in Buonanotte signor Lenin eLa fine è il mio inizio. L’autore in sostanza dice: le conseguenze sono state tragiche, e forse non poteva essere altrimenti, ma fu giusto tentare.
[20] Il primo trattato internazionale con una potenza europea sarà sottoscritto dal governo sovietico appena nel ’22, a Rapallo. Controparte è un altro Stato “paria”, la Germania piegata, nel 1918, dalle potenze dell’Intesa.
[21] Lo stesso vale, mutatis mutandis, per la Cina di Mao. Nel secondo dopoguerra le rivoluzioni comuniste che si sono affermate in Paesi “normali” hanno sempre avuto il sostegno di almeno una delle due grandi potenze.
[22] Il termine è anacronistico, ma rende l’idea.
[23] L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo del 1916.
[24] Tra l’altro, all’epoca dei bolscevichi internet non esisteva, oggi sì: la cronaca ci mostra quanto efficace sia la rete – veicolo di propaganda, ma non solo – ai fini della disarticolazione di uno Stato teoricamente sovrano.
[25] Ne Il secolo breve.
[26] Lo Stato sociale sovietico, che vantava delle eccellenze in campo sanitario (v. Divisione Cancro di A. Solgenitsin) e scolastico, è ancora oggi giustamente rimpianto dalla gran massa degli abitanti dei Paesi ex URSS.
[27] Forse peccò di eccesso di ottimismo e sicurezza in se stesso, ma… cos’avrebbe potuto/dovuto fare una persona così profondamente dedita alla causa rivoluzionaria, se non provarci con tutte le energie disponibili? Conoscessimo il destino in anticipo aspetteremmo, inerti e rassegnati, il giorno della nostra dipartita.
[28] I Figli dell’Arbat di A. Rybakov contiene un’indimenticabile descrizione della gioventù moscovita degli anni ’20. Assieme ai sogni, il libro finisce con la morte di Kirov.