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13 maggio 2012

IMPRESE? MENO SONO FLESSIBILI, PIÙ SONO PRODUTTIVE

da Sbilanciamoci.info .


Le imprese più innovative sono quelle che offrono ai lavoratori più diritti, sicurezza e stabilità, non quelle dai contratti a breve termine e dal licenziamento facile
Del mai così famoso ed abusato concetto di flessibilità esistono diverse definizioni. In particolare, dal punto di vista dell’impresa, possiamo distinguere tre tipologie di flessibilità: flessibilità numerica ovvero la capacità delle imprese di far variare il numero delle persone occupate al loro interno, attraverso il ricorso a contratti di lavoro atipici; flessibilità funzionale che indica l’abilità dell’impresa ad organizzarsi in maniera flessibile senza ricorrere ai licenziamenti, facendo variare il numero dei dipendenti attraverso una forza lavoro capace di ricoprire un ampio raggio di compiti; flessibilità salariale ovvero l’attitudine del sistema delle retribuzioni a rispondere alle condizioni del mercato variando con facilità.
Se risulta ormai chiara l’esistenza di una correlazione negativa tra la crescita della produttività e il ricorso a lavoratori a tempo determinato (flessibilità numerica), è interessante considerare la relazione tra le principali forme di flessibilità introdotte (numerica e salariale) e il grado di innovazione delle imprese. Infatti, anche se l’innovazione (insieme alla spesa in Ricerca e Sviluppo, R&S) rappresenta uno dei fattori principali in grado di avviare meccanismi virtuosi di sviluppo e crescita delle imprese, essa viene scarsamente richiamata quando si discute di lavoro. Se ne occupa però una parte della letteratura economica, da cui riprenderemo alcuni esempi specifici che risultano d’aiuto per valutare anche il caso italiano. Michie and Sheehan (2003), partendo da alcuni dati riguardanti il settore manifatturiero inglese, osservano che “le imprese più innovative sono proprio quelle che hanno deciso di non ricorrere a queste nuove forme di lavoro, frutto della deregolamentazione, ma che hanno invece perseguito una sorta di flessibilità funzionale associata non a contratti temporanei di breve durata, ma al contrario, ad una maggiore sicurezza occupazionale”. In altri termini:“Non vi è alcuna prova della possibilità che la flessibilità introdotta in seguito alla deregolamentazione del mercato conduca ad un’economia più innovativa. Questa affermazione, nella sua nettezza, stride fortemente con le frequenti argomentazioni che spesso vengono utilizzate per giustificare il ricorso ad una maggiore flessibilità.
Allora, all’interno di un dibattito che badi seriamente al contenuto della discussione, sarebbe necessario specificare il tipo di flessibilità che si vuole rincorrere, a partire però dai risultati già chiaramente osservabili in merito a quella numerica e salariale.
Kleinknecht et al.(2010) conducono un’indagine simile analizzando dati longitudinali riguardanti le imprese dei Paesi Bassi, da cui emerge chiaramente che le possibilità per un’impresa di adottare prodotti nuovi per il mercato, assumendo così una posizione leader rispetto agli altri competitors, sono negativamente influenzate da un elevato ricorso a lavoratori temporanei. Secondo gli autori, questo dato rende esplicita la necessità di favorire ed attivare un processo di accumulazione della conoscenza che può aver luogo, però, solo una volta creati rapporti di lavoro stabili e continuativi, capaci tra l’altro, di trasmettere un senso di fiducia ed appartenenza tra i lavoratori. Lucidi e Kleinknecht (2009) approfondiscono proprio questo aspetto, attraverso un’analisi sull’economia italiana, affermando che uno degli effetti della maggiore flessibilità del lavoro potrebbe essere un forte sottoinvestimento nella formazione dei lavoratori. Infatti, se i rapporti di lavoro sono di breve durata, allora le imprese hanno pochissimi incentivi ad investire nella formazione dei lavoratori, mentre dall’altra parte questi saranno riluttanti all’idea di acquisire delle competenze strettamente legate all’impresa in cui solo momentaneamente risultano occupati se non percepiscono un impegno di lungo termine con i propri datori di lavoro. In un contesto simile, le relazioni e il luogo di lavoro hanno subito profondi cambiamenti che pongono degli interrogativi concreti non solo sul dato “freddo” dell’andamento della produttività, ma ancor di più sulla natura frammentaria, atomizzata e fortemente gerarchica assunta dal rapporto lavoratore-imprenditore.
Infatti è innegabile che un lavoratore, soggetto al “ricatto” di un contratto a termine da rinnovare, non avrà nessun incentivo a muovere delle critiche, seppure in un’ottica costruttiva, ai suoi datori di lavoro in merito per esempio alla gestione delle risorse o all’organizzazione interna. Questa ritrosia al dialogo ed estraneità al confronto influenza e modifica l’ambiente di lavoro nel suo complesso, e lo rende sempre più impersonale e precario, determinando così il venire meno di uno dei punti di vista fondamentali (quello del lavoratore) nonché, cosa ancora più grave, ostacolando ed impedendo l’istaurarsi di un rapporto che sia equilibrato, trasparente e paritario con il proprio datore.
Attraverso dei rapporti caratterizzati da maggiore continuità e collaborazione invece, da una parte si andrebbe a promuovere ed incentivare la volontà dei lavoratori di condividere la propria conoscenza tacita con gli altri colleghi, dall’altra si andrebbe a stimolare l’investimento in programmi educativi e formativi da parte dell’impresa, meno propensa a licenziare un lavoratore su cui ha investito direttamente. In altri studi (Arulampalam et al.,2003; Wallette, 2005) è stata messa in evidenza proprio l’esistenza di una correlazione negativa tra forme di lavoro a tempo determinato e attività di training e formazione offerte dalle imprese stesse. Tali risultati suggeriscono degli interventi in materia di politiche del lavoro completamente differenti da quelli di cui si dibatte in questi mesi in Italia e mostrano le profonde contraddizioni e debolezze di un modello teso a confermare ed incentivare ulteriormente non solo la flessibilità in entrata, ma anche quella in uscita. Se infatti le imprese italiane adottassero un’ottica di lungo termine (piuttosto che inerpicarsi sull’incerto e scivoloso sentiero della minimizzazione dei costi), esse percepirebbero il lavoratore come la principale risorsa su cui investire, essenziale per aumentare la propria competitività e difficilmente sarebbero disposte ad “esodarlo”. E’opportuno allora sottolineare come, nel caso italiano, abbiano pesato e continuino a pesare fortemente la totale mancanza di un sistema di relazioni industriali capace di garantire ai lavoratori diritti, sicurezza e stabilità occupazionale e l’assenza di una progettualità concreta volta a riformare i modelli organizzativi all’interno dell’impresa. Eppure risulta ormai largamente dimostrato che l’organizzazione interna ha un’influenza specifica sulla produttività e più in generale sulla performance dell’impresa. Leoni (2010) ricorda come le componenti più strategiche nell’ambito operativo (ovvero quelle cognitive, relazionali e gestionali) si “formano sul posto di lavoro attraverso una serie di pratiche lavorative quali: l’esercizio di operazioni non routinarie, la job rotation, gli incentivi all’apprendimento, il lavoro in team, la consultazione e il coinvolgimento del lavoratore attraverso un sistema di suggerimenti dal basso, la partecipazione a gruppi di miglioramento e lo sviluppo di una carriera in diagonale (più che verticale).
L’idea di un’impresa “internamente flessibile”, capace di unire innovazioni organizzative, nuove pratiche del lavoro e un ripensamento delle relazioni gerarchiche e del grado di partecipazione del lavoratore appare un concetto del tutto sconosciuto in Italia.Nel nostro paese negli ultimi decenni si è deciso di ignorare quasi totalmente le potenzialità dell’Hpwo (High performance work organization), ovvero di un’organizzazione del lavoro capace di accrescere il capitale organizzativo e favorire in maniera duratura la competitività (e l’aumento dei salari). Infatti, se guardiamo al comportamento delle imprese italiane, vediamo che i loro investimenti in R&S e formazione, il tasso di innovazione congiunta, la quota di ICT e quella di export high tech sono tra i valori più bassi d’Europa. Si potrebbe obiettare che le imprese non hanno realizzato i profitti necessari per compiere investimenti, e che pur avendo ottenuto una minore rigidità delle norme sul lavoro non hanno avuto a disposizione i capitali necessari per aumentare gli investimenti. Ma non è così: prima della crisi in Italia (come nel resto di Europa) si è registrato un forte incremento della quota dei profitti sul valore aggiunto (speculare alla caduta della quota del lavoro) che, in particolare dal 1993 al 2006, è aumentata di circa 11 punti. Allora, a partire da un’analisi ancora più approfondita sui limiti delle relazioni industriali negli ultimi decenni (vedi Acocella e Leoni, 2010) e sul comportamento miope della classe imprenditoriale italiana, si potrebbero trarre spunti interessanti sui quali costruire ed elaborare proposte ben più ambiziose per una riforma del lavoro volta seriamente ad accrescere l’occupazione, a migliorarne le condizioni, riconoscendo diritti e forme di lavoro stabili, capaci non solo di incontrare e soddisfare le esigenze dei lavoratori, ma anche quelle di imprese volte all’innovazione e alla valorizzazione del proprio capitale umano.



01 luglio 2010

I falsi miti del social-liberismo.

dal blog Sinistra in Rete.

 di Francesco Macheda*.

Il recente rapporto della Banca d’Italia sulle tendenze nel sistema produttivo del nostro paese e la manovra finanziaria con la quale la maggioranza di governo si accinge a scaricare i costi della crisi sui lavoratori mettono a dura prova il nocciolo della proposta social-liberale – la ‘terza via’ tra keynesismo e ultra-liberismo – secondo cui la crescita economica passerebbe attraverso l’eliminazione delle rigidità dell’offerta di lavoro, inserita tuttavia all’interno di una cornice regolatoria che non pregiudichi la coesione sociale (Bachet et al. 2001: 144). Più nello specifico, la selezione meritocratica, coniugata a comportamenti socialmente responsabili delle imprese volti a stimolare il ‘lavoratore ad una più alta qualità e partecipazione’ (Bellofiore 2004a) – innalzando così la produttività – eleverebbe la profittabilità aziendale. La ricchezza così creata verrebbe infine redistribuita ai lavoratori mediante l’intervento della politica economica[1].

Tralasciando le implicazioni politiche di tale teoria[2] – che comunque ‘non contrastano affatto le tendenze del capitalismo contemporaneo’ (Bellofiore e Halevi 2007: 13) – ciò che qui interessa è analizzare come a) la scarsità di pratiche meritocratiche sia un tratto necessario alla riproduzione egemonica della classe capitalista italiana, data l’arretratezza della struttura produttiva del paese, e b) le crisi facciano cadere nel dimenticatoio ogni velleità di responsabilità sociale non appena le imprese si trovano a dover scegliere tra la dura legge dei libri contabili e il benessere dei lavoratori.
1. I particolari criteri meritocratici dell’imprenditoria italiana.

Secondo la dottrina social-liberale, l’adozione di criteri meritocratici nella scelta dei lavoratori avrebbe il vantaggio di coniugare equità sociale a crescita economica poiché, oltre a premiare coloro dotati di abilità di partenza più elevate – potenziate dall’impegno quotidiano – impedirebbe a monte che gli individui meno produttivi possano mischiarsi a quelli più produttivi. Tuttavia, se la ragion d’essere della meritocrazia risiede nell’impiego più efficiente del lavoro, con ricadute positive sulla profittabilità, cosa impedisce la sua diffusione nel nostro paese?

Per quanto concerne le posizioni direttive e manageriali, stando al rapporto della Banca d’Italia ciò è imputabile al ruolo svolto dall’imprenditoria italiana che, non favorendo l’accumulazione del capitale e non adempiendo pertanto al ruolo di classe dirigente, ha nondimeno perpetrato la funzione di classe dominante attraverso il suo impianto familistico che le ha garantito ‘elevati benefici privati, espropriativi e non’(Banca d’Italia 2009: 70), riducendo al contempo la ‘disponibilità dei controllanti a cedere il controllo anche quando divenuti “inadeguati” nella gestione dell’impresa’ (Ibid.). Ciò è avvenuto e avviene tuttora sia nelle piccole che nelle grandi imprese, la cui struttura societaria è volta alla non contendibilità del controllo, blindato attraverso piramidi societarie, partecipazioni incrociate, ecc. [3]

La preferenza degli imprenditori italiani della certezza del controllo alla dotazione di una solida base finanziaria[4], non solo ha dato vita ad una struttura industriale orientata verso prodotti tradizionali oramai incapaci di reggere la concorrenza internazionale[5], ma ha fatto sì che il dirigente d’impresa coincida spesso con il proprietario e con i suoi discendenti[6], che sono premiati della ‘“vicinanza” ai proprietari e [del]la “fedeltà”’ (Ibid.: 74). Tuttavia, se l’imperativo è il mantenimento del controllo familiare, allora le cariche direttive non possono essere affidate secondo criteri volti al riconoscimento di doti imprenditoriali che, sebbene abbiano il vantaggio di favorire il processo di accumulazione, potrebbero tuttavia minacciare il ruolo preminente della famiglia nell’impresa.

La salvaguardia del controllo famigliare ha finito col condannare il capitalismo italiano al nanismo e a un’elevata frammentazione produttiva, che ha reso ‘difficile sfruttare le economie di scala insite nell’attività di ricerca e sviluppo. […] La specializzazione produttiva sbilanciata verso produzioni tradizionali a basso contenuto tecnologico’ (Ibid.: 9-10, 51) che ne emerge, ha determinato, quindi, anche la tipologia della domanda di lavoro ‘di linea’, orientata per di più verso posti poco qualificati[7]. Ecco perché si può affermare che, sebbene l’Italia presenti un numero di laureati inferiore a quello di molti paesi europei, essi sono nondimeno ‘troppi se devono confrontarsi con occasioni di lavoro prevalentemente poco qualificate’(Reyneri 2005: 183).

Intrecciando le preferenze per una specifica tipologia di forza-lavoro alla evoluzione della struttura produttiva, è possibile inquadrare storicamente la scarsa adozione di criteri meritocratici volti a premiare le competenze dei lavoratori. In primo luogo, il ridimensionamento delle imprese seguíto al decentramento produttivo, oltre a contribuire ‘ad elevare il tasso di irregolarità’ (Pugliese 2009: 8), ha ridefinito i criteri che stabilivano chi fosse ‘meritevole’ di possedere un lavoro. Poiché i piccoli imprenditori e i lavoratori provenivano dalla stessa comunità, le assunzioni venivano a dipendere dall’affinità culturale, da vincoli familistici e clientelari – tutti fattori che rafforzavano il ‘senso di appartenenza’ a scapito di una visione che poneva al centro il conflitto. Tutto ciò ben si conciliava alle esigenze della piccola impresa che basava, e basa tutt’ora, il proprio vantaggio competitivo sul massiccio sfruttamento della manodopera[8].

In secondo luogo, la triade piccola impresa-pace sociale-sfruttamento è stata completata dall’erosione prima e la demolizione poi della conquista della chiamata numerica – rettificata formalmente dallo Statuto dei Lavoratori – che aveva l’obiettivo di evitare discriminazioni in fase di costituzione del rapporto di lavoro. A partire dal 1977[9], in poco più di un decennio il legislatore riporrà la scelta dei lavoratori alla totale discrezione del singolo imprenditore che, oltre a rafforzare pratiche clientelari, favorirà l’assunzione di lavoratori ligi ai suoi voleri, discriminando coloro che si erano resi protagonisti delle lotte del decennio appena trascorso e i giovani refrattari al continuo incremento dei ritmi di lavoro e al contemporaneo abbassamento dei salari e delle tutele.

In altri termini, il rifiuto di pratiche meritocratiche non è un tratto insito agli imprenditori italiani, ma è il frutto di una precisa evoluzione storica tendente all’eliminazione della conflittualità sui posti di lavoro per meglio perpetrare il massiccio sfruttamento della forza-lavoro[10], da cui ricavare profitti in un contesto di stagnazione degli investimenti. La pesante flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro e la moderazione salariale – effetto di tale dinamica – ha finito così per indebolire il tessuto produttivo del paese, all’interno del quale i criteri meritocratici volti a premiare le competenze (destinate a rimanere frustrate se applicate a macchinari e metodi organizzativi obsoleti, con tutto quello che ciò comporterebbe in termini di stabilità sociale) passano in secondo piano rispetto alla necessità della completa subordinazione della manodopera[11].

2. Nulla è dovuto: la responsabilità sociale d’impresa.

L’altra formula in voga tra i social-liberisti è la responsabilità sociale d’impresa la quale, garantendo salari dignitosi, vincoli alla nocività e comportamenti etici, favorirebbe la flessibilità e quindi la produttività del lavoro – quest’ultima necessaria al conseguimento di un vantaggio competitivo sul lungo periodo dell’impresa – i cui benefici si riverserebbero a cascata sui lavoratori.

Senza addentrarci nei risvolti teorici del problema, è sufficiente un breve excursus storico per comprendere perché i buoni propositi di ‘comportamenti etici’ vengano abbandonati non appena il sistema economico si trovi a fronteggiare le prime avvisaglie di crisi.

Sarebbe troppo semplice soffermarci esclusivamente sull’ultimo trentennio, in cui l’offensiva liberista ha eroso buona parte delle conquiste del lavoro. Volgiamo lo sguardo, allora, a una particolare fase storica – il periodo che va dalla fine della I guerra mondiale alla crisi del 1929 negli Stati Uniti – conosciuta come ‘welfare capitalism’ e analizzata magistralmente da Michael Perelman in un libro di qualche anno fa. Consapevoli degli effetti nefasti del laissez-faire (era ancora fresco il ricordo della Grande Depressione) e dell’importanza del controllo del movimento sindacale – allora in forte ascesa – gli imprenditori statunitensi sorretti ‘ideologicamente’ dalla presidenza Hoover, adottarono comportamenti socialmente responsabili che, aumentando l’efficienza produttiva, avrebbero dovuto confermare la superiorità del sistema di mercato rispetto a quello socialista nel garantire sia alti standard di vita ai lavoratori, sia una crescita più equa ed equilibrata. Tuttavia, una volta scoppiata la Grande Crisi, anche i grandi industriali illuminati – che inizialmente tentarono di non intaccare gli standard lavorativi – dovettero gettare la spugna: tra la dura legge dei libri contabili e i diritti dei lavoratori, scelsero la prima opzione.

La crisi del 2007 e il periodo di turbolenze precedente non sembrano riservare un destino diverso alle velleità di ‘responsabilità sociale d’impresa’. Una volta svanite le illusioni di un mondo unipolare all’indomani dello sgretolamento del blocco sovietico, lo scontro economico tra paesi e imprese in competizione per l’accaparramento di mercati di sbocco, materie prime e aree abitate da manodopera a basso costo, ha subíto un brusco inasprimento, concedendo al contempo ‘un enorme vantaggio in termini di potere contrattuale agli imprenditori di molti paesi sviluppati’ (Glyn 2007), dal momento che i lavoratori occidentali – non solo quelli meno qualificati – hanno iniziato a risentire negativamente della competizione dei lavoratori dei paesi dell’Europa dell’est, dotati anch’essi di elevati livelli d’istruzione[12]. Di conseguenza, sono andati assottigliandosi i margini per l’adozione di comportamenti etici i quali, ponendo ‘lacci e lacciuoli’ alla libera iniziativa, hanno lo “spiacevole inconveniente” di frenare la profittablità almeno nel breve periodo, col rischio che l’impresa sia travolta da una competizione sempre più agguerrita. D’altra parte, sperare che siano i governi – che da più di un trentennio stanno supportando la gigantesca redistribuzione da L a K[13] – a porre vincoli alla libertà d’impresa pare quantomeno illusorio quando non addirittura paradossale, se è vero che dallo scoppio della crisi odierna gli stati e gli organismi transazionali non hanno esitato minimamente a scaricare i costi dei risanamenti bancari sulle spalle dei lavoratori[14].

3. Conclusione

Condurre la battaglia teorica per la promozione di comportamenti responsabili da parte delle imprese, così come contro le pratiche clientelari, è sacrosanto. Tuttavia, altrettanto importante è la prospettiva entro la quale s’inquadra il problema. Piuttosto che dal disegno regolativo dei policy makers, quando non addirittura dalla sensibilità delle singole aziende, sia la responsabilità sociale che l’eliminazione di perniciose discriminazioni da parte delle imprese sono storicamente scaturite dalle spinte conflittuali provenienti dal mondo del lavoro contro le organizzazioni più apertamente conservatrici, che gli imprenditori e i governi hanno poi dovuto rettificare formalmente.


* Università Politecnica delle Marche, Ancona.

[1] Sulla continuità tra neoliberismo e social-liberismo si veda: Bellofiore (2004b), pp. 93-94.
[2] Su questo punto è illuminante l’esposizione di Brancaccio (2009), pp. 41-42.
[3] Se ‘le società non quotate [sono] in grandissima parte tuttora di natura familiare’, ancora a metà degli anni ’90 ‘tra le imprese quotate il principale azionista possedeva la maggioranza assoluta.’ Tuttavia, ‘negli ultimi anni non vi è stata una significativa evoluzione nella struttura proprietaria e del controllo delle società quotate italiane.’ ‘Le imprese familiari continuano a rappresentare la vasta maggioranza; la concentrazione della proprietà resta alta: nel 2007 la quota di azioni detenuta dall’azionista principale era ancora pari al 67.7 per cento’ (Banca d’Italia 2009: 69-72). La trattazione di Amatori e Brioschi (2001: 148-149) sul congelamento degli assetti di controllo rimane estremamente attuale.
[4] Il capitalismo italiano è caratterizzato da una sottocapitalizzazione e al contempo da una forte concentrazione della stessa. Si veda, Banca d’Italia (2010), pp. 187-199.
[5] Banca d’Italia (2009), pp. 30-32,73.
[6] Nell’ultimo decennio il 3% delle imprese manifatturiere ha cambiato controllo ogni anno. La metà di questi trasferimenti avviene all’interno della famiglia proprietaria, tipicamente tra generazioni (Banca d’Italia 2009: 72).
[7] L’inchiesta dell’ISAE sui comportamenti di assunzione delle imprese nel settore manifatturiero ha rilevato che nel corso del 2008 il 94.8 percento delle imprese che hanno assunto almeno un lavoratore nel corso dell’anno ha selezionato esclusivamente personale in possesso di titoli di studio inferiori alla laurea.
[8] Il fatto che il lavoratore della piccola impresa riceva un salario inferiore del 26.2 % di quello del dipendente standard non è imputabile alle limitate capacità di pagare dovute alla scarsa produttività bensì, come rilevato da Vianello (2007) ‘alla elevata capacità di non pagare’ delle piccole imprese.
[9] Per la ricostruzione dell’iter legislativo sfociato nell’eliminazione della chiamata nominativa, si veda: Liso (2002)
[10] Tra il 1993 e il 2008 su una crescita complessiva di 14.3 punti percentuali della produttività reale dell’intera economia da redistribuire, solamente 3.8 punti sono andati al lavoro.
[11] L’indagine ISFOL (2008) ha rilevato che le competenze maggiormente richieste sul posto di lavoro dai manager operanti nel settore manifatturiero sono l’affidabilità nell’esecuzione del proprio lavoro, le abilità manuali e la resistenza psicofisica – qualità che non necessitano di particolari investimenti in formazione.
[12] Nel 2007, la media dei giovani tra i 25 e i 34 anni dei nuovi paesi membri in possesso di un’istruzione universitaria era del 27.1 percento. In Italia, solo 19 giovani su 100 erano laureati.
[13] Tralasciando la caduta dei redditi da lavoro dell’ultimo biennio, dal 1980 al 2008 il monte retribuzioni sul PIL nei maggiori industrializzati ha subíto una discesa verticale. In Italia si è passati dal 73.8 al 65.1%, in Francia dal 75.6 al 65.8%, in Germania dal 72.9 al 63%, in Spagna dal 65.4 al 58.6% e in U.K dal 75.9 al 65.2%.
[14] Nel 2009, il numero di disoccupati nei paesi sviluppati è aumento di 13.7 milioni di unità, mentre il tasso di occupazione è crollato del 2.5 percento. Solo in Europa, la riduzione del numero di occupati ha abbondantemente superato i quattro milioni. Nel primo trimestre 2010 sono stati distrutti 50 mila posti di lavoro in seguito a 160 processi di ristrutturazione aziendale. Nel nostro paese, l’occupazione nel corso del 2009 si è ridotta di 380 unità, colpendo fortemente i giovani e il lavoro temporaneo.



Bibliografia

Amatori F., Brioschi F. (2001), “Le grandi imprese private: famiglie e coalizioni”, in Barca F. (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Roma: Donzelli.
Bachet, D., et al. (2001), Social-Liberalism in France, Capital & Class, Vol. 25, n. 3.
Banca d’Italia (2009), “Rapporto sulle Tendenze nel Sistema Produttivo Italiano”, Questioni di Economia e Finanza, n.45, Roma.
Banca d’Italia (2010), Relazione Annuale sul 2009, Roma.
Bellofiore, R. (2004a), “Il bivio dopo Maastricht”, La Rivista del Manifesto, n. 51.
Bellofiore, R. (2004b), “Contemporary Capitalism, European Policies, and Working-Class Conditions”, International Journal of Political Economy, Vol. 34 n. 2.
Bellofiore, R., Halevi, J. (2007), Deconstructing Labor: What Is ‘New’ in Contemporary Capitalism and Economic Policies: a Marxian-Kaleckian Perspective, Paper presentato al Congrès Marx International V, Paris-Sorbonne et Nanterre.
Brancaccio, E. (2009), Anti-Blanchard. Una critica al modello macroeconomico dominante, dispense per il corso di Macroeconomia della Facoltà SEA - Università del Sannio, quinta versione.
CNEL (2009), Rapporto sul mercato del lavoro 2008 – 2009.
Conference Board Total Economy Database, January 2010.
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European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2010), European restructuring monitor quarterly, Issue 1-Spring.
EUROSTAT (2009), News release 58/2009.
Glyn, A. (2007), “Explaining Labor’s Declining Share of National Income”, G-24 Policy Brief, n. 4.
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ISAE (2009), Le assunzioni nel 2008 nel settore manifatturiero: tipologie contrattuali, contrattazione integrativa, skills, pp. 7-8.
ISTAT (2010), Rapporto annuale La situazione del Paese nel 2009, p. 103.
Liso, F. (2002), Collocamento e agenzie private, Giornale del diritto del lavoro e relazioni industriali,Vol. 96.
Megale A., et al. (2009), Salari in crisi. Salari, produttività e distribuzione del reddito, IV Rapporto Ires CGIL.
Perelman, M. (1996), The End of Economics, London and New York: Routledge, pp. 112-130.
Pugliese, E. (2009), “Indagine su “il lavoro nero””, in CNEL, Il Lavoro che cambia.
Reyneri, E. (2005), Sociologia del Mercato del Lavoro, Vol.I, Bologna: Il Mulino.
Vianello, F. (2007), Salari: la straordinaria capacità tutta italiama di non pagare, Il Manifesto, 7 novembre.

06 aprile 2007

Meritocrazia, la grande truffa del Capitalismo.


Per quei pochi che ancora non capiscono o fanno finta di non capire consiglio al lettura di questo articolo. Per quei pochi che pensano che il capitalismo sia il sistema economico più efficente. Ma anche per chi pensa come me che è ora di consegnarlo alla storia.

Metto l'articolo qui sotto nel caso dovesse "scomparire".


Addio ai dipendenti più produttivi, ma che guadagnano di più
Usa: sei bravo? Ora ti licenzio
La ricetta pericolosa del capitalismo americano: il caso dei licenziamenti nella catena di negozi Circuit City
L e ristrutturazioni imposte dalla crisi dell'auto Usa stanno facendo scomparire 70 mila posti di lavoro nell'area di Detroit. L'era della fotografia digitale costringe la Kodak a tagliare 30 mila addetti. Altri 10 mila posti svaniscono alla Pfizer (farmaci), mente Citibank annuncia 15 mila esuberi. Eppure da diversi giorni a catturare l'attenzione dei giornali americani è un'altra vicenda, apparentemente minore: quella di Circuit City — una catena di negozi di elettronica — che ha deciso di liberarsi di 3400 dipendenti, l'8% della sua forza lavoro. O meglio: la società ha deciso di licenziare i dipendenti più esperti e meglio pagati per riassumerne altri, magari meno preparati, che riceveranno un salario molto più basso. È proprio questo che fa discutere: per la prima volta una società dice chiaramente che non licenzia perché deve ridimensionare gli organici o perché non è soddisfatta dei suoi dipendenti. Anzi, licenzia proprio quelli che rendono di più ma che, avendo ricevuto aumenti retributivi per merito o anzianità, sono diventati troppo costosi.
Se ci si limita a guardare ai numeri del mercato, l'operazione una sua logica ce l'ha. Nell'economia moderna il potere si sposta sempre più dai produttori ai consumatori: il rapido calo dei prezzi delle tv a schermo piatto è benvenuto dalle famiglie americane, ma sta drasticamente riducendo i margini dei distributori per i quali la flat tv era il prodotto più redditizio. Best Buy, la catena concorrente di Circuit City, ha reagito meglio all'erosione dei profitti. Circuit City si è invece ritrovata coi conti in rosso: tagliando gli stipendi più elevati, conta di recuperare 100 milioni di dollari e di tornare in utile. Wall Street è d'accordo e ha premiato il titolo della società dopo l'annuncio dei licenziamenti. E vari economisti sottolineano come proprio questa estrema libertà di licenziare spinga poi le imprese americane anche ad assumere con grande facilità. Tanto che, anche in un periodo di profonde ristrutturazioni, la disoccupazione Usa rimane a livelli bassissimi: il 4,5%. In parte è vero, ma il meccanismo messo in moto da Circuit City rappresenta oggi soprattutto una minaccia per la stabilità del capitalismo americano nel quale in genere è il datore di lavoro a fornire al dipendente pensione e assistenza sanitaria. E che già soffre del «tarlo» della polarizzazione dei redditi, con lo schiacciamento dei ceti che un tempo vivevano in un'agiatezza da classe media. Fenomeni che erodono il consenso sociale e che in genere vengono considerati un effetto della globalizzazione: aziende, soprattutto manifatturiere, obbligate a tagliare occupati e stipendi per poter competere con i Paesi emergenti.
Invece Circuit City non è un'azienda manifatturiera ma di servizi e il suo concorrente non sta in Asia, ma dall'altra parte della strada: ed è americano come lei. Da quando i democratici hanno ripreso il controllo del Congresso, la politica Usa sta rivedendo le sue posizioni su globalizzazione e libero scambio. Tanto più che l'economista Alan Blinder, un liberista convinto che negli anni '90 spinse Bill Clinton sulla strada del free trade, ha presentato uno studio dal quale emerge che nei prossimi anni 40 milioni di posti di lavoro americani rischiano di «emigrare» all'estero. Il caso di Circuit City dimostra che le minacce alla stabilità vengono anche dall'interno. Oltre che dai lavoratori, la decisione di licenziare chi guadagna 51 centesimi di dollaro all'ora più della paga giudicata ottimale dalla direzione aziendale, è stata aspramente criticata anche da consulenti aziendali e da analisti come quelli di Merrill Lynch per i quali l'eliminazione del personale più esperto peggiorerà il servizio offerto ai clienti e finirà per demotivare il personale.