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26 febbraio 2014

Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi, ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Bill Clinton

Da Signoraggio.it 

Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran Mustafi?, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Miloševi?, ucciso in carcere, a Radovan Karadži? e al Generale Ratko Mladi?, ancora oggi detenuti all'Aja?
Lo storico russo Boris Yousef,  in un suo saggio del 1994, scrisse quella che ritengo una sacrosanta verità: «Le guerre sono un po' come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale. Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare danni talvolta permanenti e imprevedibili».
Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che, formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e pianificato da alcune potenze occidentali (con in testa l'Austria e la Germania), da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano.
La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l'obiettivo geo-strategico primario di una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi le sue spoglie.
Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose con forza soltanto Slobodan Miloševi?, divenuto Presidente della Repubblica Socialista di Serbia, e che toccò il culmine con la creazione in Croazia, nel Maggio del 1989, dell'Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli Ustascia di Ante Paveli?, guidato dal controverso ex Generale di Tito Franjo Tu?man.
Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due repubbliche ribelli e all'allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente.
Come ho scritto poc'anzi, ritengo che la saggia affermazione di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare 'naturalmente' manu militari nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le pressioni e le intromissioni della sedicente 'Comunità Internazionale', delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta, dall'alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di ridisegnare la cartina geografica dell'area sulla base delle convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale del territorio.
Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei, complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tu?man costruì il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi che dal Sud America gettavano l'ancora nel porto di Zara, secondo voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica Democratica Tedesca siano prontamente finiti nelle mani di Zagabria.
Si tratta di vicende che conosco molto bene, perché ho trascorso nei Balcani buona parte degli anni '90, prevalentemente a Belgrado e a Skopje. Parlo bene tutte le lingue dell'area, compresi i relativi dialetti, e ho avuto a lungo contatti con l'amministrazione di Slobodan Miloševi?, che ho avuto l'onore di incontrare in più di un'occasione. Sono stato, fra l'altro, l'unico esponente politico italiano ad essere presente ai suoi funerali, in una fredda giornata di Marzo del 2006.
Sono stato quindi un diretto testimone dei principali eventi che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika Krajina, sotto la spinta dell'occupazione croata delle loro case, avvenuta con l'appoggio dell'esercito americano.
Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia, i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che cambiava nel giro di poche ore il potere d'acquisto di una banconota. Ho vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto - a ragione - alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell'operazione di marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui tavoli di Washington e di Langley che impose a tutta l'opinione pubblica la favoletta dei Serbi 'cattivi' aguzzini di poveri e innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all'inevitabile criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo sui crimini e sulle nefandezze delle altre.
La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon. In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta, necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità, soprattutto dettate dal risveglio di un mai sopito odio etnico. Ma mai nessun conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile massiccio impiego di 'false flag', azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall'intelligence, per scatenare le reazioni dell'avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il concetto di 'false flag' in numerosi miei articoli, denunciando l'escalation del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra.
Fino ad oggi la più nota 'false flag' della guerra civile jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che determinò l'intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni serbo-bosniache sulle colline della città. Venne poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco di Alija Izetbegovi? a uccidere decine di suoi cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi.
E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale 'false flag' del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l'esercito serbo-bosniaco comandato dal Generale Ratko Mladi?, che da allora venne accusato di 'crimi di guerra' e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell'Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di 'false flag'.
I giornali italiani, che all'epoca scrissero titoli a caratteri cubitali per dipingere come un 'macellaio' il Generale Mladi? e come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadži?, anch'egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita, diretto dall'amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci.
Ibran Mustafi?, veterano di guerra e politico bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di coscienza, ha rilasciato ai media una sconcertante confessione: almeno mille civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito all'occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà».
Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran Mustafi? ha pubblicato un libro, Caos pianificato, nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai separatisti musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e - questo è molto significativo - anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni Unite.
Mustafi? racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell'amministrazione di Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser Ori?. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Ori? e le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia, sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono fuggiti in direzione di Tuzla ( governata dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi», svela Mustafi?. E, ben prima del massacro dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini che Mustafi? descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla.
«Lì - egli scrive - il mio parente Mirsad Mustafi? mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c'erano i nomi del suo compagno di scuola Branko Simi? e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ili?, dell’autista di Zvornik Mijo Raki?, dell’infermiera Rada Milanovi?. Inoltre, nelle battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di 3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi».
Mustafi? ci riferisce a riguardo una terribile confessione del famigerato Naser Ori?, confessione che non mi sento qui di riportare per l'inaudita credezza con cui questo criminale di guerra descrive i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di Mustafi?, anch'esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male, ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunovi? ha dilaniato il petto dell’infermiera Rada Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L'intera pista era inondata di sangue».
Da quanto ci racconta Mustafi?, gli elenchi dei 'bosniaci non affidabili' erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al Presidente Alija Izetbegovi?, e l'esistenza di questi elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte ho sentito l’ex capo della polizia Meholji? menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice Mustafi?, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafi?, l'elenco venne redatto dalla mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della città sin dal 1993. I 'padroni della vita e della morte nella zona', come lui li definisce nel suo libro. E, senza esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Ori?, assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica(clamorosamente assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia dell'umanità».
Ma l'aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni di Mustafi?  è l'ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegovi? , e in particolare tra Izetbegovi? e il presidente USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafi? afferma con totale convinzione.
«Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegovi? e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafi?. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di 'false flag'), nelle quali i miliziani albanesi dell'UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l'esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia.
Come sottolinea sempre Mustafi?, riguardo a Srebrenica ci sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da tempo emigrati e morti all'estero. E un discorso simile riguarda le persone torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani - sostiene Mustafi? - hanno deciso di dichiararsi vittime perché non avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato l'occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti invalidi di guerra di Srebrenica?».
Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto difficile  - sostiene nel suo libro - perché i fatti di Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il burattinaio capo di esse è stato Amor Masovi?, che con la fortuna fatta sopra il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di Izetbegovi? che, a partire dall'estate del 1992, hanno lavorato per realizzare il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime della guerra».
Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del 1995, la famigerata Operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l'uso di micidiali bombe all'uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il comando dell'esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale serbo-bosnica Banja Luka e che costrinse i Serbi ad un cessate il fuoco e all'accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba). Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri combattimenti.    
Alija Izetbegovi?, fautore del distacco della Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30% della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell'autoproclamato nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5 Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihi?. È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della 'comunità internazionale' la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all'epoca di Tito, (in particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e ostili allo Stato.
Nella sua celebre Dichiarazione Islamica, pubblicata nel 1970, dichiarava: «non ci sarà mai pace né coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non islamiche» e che «il movimento islamico può e deve impadronirsi del potere politico perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica Bosnia-Erzegovina, luogo dove storicamente hanno sempre convissuto in pace diverse culture e diverse religioni, in una satrapia fondamentalista, con l'appoggio ed i finanziamenti dell'Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e con l'importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di immani massacri.
Slobodan Miloševi?, accusato di 'crimini contro l'umanità' (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all'Aja. Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella sua cella l'11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che avrebbero scatenato le sue dichiarazioni.
Radovan Karadži?, l'ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladi?, comandante in capo dell'esercito bosniaco, sono stati anch'essi arrestati e si trovano in cella all'Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di 'crimini contro l'umanità', fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica.
Adesso che su Srebrenica è finalmente venuta fuori la verità, dovrebbe essere facile per loro arrivare ad un'assoluzione, a meno che qualcuno non abbia deciso che debbano fare la fine di Miloševi?.
Ma chi restituirà a loro e al defunto Presidente Jugoslavo la dignità e l'onorabilità? Tutte le grandi potenze occidentali, dagli Stati Uniti all'Unione Europea, dovrebbero ammettere di aver sbagliato, ma dubito sinceramente che lo faranno.
Nicola Bizzi

24 ottobre 2013

STALIN 60MILIONI DI MORTI, LA PIU' GRANDE CAZZATA DELLA STORIA!!!


Da Stachanov blog

Nel 1926 (dicembre) il censimento dette la cifra di 147.000.000, nel 1937 (gennaio) il censimento indicò in 162.000.000 la popolazione dell’URSS; 
Questo significa che in quel periodo la popolazione crebbe dello 1,02 %° l’anno, incremento identico a quello italiano e superiore al contemporaneo incremento medio annuale di Francia, Inghilterra e Germania. Il censimento del gennaio 1939 indicò in 170.000.000 la popolazione dell’URSS; secondo attendibili fonti la cifra è tropo alta e va ricondotta a 168-169.000.000. Anche accettando le cifre più base abbiamo un incremento medio rispetto al 1926 (dicembre) del 1,42%°, nettamente superiore a quello degli altri paesi dell’Europa occidentale.La popolazione dell’URSS nel 1939, sempre accettando la cifra più bassa, incideva sul totale della popolazione mondiale per il 7,77 % (1919 7,50%); nello stesso periodo (1919-39) la Francia passa dal 2,17 al 1,91, la Germania dal 3,33 al 3,13, il Regno Unito dal 2,39 al 2,13, l’Italia dal 2,11 al 2 ( malgrado la campagna demografica del fascismo), gli USA dal 5,84 al 6 e il Giappone dal 3,03 al 3,05.Bastava leggere i numeri per rendersi conto che le cifre dei repressi e delle vittime sono state addirittura decuplicate, in alcuni casi, nei vari libri neri, al punto che lo stesso coautore del Libro nero del comunismo, Nicholas Werth, ha dovuto rettificare al forte ribasso le cifre gonfiate presenti nell’opera, come riconosciuto da lui stesso in un articolo dei primi annni ’90 sulla rivista L’Histoire.

LOTTA ALLA CONTRO-RIVOLUZIONE

Dal 1921 al 1953 furono condannate per attività controrivoluzionaria circa 4.000.000 di persone, delle quali 780.000 furono fucilate; nei campi di lavoro, colonie penali e prigioni morirono 600.000 detenuti politici. Si possono calcolare pertanto in 1.400.000 i morti per motivi politici nell’URSS dalla fine della guerra civile alla morte di Stalin. Sono cifre ben lontane da quelle riferite dai vari Conquest, Medvedev, Solzhenitzin, che oscillano tra 10.000.000 e 40.000.000 milioni di esecuzioni. 

SISTEMA PENALE SOVIETICO


Nel sistema penale sovietico i condannati potevano,soltanto nei casi più gravi, essere inviati nei Gulag, per reati meno gravi nelle colonie di lavoro, dove i condannati erano impiegati nelle fabbriche o nell’agricoltura e percepivano un regolare salario, o in particolari zone di residenza con proibizione di risiedere in alcune città, in genere Mosca o Leningrado. In quest’ultimo caso godevano in genere dei diritti politici; in attesa della sentenza gli accusati erano tenuti nelle prigioni. Il totale dei condannati nei Gulag oscillò tra un minimo di 510.000 nel 1930 a un massimo di 1.711.202 nel 1952.
I condannati presenti nei Gulag, colonie di lavoro e prigioni oscillarono fra 1.335. 032 del 1944 e 2.561.351 del 1950. Mancano i dati complessivi fino al 1939, quando si raggiunse la cifra generale di 2.000.000.  La mortalità generalmente oscillante intorno al 3% annuo toccò punte elevate nel 1942 e 1943, 17%, durante il periodo bellico, quando anche le condizioni alimentari, igieniche, di salute della popolazione civile peggiorarono drammaticamente. Al tempo stesso la popolazione dei Gulag diminuì drasticamente, perché molti condannati furono arruolati nell’esercito.Il forte incremento degli anni postbellici è in parte da attribuire alla presenza di prigionieri di guerra, condannati per diserzione e collaborazione con gli occupanti tedeschi. E’ comunque interessante notare che la popolazione detenuta nel suo complesso arrivò a toccare al massimo il 2,4% della popolazione adulta; nel 1996 erano detenuti negli USA 5.500.000 persone cioè il 2,8% della popolazione adulta. Le statistiche ci dicono anche che la grande maggioranza dei condannati (80-90%) riceveva pene inferiori a 5 anni, meno del 1% superiori a 10. Vanno anche ricordati i provvedimenti di amnistia, i più larghi dei quali, che interessarono oltre un milione di detenuti, nel 1945 e nel 1953. Credo che qualunque paragone con i campi di concentramento nazisti sia un offesa alla verità; lì i deportati erano destinati, se ebrei, rom o di razze considerate inferiori, a morte certa; nessun tribunale aveva decretato la loro condanna; le pene non prevedevano un termine, non c’erano amnistie; non c’era la possibilità di revisione della condanna e di riabilitazione, come, anche in epoca staliniana avvenne per non pochi condannati: per quanto dure potessero essere le condizioni nei campi sovietici, non erano paragonabili a quelle dei lager nazisti. 

LE PURGHE
 Contrariamente a quanto affermato la maggioranza dei vecchi bolscevichi non fu colpita: dei 24.000 iscritti prima del 1917 ne sopravvivevano 12.000 nel 1922, 8.000 nel 1927, meno di 5.000 (cioè tra 4.500 e 5.000 n.d.r.) nel 1939, dopo la grande purga. Dei 420.000 membri del PCUS nel 1920 ne rimanevano 225.000 nel 1922, 115.000 nel 1927, 90.000 nel 1939. Altri dati indicano in 182.600 gli iscritti prima del 1920, dei quali 125.000 erano presenti nel 1939. La purga investì l’esercito, ma non nella misura indicata daglia nticomunisti. Dei 144.300 ufficiali e commissari dell’Armata Rossa 34.300 furono espulsi per ragioni politiche; di questi 11.586 entro il maggio 1940 furono reintegrati nel posto e nel grado; le vittime della purga nell’esercito furono pertanto 22.705, cioè il 7,7% del totale. Anche in questo caso furono gli alti gradi ad essere più colpiti. 

KULAKI

La composizione di classe dei contadini nel 1927 era la seguente: i contadini poveri costituivano il 35% del totale. La grande maggioranza della popolazione agraria, dal 51 al 53%, era costituita dai contadini medi (le cui condizioni di lavoro erano tuttavia arretrate). “Nell’insieme dell’Unione sovietica, tra il 5% e il 7% dei contadini erano riusciti ad arricchirsi: i kulaki. Dai dati del censimento del 1927, il 3,2% delle famiglie dei kulaki possedeva in media 2,3 animali da tiro e 2,5 vacche contro una media di 1,0 e 1,1 per le rimanenti famiglie. 950.000 famiglie, cioè il 3,8%, occupavano operai agricoli o affittavano mezzi di produzione.Al 1° ottobre 1928 su 1.360.000 membri e candidati, 198.000 erano contadini. Nelle campagne c’era un membro del partito ogni 420 abitanti e 20.700 cellule del partito, una ogni quattro villaggi. Queste cifre acquistano maggior peso se messe a confronto con quelle degli ‘effettivi permanenti’ della reazione zarista, i preti ortodossi e gli altri religiosi a tempo pieno, che erano 60.000. La gioventù contadina costituiva la più grande riserva del partito. Sempre nel 1928 un milione di giovani contadini militavano nel Komsomol ed inoltre il partito poteva contare sui soldati che avevano combattuto nell’Armata rossa durante la guerra civile e sui 180.000 contadini che si arruolavano ogni anno nell’esercito, dove ricevevano un’educazione comunista.
Negli anni 1939-1931vennero esprorpiati i terreni di 381.026 kulaki che furono costreti all'espatrio insieme alle loro famiglie, nelle terre vergini dell’Est della Russia. Si trattava di 1.803.392 persone. Al 1° gennaio 1932 nei nuovi insediamenti ne furono censite 1.317.022. La differenza era di circa 486.000, che non coincide con la loro eliminazione fisica. Data la disorganizzazione dell’epoca, bisogna mettere in conto che un numero imprecisato di deportati riusciva a fuggire durante il viaggio. Fenomeno frequente, confermato dal fatto che di quel 1.317.000 censiti nei nuovi insediamenti, 207.010 riuscirono a fuggire nel 1932. Molti altri, dopo la revisione del loro caso, poterono tornare nei luoghi d’origine.


FONTI

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S. Fitzpatrick Educational level and social mobility in Soviet Union 1921-1934 Cambridge University Press 1979
J A Getty Origin of great purges: the soviet communist party reconsidered 1933-1938 Cambridge University Press 1999
J A Getty R T Manning Stalinist terror: new perspectives CambridgeUniversityPress 1993
S G Wheatcroft Toward explaining the changing levels of Stalinist repression in 1930s. mass killing Europe-Asia studies 51;113-145.1999
S G Wheatcroft Victims of Stalinism and the Soviet Secret Police. The comparability and reliability of archival data. Not the last word Europe-Asia Studies 51; 515-545, 1999
R W Davies M Harrison, S G Wheatcroft The economic transformation in Soviet Union 1914-1945 Cambridge University Press 1994

14 settembre 2013

Alcune radici del Socialismo con caratteristiche cinesi


Da Marx21,   di Francesco Maringiò*

Chinese-Dragon-at-Dusk(1) Qualsiasi discussione sul presente e sul futuro della Cina non può prescindere dal fondamentale contributo dato da questo paese alla lotta per il Socialismo.È interessante notare come nei primi 15 anni dalla nascita dell’URSS (1917-1932), ci siano state tre diverse “configurazioni” di Socialismo:a)    il Comunismo di Guerra (1918-1921), da Gramsci definito il “collettivismo della miseria”;b)    la Nuova Politica Economica (1921-1929), su impulso di Lenin;c)    la Collettivizzazione dell’agricoltura e la centralizzazione integrale dell’economia (1929-1932), su impulso del nuovo gruppo dirigente bolscevico, a seguito della morte di Lenin (1924).

Nessuna di queste fasi è stata indolore e, soprattutto, nessuna è stata la proiezione delle analisi dei classici del marxismo. Pertanto è del tutto legittimo che oggi ci siano nuovi esperimenti e che il gruppo dirigente cinese cerchi la sua strada per costruire il socialismo in un Paese orientale, arretrato tecnologicamente rispetto alla triade imperialista ed in cui vive un quarto della popolazione mondiale.(2) Quando il PCC prese il potere nel 1949 la Cina era uno dei Paesi più poveri al mondo, a seguito del lungo “secolo delle umiliazioni” (1839-1949) iniziato con la Prima Guerra dell’Oppio che diede vita a quel processo definito da Ken Pomeranz come “La Grande Divergenza”. Attraverso questo processo il mondo occidentale (segnatamente Europa Occidentale ed Usa) è inconfutabilmente emerso nel corso del XIX sec come la più potente e ricca civiltà mondiale, eclissando l’Oriente asiatico della Cina dei Qing, dell’India dei Moghul, del Giappone dei Tokugawa e dello stesso Impero Ottomano. Questa Grande Divergenza vede l’Europa in rapida ascesa utilizzando un processo di sviluppo che Adam Smith considerava “innaturale” (ossia basato prevalentemente sul commercio estero), mentre per l’Asia, dopo un percorso di sviluppo “naturale”, si avvia un profondo arretramento, a seguito della Guerra dell’Oppio e dell’inizio del periodo di colonizzazioni e guerre. Quindi, mentre per i Paesi europei diventa centrale combattere le guerre per controllare le rotte marittime e commerciali verso l’Oriente, per i governanti cinesi era centrale avere una politica di rapporti di buon vicinato con gli stati confinanti e di sviluppare il mercato interno per uniformare il proprio dominio sotto un’unica economia nazionale (cosa, questa, che li rende impreparati a fronteggiare le invasioni militari e coloniali che stanno per abbattersi sui loro mari e sul loro Paese).È interessante osservare come sin dall’era Ming e nella prima fase della dinastia Qing, i governanti cinesi facessero uso del mercato con l’obiettivo di arricchire la nazione. Chén Hóngmóu (1696-1771), filosofo ed influente ufficiale della dinastia Qing, già nel XVII sec insisteva a lungo sul ruolo dello Stato e sull’utilizzo del mercato come strumento di arricchimento della nazione.(3) Le riforme di Deng Xiaoping prendono le mosse dopo un periodo di caos e turbolenze e puntano ad individuare obiettivi di lavoro concreti capaci di portare il Paese fuori dalla condizione di pesante arretramento che stava vivendo. Infatti quanto il PCC prese il potere, si trovò a governare un paese profondamente arretrato. Compito principale del gruppo dirigente cinese fu quello di ridurre le disuguaglianze interne e, contemporaneamente, quelle tra la Cina ed i Paesi capitalisti più avanzati. Ma la lotta contro queste due disuguaglianze, molto spesso, non può essere fatta contemporaneamente. E se in una prima fase, soprattutto durante la Rivoluzione Culturale, il gruppo dirigente si è concentrato sulla riduzione delle disuguaglianze interne, è con la nuova politica di Riforma ed Apertura che si presta attenzione alla riduzione del divario tra la Cina ed i paesi capitalisti più sviluppati. Per fare questo, si attinge alla tradizione dell’amministrazione e del governo richiamata al punto (2) e si fa ricorso al mercato come elemento di dinamizzazione dell’economia, permettendo anche la nascita di un poderoso settore di economia privata. A bilanciare questo aspetto, rimane comunque il fatto che il potere politico resta saldamente nelle mani del PCC il quale compie una totale espropriazione politica della borghesia, ma non compie una totale espropriazione economica della stessa, al fine di non bloccare lo sviluppo delle forze produttive.Deng pose spesso l’accento sul fatto che il socialismo non significasse “socializzazione della miseria” ed il mercato non fosse prerogativa esclusiva del capitalismo: «pianificazione e forze di mercato non rappresentano l'essenziale differenza che sussiste tra socialismo e capitalismo. Economia pianificata non è la definizione di socialismo, perché c'è una pianificazione anche nel capitalismo; l'economia di mercato si attua anche nel socialismo. Pianificazione e forze di mercato sono entrambe strumenti di controllo dell'attività economica». [Deng Xiaoping, in: John Gittings, The Changing Face of China, Oxford University Press, 2005]Questo approccio ricorda molto quello avuto da Lenin con la NEP (Nuova Politica Economica) che introdusse l’idea della transizione come un lungo periodo che vede la compresenza nell’economia di piano e mercato. In questa nuova fase allo Stato socialista spetta il compito di controllare gli elementi chiave dell’economia, mentre al mercato gli si riconosce una funzione progressiva imprescindibile. Del resto lo stesso Marx dice che, nel passaggio dal capitalismo al socialismo, la proprietà dominante non è più quella capitalistica ma quella socialista, ma ciò non esclude che ci siano forme di proprietà privata. Il discrimine sta nel fatto che non è quella la proprietà che impronta di sé tutta la società.È indubbia l’influenza esercitata dalle riflessioni di Lenin sulla NEP nel pensiero di Deng ma, allo stesso tempo, credo valga la pena considerare l’importanza avuta anche dalla radicata tradizione dell’amministrazione e del governo del Paese, durante la fase di “sviluppo naturale” e prima richiamata nelle considerazioni dell’ufficiale Qing sull’uso del mercato come elemento di arricchimento della nazione. È per questa via che il nuovo corso cinese punta a combattere le due disuguaglianze: quelle interne ed il divario con i paesi capitalisti più sviluppati.(4) A determinare la natura capitalistica di un società non è quindi la presenza o meno del mercato in economia. È nel rapporto tra il potere dello stato e quello del capitale che va indagata la natura del carattere capitalistico dello sviluppo economico su basi di mercato: se lo stato non è subordinato all’interesse di classe dei capitalisti, allora l’economia di mercato mantiene un carattere non capitalistico. Ed è stato proprio il diverso modello di sviluppo economico tra l’Europa (“modello innaturale”) e l’Asia (“modello naturale”) e porre le basi per l’affermazione di differenti sistemi  economici e, nel primo caso, a porre le basi per lo sviluppo di un mercato capitalistico. Ed infatti, mentre in Europa l’identificazione tra interesse di classe ed interesse nazionale è stato molto forte, nella Cina dei Ming e dei Qing si è seguita una strada molto diversa. E così la società occidentale si è sviluppata ed organizzata sulla base dell’interesse immediato del capitalismo ad una accumulazione illimitata di capitale e potenza che l’ha portata a prediligere una continua corsa agli armamenti ed all’espansione militare. Caso emblematico è stata l’Inghilterra divenuta, a seguito delle esigenze del nascente capitalismo uno stato che è diventato il centro di un impero marittimo e territoriale mondiale, alla continua ricerca di mercati da dominare o materie prime di cui appropriarsi.Questo mancato intreccio tra militarismo, industrialismo e capitalismo nella Cina ha posto le basi per un diverso sviluppo economico, pur in presenza di un importante ruolo giocato dal mercato. Quello che è mancato -e tutt’ora manca- in questo Paese, che certo vive profonde contraddizioni e disuguaglianze che dovranno essere corrette in futuro, è una sovrapposizione tra l’interesse privato e quello dello Stato che, grazie al controllo rigido del suo sistema politico riesce ad esercitare un ruolo di guida ed indirizzo dell’economia in funzione di un arricchimento della nazione e quindi del suo sviluppo interno ed in relazione ai paesi capitalistici più avanzati.È in queste considerazioni che, a mio modesto avviso, vanno ricercate le radici culturali del sistema di pensiero che va sotto il nome di “socialismo con caratteristiche cinesi” e che rappresenta oggi un elemento importante di innovazione del marxismo del XX sec.Del resto, contrariamente a quanto pensava Lenin, il Novecento non ha visto la crisi generale e conclusiva del capitalismo con conseguente vittoria del socialismo, ma ha lasciato aperta la strada alla ricerca e costruzione di società “altre” dal capitalismo. La Cina popolare, figlia di questa ricerca, si configura oggi come una società dicotomica (non capitalista/non ancora socialista) in cui la prospettiva socialista può vincere solo se la contraddizione oggi presente fra elementi di socialismo e di capitalismo porta alla vittoria dei primi. Questo risultato, se ci sarà, non potrà che essere il frutto di un lungo processo storico (innescato da appena cinque decenni) che durerà alcuni secoli e pertanto, per cogliere il senso di questa “tappa iniziale della prima fase” di costruzione del socialismo, è necessario collocare l’’esperienza cinese in una fase storica molto ampia.FontiDomenico Losurdo, relazione al Seminario del Dipartimento Esteri del PdCI, Ancona, Giugno 2011Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, 2008Kenneth Pomeranz, The Great Divergence: China, Europe, and the Making of Modern World Economy, Princeton University Press, 2009William T. Rowe, Saving the World: Chen Hongmou and Elite Consciousness in Eighteen-Century China, Stanford University Press, 2001*Sintesi dell’intervento tenuto in occasione del Seminario internazionale: “La Cina nel 21° Secolo: Presente e Futuro”, realizzato al Parlamento Europeo a Bruxelles, il 6 e 7 Giugno 2013, su iniziativa della rete Correspondances Internationales, dalla Fondazione Gabriel Péri e dal Gruppo europeo GUE-NGL, che ha visto la presenza di dirigenti politici ed intellettuali da tutto il mondo e la partecipazione di una delegazione del Centro Studi sulle teorie sociali e filosofiche straniere del Partito Comunista Cinese.

01 marzo 2013

La Jugoslavia e i Bilderberg: Il Triangolo d’oro Kosovo/Albania


greater-albaniaDa Aurora.

Nel 1996 il servizio informazioni tedesco (BND) iniziò l’addestramento dell’esercito di liberazione del Kosovo (UCK). Il Bundesnachrichtendienst fu creato nel 1956 per sostituire l’organizzazione nazista Gehlen. L’idea di una Grande Albania era un’idea dei nazisti durante la loro occupazione della Jugoslavia, nella seconda guerra mondiale. Questa idea è condivisa oggi dalla NATO. Il BND era guidato da Hasjorg Geiger, che creò un enorme stazione regionale del BND a Tirana, in Albania nel 1995. La CIA impostò una vasta operazione a Tirana, l’anno prima. Il presidente Sali Berisha si era già insediato in Albania nel 1990. Caro al Fondo monetario internazionale, aprì l’economia dell’Albania alle multinazionali e alle banche occidentali, venendo ricompensato con un enorme pacchetto di prestiti del FMI.
Nel 1994, lo stesso anno, la Società atterrò a Tirana, una banca a schema piramidale su cui Berisha presiedeva come nuovo gattino del FMI, crollò improvvisamente cancellando i risparmi di una vita di migliaia di albanesi. Lo schema si basava sui modelli precedenti del FMI/BCCI coordinati per saccheggiare le nazioni debitrici del Terzo Mondo. Berisha venne estromesso da Tirana, ma fuggì a nord dell’Albania e prese il controllo di questa regione, sempre più senza legge, divenendo un percorso importante per il contrabbando di eroina e armi dalla Mezzaluna d’oro. Con l’aiuto della polizia segreta albanese (SHIK), la CIA e il BND reclutarono potenziali combattenti dell’UCK tra le fila di questi contrabbandieri, molti dei quali la CIA aveva fatto entrare nel business di Peshawar, in Pakistan, dieci anni prima [1].
Kommando Spezialkräfte (KSS) tedeschi indossavano uniformi nere addestrarono l’UCK e l’armarono con armi della Germania democratica. Più tardi, nel vicino Kosovo vi furono molte segnalazioni di uomini in uniforme nera che terrorizzavano i contadini. Mentre gli Stati Uniti sostennero che questi fossero Forze Speciali jugoslave, probabilmente erano membri dei KSS tedeschi, che guidavano l’UCK nelle incursioni nel Kosovo. L’UCK indossava giacche di combattimento delle Bundeshehr con insegne tedesche. La Germania è stato il primo Paese a riconoscere la Croazia negli anni ’90, prima ancora che i separatisti croati iniziassero la rivolta contro Belgrado. I tedeschi condussero la campagna che incoraggiò la Croazia alla secessione dalla Jugoslavia. Quando il nuovo governo venne istituito a Zagabria, adottò la bandiera e l’inno nazionale degli Ustashi, fantocci di Hitler.
Nel 1998 l’UCK era una piccola cellula terroristica con solo 300 membri. Dopo un anno di costanti spedizioni di armi e addestramento da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania, l’UCK divenne un importante esercito di guerriglieri con 30.000 membri. Il braccio destro di Usama bin Ladin, Muhammad al-Zawahiri, fu un comandante dell’UCK. Le provocazioni dell’UCK servirono da pretesto per l’aggressione della NATO contro la Jugoslavia e per la spartizione del Kosovo ricco di petrolio e minerali. Le forze di sicurezza jugoslave combatterono il terrorismo dell’UCK, anche rispondendo agli episodi di ritorsione eccessiva dei serbi, arrestando più di 500 serbi per crimini contro i civili albanesi. [2]
Il Presidente Milosevic aveva sempre sostenuto l’uguaglianza etnica e l’armonia. La sua delegazione ai colloqui di pace di Rambouillet, in Francia, era costituita da persone di tutti i gruppi etnici della Jugoslavia, tra cui albanesi. I serbi erano in realtà una minoranza nella delegazione. Nel discorso del 1992, tipico del pensiero di Milosevic sulle tensioni etniche in Kosovo, che le agenzie di intelligence occidentali hanno sfruttato storicamente, dichiarò: “Sappiamo che ci sono molti albanesi del Kosovo che non approvano la politica separatista dei loro capi nazionalisti. Sono sotto pressione, intimiditi e ricattati. Ma non dobbiamo rispondere nello stesso modo. Dobbiamo rispondere offrendo la nostra mano, vivendo con loro in parità e non permettendo che un singolo bambino, donna o uomo albanese siano discriminati in Kosovo in alcun modo. Noi dobbiamo… insistere su una politica di fraternità, di unità e di uguaglianza etnica in Kosovo. Dobbiamo perseverare questa politica“. [3]
Alla fine della campagna iugoslava di bombardamenti della NATO, venne trasferito in Kosovo una forza di occupazione sotto gli auspici della KFOR. La NATO continua a chiudere un occhio di fronte alle bande di rinnegati dell’UCK che attaccano i civili serbi sotto lo sguardo della KFOR, mentre favoreggia i ribelli dell’UCK che tentano di staccare una parte della Macedonia, a favore del la causa bancaria internazionale. Gli Stati Uniti hanno costruito in Kosovo la loro più grande base militare dai tempi del Vietnam. [4] Nel frattempo l’Albania veniva trasformata in un campo di addestramento dei terroristi della CIA, un centro di produzione dell’eroina e un supermercato delle armi.
Un articolo del 6 marzo 1995 dell’agenzia greca Athen News, citava il ministro dell’ordine pubblico greco Sifis Valyrakis dire che credeva che il governo albanese fosse coinvolto nella produzione e nel traffico di stupefacenti da Skopje, Macedonia, dove le truppe degli USA e della NATO si erano ammassate durante la guerra in Kosovo. Valyrakis disse che l’oppio veniva coltivato nella zona della Chimarra, nel sud dell’Albania, dove dei laboratori di eroina erano sorti in una zona triangolare formata dalle città di Gevgeli, Prilep e Pristina, in Albania, Macedonia e nel Kosovo secessionista. Citò il coinvolgimento nel traffico di eroina degli alleati degli USA: i militari macedoni e i mafiosi turchi dei Lupi grigi, da tempo alleati della CIA. Aveva notato il fiorente commercio di armi, in via di sviluppo in Macedonia e in Kosovo, e disse che i separatisti albanesi in Jugoslavia erano al centro dei traffici di eroina e di armi, che avevano sede a Pristina, nel comando della forza di “mantenimento della pace” in Kosovo, la KFOR della NATO. Secondo lo storico Alfred McCoy, “gli esuli albanesi utilizzavano i profitti della droga per inviare armi ceche e svizzere in Kosovo ai guerriglieri separatisti dell’UCK. Nel 1997-1998, questi cartelli della droga kosovari armarono l’UCK nella rivolta contro l’esercito di Belgrado… Anche dopo l’accordo del 1999, a Kumanovo, che risolse il conflitto in Kosovo, l’amministrazione delle Nazioni Unite della provincia permise… il fiorente traffico di eroina… ai comandanti dell’UCK… che continuavano a dominare il traffico attraverso i Balcani“. [5]
Una relazione da Tirana della Reuters del 16 giugno 1995, di Benet Koleka, accusava il governo albanese di scaricare segretamente tonnellate di armi dirette in Ruanda, prima del genocidio verificatosi in quel Paese dell’Africa centrale. Il più grande quotidiano albanese, Koha Jone, riferì che diversi aerei cargo Antonov An-12 avevano lasciato la base aerea di Gjadri, in Albania, con carichi di armi diretti per il Ruanda. Amnesty International intervistò quattro dei piloti che volavano sugli Antonov. Tutti dissero che stavano lavorando per una società britannica. Dissero che trasportavano armi per la Repubblica democratica del Congo che scaricavano all’aeroporto di Goma, nei pressi del confine ruandese. Dissero anche che trasportavano carichi di armi a Goma da Israele, e che vi erano agenti del Mossad israeliano che lavorano nella base aerea di Gjadri, supervisionando l’operazione albanese. Nello stesso anno, un inquietante appaltatore della difesa degli Stati Uniti, conosciuto come RONCO, si trovava in Ruanda con il pretesto dello sminamento. RONCO in realtà importava materiale militare per il Pentagono e le assegnava alle forze ruandesi appena prima che lo spopolamento ruandese cominciasse. [6]
Il Washington Times riferì nel 1999, “L’Esercito di liberazione del Kosovo, che l’amministrazione Clinton ha abbracciato e alcuni membri del Congressovogliono armare nell’ambito della campagna di bombardamenti della NATO, è un’organizzazione terroristica che ha finanziato gran parte del suo sforzo bellico con i profitti della vendita di eroina“. [7] Nel 1999 il Times of London dichiarò di aver trovato che l’UCK era il principale trafficante mondiale di eroina, ereditando tale affermazione dagli ultimi surrogati della CIA, i mujahidin. Europol invitò i governi di Svezia, Svizzera e Germania ad indagare i legami dell’UCK con il traffico di eroina. Walter Kege, capo dell’unità antidroga della polizia svedese che seguiva le indagini, dichiarò: “Abbiamo informazioni che ci portano a credere che ci sia una connessione tra il denaro della droga e il Kosovo Liberation Army“.
Il Berliner Zeitung tedesco citò una relazione dell’intelligence occidentale che dichiarava che 900 milioni di marchi tedeschi erano piovuti in Kosovo da quando l’UCK aveva iniziato ad attaccare il governo jugoslavo nel 1997. La metà derivava dai proventi della droga. La polizia tedesca osservò un parallelo tra l’aumento dell’UCK e l’aumento del traffico di eroina albanese in Germania, Svizzera e Paesi scandinavi. La polizia in Cechia rintracciò un albanese che era evaso da una prigione norvegese, dove stava scontando 12 anni per traffico di eroina. Nel suo appartamento trovarono documenti che lo collegavano a molti acquisti di armi effettuati per conto dell’UCK. [8] L’Agenzia criminale federale della Germania concluse: “Gli albanesi sono oggi il gruppo più importante nel traffico di eroina nei Paesi consumatori occidentali.” Europol preparò una relazione dettagliata sul traffico di eroina dell’UCK/albanese per la Corte internazionale dell’Aia.
Molti combattenti dell’UCK erano stati addestrati negli stessi campi infestati di eroina in Pakistan, da cui emersero i taliban afghani. Nel 1997 i signori della guerra ceceni, addestrati in quegli stessi campi, iniziarono ad acquistare grandi quantità di beni immobili in Kosovo. Il leader ribelle ceceno di origine araba, l’emiro al-Qattab, istituì campi in Cecenia per addestrare le truppe dell’UCK. Entrambi i tentativi furono finanziati con vendita di eroina, prostituzione, contrabbando di armi e contraffazione. [9]
Dopo che l’UCK poté usurpare il Kosovo da ciò che rimaneva della Jugoslavia, la macchina della propaganda degli Stati Uniti, ancora una volta, aumentò la pressione accusando la maggioranza serba di condurre un’altra campagna di pulizia etnica, questa volta contro la narcomafia albanese del Kosovo. Ancora una volta i media ripeterono a pappagallo la campagna della CIA demonizzante i serbi. Il 24 marzo 1999 le bombe statunitensi piovvero su Belgrado. Milosevic venne inseguito da killer armeni assoldati dalla CIA. Scuole, fabbriche, ospedali, centrali elettriche, autobus, treni e carri carichi di fieno furono bombardati. L’infrastruttura economica della Jugoslavia venne decimata, in stile ‘Piano Rosa’. In un momento di ironia della storia, la NATO bombardò lo stesso ponte di Novi Sad sul Danubio dove migliaia di serbi erano morti combattendo durante l’invasione nazista del 1941. La città di Novi Sad perse due altri ponti e la raffineria di petrolio. La residente Jasminka Bajic ha raccontato di come perse il marito Milan, mentre se ne stava sulla soglia della loro casa di Novi Sad, “fu alle 00:20 dell’8 giugno 1999. Nessuno si aspettava che le bombe colpissero così vicino le case. Ho dovuto vendere tutti i miei animali per comprare la lapide“. [10]
La città di Pancevo, vicino a Belgrado, vide rasa al suolo numerosi impianti petrolchimici e di fertilizzanti, e una raffineria di petrolio. Gas nocivi riempirono l’aria. Ammoniaca, mercurio e greggio inquinarono il Danubio. Il sindaco di Pancevo Borislava Kruska definì i bombardamenti della NATO, “un disastro ambientale… un crimine contro l’umanità. La comunità internazionale si occupa principalmente dei ponti di Novi Sad non a causa della nostra sofferenza, ma perché vuole la sua rotta di navigazione aperta“. [11] Il 7 maggio 1999 una bomba della NATO distrusse l’ambasciata cinese a Belgrado, provocando forti rimproveri dal governo cinese e dal suo popolo. Lo stesso giorno le bombe della NATO distrussero un ospedale e il mercato di Nis uccidendo quindici persone. I manifestanti a Belgrado presero a chiamare la NATO l’organizzazione terrorista americana nazista. In tutto 2000 civili jugoslavi furono uccisi dai bombardamenti della NATO e oltre 10.000 feriti. Altre migliaia persero le case e gli appartamenti, deliberatamente colpiti dalle bombe della NATO nel tentativo di convincere il popolo jugoslavo a gridare “zio”. [12] A Stari Trg il direttore della miniera Bjelic Novak, che lavorava per l’azienda statale iugoslava di Trepca, disse che quando i bombardamenti degli Stati Uniti cominciarono, “La guerra in Kosovo era solo per le miniere, per nient’altro. Inoltre, il Kosovo ha giacimenti di carbone per diciassette miliardi di tonnellate“.
Uno dei più pubblicizzati “massacri” presumibilmente condotti dall’esercito jugoslavo contro gli albanesi del Kosovo, si verificò a Racak. Un gruppo chiamato Kosovo Monitor International strumentalizzò il caso. Il suo capo era William Walker, che in precedenza era stato l’aiutante di Oliver North nell’impresa con i contras. Mentre Walker vomitava la sua versione dei fatti di Racak a degli ansiosi media statunitensi, molti media europei, tra cui la BBC, la tedesca Die WeltRadio France Internationale il francese Le Figaro  cominciarono a mettere in discussione il resoconto di Walker, che naturalmente accusava i serbi. Una troupe televisiva francese che era a Racak al momento in cui il massacro sarebbe avvenuto, disse che il “massacro” era effettivamente stato uno scontro a fuoco tra l’esercito jugoslavo e un gruppo di assalitori dell’UCK. Più tardi gli uomini in divisa nera ritornarono sulla scena e rivestirono i morti dell’UCK con abiti civili. Esperti forensi jugoslavi convennero che il massacro di Racak fosse una bufala. Aveva impressionanti similitudini con il massacro del mercato in Bosnia, dove si scoprì poi che i combattenti islamici gestirono il massacro per conto dei media occidentali. [13]
L’incidente comportò le sanzioni delle Nazioni Unite contro la Jugoslavia. Il quotidiano francese Le Monde riferì da Pristina, il 21 gennaio 1999, secondo cui due giornalisti dell’AP avevano contraddetto il resoconto di Walker degli eventi a Racak. Dissero che vi erano poche cartucce di fucile vuote nel sito e quasi nessuna traccia di sangue sui cadaveri. L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa inviò una squadra di patologi finlandesi, su richiesta del governo jugoslavo, che aveva anche invitato una seconda squadra dalla Bielorussia. Entrambe le squadre confermarono i sospetti jugoslavi che le vittime erano morte per dei colpi di fucile da lungo distanza, fori di proiettile da breve distanza e ferite di coltello erano state inflitte sui corpi dopo la morte. Scoprirono anche che i fori di proiettile non avevano lacerato  gli abiti sui corpi, indicando che i vestiti erano stati cambiati dagli uomini in uniforme nera, probabilmente delle stesse Forze Speciali tedesche KSS che addestravano l’UCK. Nessuna relazione è stata mai pubblicata dai media statunitensi.
L’incidente ricorda una manovra di Adolf Hitler nel 1939, per giustificare l’invasione della Polonia. Hitler fece vestire dei prigionieri morti con uniformi dell’esercito polacco e li lasciò vicino a una stazione radio di confine, Hitler quindi disse che era stato attaccato dall’esercito polacco. [14] In una settimana, 1.500.000 di truppe naziste entrarono in Polonia. BBC News ha riportato, nel dicembre 2004, che un oleodotto da 1,2 miliardi dollari, a sud della massiccia base dell’esercito USA in Kosovo, era stato approvato dai governi di Albania, Bulgaria e Macedonia. [15]
Note
[1] “KLA a Creation of Western Intelligence”. Anthony Wayne. Lawgiver.org 4-11-99
[2] “Milosevic Defiantly Defends His Role in Kosovo Conflict”. Fox News. 8-24-01
[3] “Milosevic Addresses Kosovo Polje Rally”. Radio Belgrade. 12-17-92 [4] Escobar [5] The Politics of Heroin in Southeast Asia. Alfred W. McCoy. Lawrence Hill Books/Chicago Review Press. Chicago. 2001. p.517
[6] Silverstein
[7] Washington Times. 5-3-99
[8] “The KLA: Drug Money Linked to Kosovo Rebels”. The Times of London. 3-24-99
[9] Chossudovsky
[10] “The Danube: Europe’s River of Harmony and Discord”. Cliff Tarpy. National Geographic. March 2002
[11] Ibid
[12] “War Criminals, Real and Imagined”. Gregory Elich. Covert Action Quarterly. Winter 2001. p.22
[13] “Statement on Kosovo in Tandem with the Rockford Institute”. Chronicles. 3-25-99
[14] Marrs. p.171
[15] “al-Qaeda, US Oil Companies and Central Asia”. Peter Dale Scott. Nexus. May-June 2006. p.11-15
Dean Henderson è l’autore di quattro libri: Big Oil & Their Bankers in the Persian Gulf: Four Horsemen, Eight Families & Their Global Intelligence, Narcotics & Terror Network, The Grateful Unrich: Revolution in 50 Countries, Das Kartell der Federal Reserve & Stickin’ it to the Matrix. Puoi iscriverti gratuitamente alla sua rubrica settimanale Left Hook @Deanhenderson.wordpress.com
Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora

18 maggio 2011

50 giorni


Tanto, così tanto ci mise il vituperato "regime" cinese a ricorrere alle vie di fatto, nel 1989, dopo aver tentato in tutte le vie "diplomatiche" per far cessare l'occupazione di piazza Tienanmen. Se confrontiamo con le repentine (dalle 24 alle 48 ore al massimo) reazioni delle "democratiche" elite politiche di Tunisia, Egitto etc... si ha il senso forse di quello che fu, qualcosa di molto diverso da come ci è stato raccontato.
Nella "moderna", occidentale, civile, "democratica" Spagna siamo al terzo giorno. Vediamo quanto riescono a durare.

17 ottobre 2010

Karl Marx, un contemporaneo

di Vladimiro Giacchè

Ironie della storia. Mentre in Germania viene festeggiato il 20° anniversario della fine della Repubblica Democratica Tedesca, si assiste ovunque a un grande risveglio di interesse nei confronti di quello che ne fu (inconsapevolmente) il filosofo ufficiale: Karl Marx. Soltanto in Italia da giugno ad oggi sono uscite due biografie: la traduzione del testo di Francis Wheen (Karl Marx. Una vita, Isbn edizioni, p. 400) e il volume di Nicolao Merker Karl Marx. Vita e opere (Laterza, pp. 261). Se il primo testo è avvincente, il secondo riesce a fare il miracolo: ossia a darci una panoramica completa della vita di Marx e delle linee di fondo del suo pensiero.

Merker inizia ricordando che “il pensiero di Marx sta nei suoi scritti”. Non si tratta di una banalità, ma di una doverosa cautela, visto l’uso a dir poco disinvolto che spesso si è fatto del pensiero di Marx. I testi di Marx vanno letti e collocati nel loro contesto storico. Ma non per farne altrettanti “classici” da tenere sullo scaffale, bensì per capire cosa ci possono dire sull’oggi. Questo utilizzo è possibile in quanto la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella descritta da Marx. Anzi, per certi aspetti il mondo attuale è più vicino ai testi marxiani di quanto lo fosse la realtà dei suoi tempi: basti pensare alla “globalizzazione”, ossia alla creazione di un mercato mondiale.

Merker nella sua ricostruzione del pensiero di Marx non ha timore di andare controcorrente. Come quando denuncia “l’infatuazione per i Grundrisse che alcuni decenni addietro regnò nella letteratura su Marx”, insistendo invece sulla centralità del Capitale (tanto del primo libro, pubblicato da Marx nel 1867, quanto dei manoscritti che dopo la sua morte Engels pubblicò come secondo e terzo libro del Capitale nel 1885 e nel 1894). E soprattutto quando afferma l’importanza della “teoria del valore e del plusvalore”, che a suo giudizio “spiega tanto la dinamica del particolare modo di produzione capitalistico quanto gli elementi generali di ogni sistema produttivo”. La forza-lavoro umana, osserva Merker, “fornisce sempre con il suo pluslavoro un valore economico maggiore di quanto essa costa”; è infatti l’unica merce che possiede la caratteristica di creare nuovo valore (cosa di cui non è capace neppure la macchina più sofisticata, che se non viene messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde anche quello che possedeva). La peculiarità del sistema capitalistico consiste nel fatto che “i risultati del pluslavoro - cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e gestione sociale”.

Proprio da questo Marx fa derivare le crisi: esse sono infatti – ci spiega Merker – “conseguenza dell’antitesi, nell’economia di mercato, tra la produzione moderna a carattere sociale e l’appropriazione privata del profitto”. In questo modo ci viene offerta una chiave di lettura anche della crisi odierna molto diversa da quelle correnti. “A un certo punto il mercato non assorbe più tutte le merci che vengono offerte. Mancano gli acquirenti perché il sistema è caduto in un circolo vizioso: non appena le merci invendute affollano i magazzini, il capitalista riduce la produzione chiudendo fabbriche e licenziando operai, sicché a causa del diminuito potere d’acquisto dei consumatori la montagna dei beni invenduti continua a crescere e la crisi si avvita su se stessa. Alla fine il sistema la risolve soltanto a costo di enormi distruzioni di mezzi di produzione e di prodotti. Fabbriche smantellate, lavoratori disoccupati, beni di consumo al macero e una crescente concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema capitalistico “l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma …in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.

Secondo questo punto di vista, a differenza di quanto ci è stato ripetuto in questi anni, le crisi non rappresentano un incidente di percorso o una sciagurata eccezione all’interno di un sistema che per sua natura sarebbe in equilibrio, ma sono necessarie per correggere – attraverso la distruzione di forze produttive su larga scala – i profondi squilibri che inevitabilmente caratterizzano l’“anarchia della produzione”capitalistica.

Nelle ultime pagine del suo libro Merker si chiede quindi se quel “contrasto tra la produzione sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso” sia ineliminabile nella società umana. E osserva che “quest’istanza teorico-pratica, certamente non scaduta, viene dal Marx del Capitale, e attende risposte che funzionino nella prassi socio-politica”.

La più grande sfida dei nostri tempi è precisamente questa.

22 giugno 2010

Crimini coloniali, i familiari di Lumumba denunciano 12 belgi 50 anni dopo


Dal blog "Africa"

La famiglia dell'ex primo ministro congolese Patrice Lumumba, assassinato poco dopo il colpo di Stato di Mobutu, ha deciso di depositare una denuncia a Bruxelles contro dodici cittadini belgi presenti nel Katanga, la regione dove l'eroe dell'indipendenza del Congo fu ucciso. Lo hanno reso noto oggi gli avvocati della famiglia nel corso di una conferenza stampa. La denuncia delle dodici persone, ancora in vita e di cui gli avvocati non hanno voluto rendere noto il nome, sarà per «crimini di guerra». Secondo quanto scrivono i media del Belgio, si tratterebbe di personalità politiche e militari ritenute complici dell'arresto e dell'omicidio di Lumumba. Alla vigilia del 50/mo anniversario dell'indipendenza del Congo, il 30 giugno prossimo, l' annuncio della denuncia riapre così le polemiche sulle relazioni tra il Belgio e il Congo. Lumumba era stato eletto democraticamente alla guida del Congo che, dopo 75 anni di colonizzazione belga, aveva conquistato l'indipendenza il 30 giugno 1960. Le condizioni in cui fu ucciso nel gennaio 1961 sono sempre rimaste oscure. Con una commissione parlamentare d'inchiesta, il Belgio nel 2001 aveva tuttavia riconosciuto la «responsabilità morale» del Paese per le circostanze che avevano portato a quell'assassinio. Ora tre membri della famiglia intendono riaprire quella pagina ritenendo necessario andare al di là di una semplice responsabilità collettiva individuata dalla commissione parlamentare d'inchiesta. Intanto oggi l'eurodeputato belga ed ex ministro degli esteri Louis Michel ha preso le difese della politica condotta dall'allora re Leopoldo II in Congo. «Leopoldo II non merita rimproveri, i belgi hanno costruito ferrovie, ospedali e attivato la crescita economica. Condannare l'azione del re è inaccettabile», ha detto in un'intervista.

10 giugno 2010

Cuba e viva e vegeta. E nel gulag si può mangiare vegetariano.

Un miscuglio tra un video (del prof. Domenico Losurdo) e un articolo di Giovanni Spataro.




Cuba è viva e (soprattutto) vegeta




Da cinquant’anni ormai, Cuba sta sperimentando l’embargo voluto dagli Stati Uniti in risposta alla deposizione di Fulgencio Batista da parte di Fidel Castro avvenuta con la rivoluzione del 1959. Come tutti gli embarghi, l’intento era ed è quello di far precipitare le condizioni di vita della popolazione, sperando in una rivolta. Insomma, è un gioco al collasso.
Di bilanci sull’efficacia dell’iniziativa statunitense ne sono stati fatti tanti, uno degli ultimi è stato appena pubblicato su «Science» e ha riguardato l’impatto dell’embargo sulla sanità cubana. I risultati discussi da Paul K. Drain e Michele Barry, entrambi della Stanford University, fanno riflettere parecchio e, come sottolineano gli stessi autori, potrebbero fornire indicazioni sul modo in cui indirizzare la riforma del sistema sanitario statunitense, fortemente privatizzato.
Innanzitutto un po’ di numeri. Oggi, secondo le statistiche delle Nazioni Unite, l’aspettativa di vita per un bambino che nasce a Cuba è di 78,6 anni, la più alta di tutta la più alta di tutta l’America Latina e in linea con l’aspettativa di vita alla nascita nei paesi più sviluppati (per inciso è la stessa registrata negli Stati Uniti). L’isola caraibica ha anche il primato latino-americano di medici pro capite, 59 ogni 10.000 abitanti, della più tasso più basso di mortalità infantile (5/1000 nati vivi) e di mortalità sotto i cinque anni (7/1000 nati vivi).
Tutto questo a fronte di un blocco delle importazioni che ormai va avanti dal 1960 e che riguarda anche materiale sanitario, farmaci e alimenti. E a fronte di investimenti irrisori nel sistema sanitario, se paragonati con quelli statunitensi. Nel 2006 il governo cubano ha investito il 7,1 per cento del prodotto interno lordo nella sanità, pari a 355 dollari per ogni cubano. Negli Stati Uniti, come riportato su «Science», la sanità costa 6714 dollari all’anno a ciascun cittadino statunitense, una spesa pari al 15,3 del prodotto interno lordo. È fin troppo evidente che il confronto è impietoso.
Come si spiega dunque la felice anomalia di Cuba? Con la struttura del suo sistema sanitario reso pubblico dopo la rivoluzione del 1959, come sottolineato da Drain e Barry. «Cuba – si legge nell’analisi – ha uno dei sistemi sanitari più proattivi del mondo». Vale a dire che la parola d’ordine è prevenzione, perché costa meno e soprattutto riduce i costi diminuendo la probabilità di contrarre malattie da curare.
Il primo intervento di prevenzione e di cura è a carico dei consultorios, piccoli ambulatori sparsi in tutta l’isola, ciascuno dei quali serve circa 600 pazienti o 150 famiglie residenti in aree geografiche ben definite. In questi piccoli ambulatori, che affrontano circa l’80 per cento dei problemi di salute e fanno attività di promozione della salute, i pazienti vengono visitati la mattina. Mentre il pomeriggio i medici si recano nelle varie comunità di loro competenza per visitare chi non può muoversi. Ogni cubano è prenotato per almeno una visita all’anno presso il suo consultorio. La forza lavoro medica proviene dall’università. I laureati in medicina fanno tre anni di pratica come medici in comunità rurali, in seguito possono specializzarsi. Come risultato, a Cuba c’è un medico di famiglia ogni 600 pazienti, negli Stati Uniti il rapporto è 1 a 3200.
Il livello successivo del sistema sanitario cubano sono i policlinicos, strutture in cui si trovano i medici specializzati in diverse aree. Sull’isola ci sono 498 policlinicos, ciascuno serve 30-40 consultori. Sul gradino più alto di questa piramide ci sono gli institutos, cioè ospedali e istituti di medicina. Tutti gli interventi sono praticamente gratuiti (si pagano solo alcuni particolari prestazioni).
Questo sistema di prevenzione basato su interventi a livello di comunità è uno dei principali fattori dei numeri da occidente riguardanti la salute dei cubani. Tra l’altro, c’è un dato che dovrebbe far riflettere paesi ricchi con spesa sanitaria sull’orlo del precipizio o il cui rientro è costato parecchio alle casse dello Stato, per esempio l’Italia. L’aspettativa di vita e i tassi di mortalità infantile tra i più bassi di tutto il mondo sono stati ottenuti a fronte di una drastica riduzione del prontuario farmaceutico. Nel 1996, i medicinali del prontuario sono passati da 1300 a meno di 900. E sono farmaci generici, spesso prodotti sull’isola o con l’aiuto di altri paesi in via di sviluppo, grazie anche alle biotecnologie. Per non parlare dei tassi di vaccinazione, anche questi tra i più alti al mondo.
Questa autarchia virtuosa, figlia di una necessità, ha permesso anche di superare la caduta dell’Unione Sovietica. Subito dopo il 1991, l’aspettativa di vita alla nascita è diminuita per circa cinque anni, complice la fine degli aiuti russi. Ma il sistema reticolare di assistenza primaria ha retto all’urto, come dimostrano i numeri.
L’analisi di Drain e Barry si conclude con un invito ad allentare l’embargo almeno sul fronte medico -sanitario. La salute potrebbe essere un terreno comune su cui si potrebbe iniziare ad allentare la tensione tra i due paesi. Inoltre i due ricercatori invitano a valutare attentamente le prestazioni del sistema sanitario cubano – universale e gratuito – da cui forse la sanità statunitense – privata e che fa della salute non un diritto ma un’opportunità da guadagnarsi, anche dopo la recente riforma voluta da Obama – avrebbe qualcosa da imparare, visto il rapporto tra costi e risultati. E forse anche qui da noi, tra venti di federalismo spinto e desideri di privatizzazione, si dovrebbe pensare un po’ di più.