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06 aprile 2015

La Costa Rica usa solo energie rinnovabili

Da Internazionale


La cascata del rio Celeste nel parco nazionale del vulcano Tenorio, nella Costa Rica. - Juan Carlos Ulate, Reuters/Contrasto
La cascata del rio Celeste nel parco nazionale del vulcano Tenorio, nella Costa Rica. Juan Carlos Ulate, Reuters/Contrasto
La Costa Rica sta funzionando senza usare nessun tipo di combustibile fossile da ben 75 giorni.
Grazie alle intense precipitazioni di quest’anno, le centrali idroelettriche stanno generando da sole quasi tutta l’energia elettrica che serve per alimentare il paese. E con l’aiuto dell’energia geotermica, solare ed eolica, non c’è bisogno di un grammo di carbone o di petrolio per tenere le luci accese.
Naturalmente la Costa Rica ha molti vantaggi: è un paese piccolo, ha meno di cinque milioni di abitanti, la sua industria manifatturiera non richiede molta elettricità, e ha molti vulcani e altre caratteristiche topografiche adatte allo sfruttamento delle energie rinnovabili.
In ogni caso, fare a meno dei combustibili fossili è un gesto nobile e importante per un paese di qualunque dimensione.
La Costa Rica non è l’unica nella regione a essersi impegnata nel campo delle rinnovabili. Bonaire, un’isola dei Paesi Bassi che si trova al largo delle coste venezuelane, usa fonti rinnovabili quasi al 100 per cento e probabilmente raggiungerà questa soglia con l’aiuto di una risorsa energetica insolita: le alghe.
Guidata dalla Cina, la spesa globale nel campo delle energie rinnovabili sta per registrare i suoi primi profitti in tre anni (anche se la tendenza potrebbe non durare). L’Islanda ricava già tutta la sua elettricità da fonti rinnovabili, e circa l’85 per cento della sua energia è prodotto da impianti geotermici e idroelettrici. E altri tre paesi europei (Svezia, Bulgaria ed Estonia) hanno già raggiunto i loro obiettivi di sfruttamento delle rinnovabili che avevano stabilito per il 2020.
La Danimarca, che ricava il 40 per cento dell’energia dall’eolico, rinuncerà completamente ai combustibili fossili entro il 2050. Tuttavia, come hanno fatto notare alcuni danesi, quando si usano solo le rinnovabili i combustibili fossili continuano a essere necessari come piano di riserva: per esempio, se non soffia abbastanza vento o se il Sole non splende abbastanza per alimentare gli impianti.
Resta il fatto che l’aumento dell’uso delle energierinnovabili ha reso poco redditizie molte centrali elettriche convenzionali e i proprietari stanno cercando di chiuderle.
In Costa Rica un’eventuale siccità comprometterebbe gravemente la fornitura idroelettrica del paese. Probabilmente è per questo che il governo ha approvato un progetto geotermico da 958 milioni di dollari. Anche se il piano è finanziato in gran parte dal Giappone e dalla Banca europea degli investimenti, la Costa Rica ha potuto investire tanti fondi nell’energia rinnovabile perché non spende i suoi soldi per la difesa: il paese, infatti, non ha un esercito dal 1948.
(Questo articolo è uscito su Quartz. Traduzione di Floriana Pagano)
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02 luglio 2011

Cristina Fernadez:La ricetta prescritta alla Grecia non salvò l'Argentina

da Selvas Blog.


Inutili gli "aiuti" con condizioni neoliberiste - nel 2001, l'Argentina smise di pagare interessi su 102 miliardi di dollari


La presidente argentina, Cristina Fernández, ha messo in guardia che è un errore imporrea alla Grecia la stessa ricetta che non produsse bessun risultato positivo nel suo Paese. Anzi, nel 2001 portò alla più grande sospensione dei pagamenti della storia finaziaria. "Stanno insistendo con misure che saranno molto nocive" ha detto durante i lavori sulle
politiche monetarie del Banco centrale dell'Argentina, membro del G20. Cristina Fernandez mise in risalto che la chiave di volta del capitalismo è il consume, pertanto quando si minimizza il consume si finisce per danneggiare i settori popolari e tutto il resto.
Per superare la crisi della Grecia, bisogna mettere da parte gli "schemi tradizionali" ed evitare le politiche neoliberiste che affossarono l'Argentina e l L'America latina negli anni 90.

Per superare la crisi che affligge alla Grecia ed altre nazioni, "bisogna abandonare gli schemi tradiziionali"ed avitare le politiche neoliberiste che imposero all'Argentina ed America latina negli anni 90. "più si rimanda l'approccio corretto, più gravi saranno le conseguenze.
 E ricordò che il suo Paese, pur ricevendo "aiuti" con le condizioni-capestre del neoliberismo, nel 2001 .non riuscì ad evitare la sospensione dei pagamenti di ben 102 miliardi di dollari.

L’educazione dev’essere pubblica. Perfino in Cile può finire il lungo inverno neoliberale (ma in Italia…)

Di Gennaro Carotenuto per Agoravox.



Nazionalizzazione dell’educazione, nuova Costituzione che superi quella scritta da Augusto Pinochet, rinazionalizzazione del rame e delle altre risorse naturali, riforma fiscale. E’ quanto ha chiesto giovedì il più grande movimento studentesco dall’11 settembre 1973 in Cile. Almeno 700.000 persone sono sfilate in grandi, pacifiche, colorate manifestazioni per esigere innanzitutto una chance per studiare che non sia quella offerta dal modello economico: l’indebitamento a vita con la banca privata. E’ il modello Browne, che in Cile conoscono da quasi 40 anni, e che il Partito Democratico vorrebbe impiantare anche in Italia.
Gli studenti cileni esigono la nazionalizzazione del sistema educativo superiore privatizzato dalla dittatura fondomonetarista di Augusto Pinochet al prezzo del sangue dei desaparecidos. Esigono gli studenti cileni che la Costituzione smetta di destinare all’esercito gli introiti del rame, la principale risorsa del paese, in grande auge da quando la Cina ne è divenuta compratrice, e che usi tali ricavi per l’educazione pubblica.
350.000 a Santiago, almeno 100.000 a Valparaíso, 50.000 a Concepción, almeno 200.000 in altre manifestazioni nel resto del paese. Sono studenti, spesso accompagnati dai familiari, movimenti sociali, lavoratori. Chiedono un cambiamento profondo in un sistema educativo insostenibile dove, più che in qualunque altro settore, ha inciso la violenza dell’ideologia neoliberale impiantata dalla dittatura: l’educazione non è un diritto ma una merce come un’altra. Fu così che Augusto Pinochet smembrò in quindici pezzi l’un tempo gloriosa e battagliera Università del Cile dalla radio comunitaria della quale cantava Víctor Jara. Ne privatizzò 13 e ne lasciò solo due pubbliche facendo in modo che anche studiare in queste ultime fosse altrettanto costoso che nelle università private, in proporzione tra le più care al mondo.
Così le aule universitarie in Cile vissero una trasformazione antropologica. Riservate alle classi medio-alte, i pochi non appartenenti alle classi dirigenti dovevano trottare, studiare e non pensare, conseguire a caro prezzo il titolo e quindi mettersi a lavorare per ripagare il gravoso debito sulle loro teste. E’ anche sulla base di questo paradigma che l’università pubblica fu colpita perché smettesse di essere luogo di produzione di pensiero critico (leggasi "focolaio di sovversione").
E’ stato così che - semplicemente - da quasi 40 anni in Cile le classi medio-basse sono state escluse dall’educazione superiore a meno di non indebitarsi con le banche private per tutta la vita. E’ un sistema, quello dell’educazione privatizzata e condizionata al credito, dove gli studenti si caricano di enormi prestiti solo pallidamente agevolati, che pagheranno una volta laureati, che il Cile ha sperimentato per primo al mondo e che oggi vuole abbandonare.

In un paese prima terrorizzato dalla dittatura dei Chicago boys, quindi addormentato da vent’anni di governi della Concertazione (centro-sinistra), adesso quel sistema, del quale il presidente Sebastián Piñera è continuatore, esplode e prende la forma di piattaforme democratiche che chiedono una profonda riforma della società cilena che ha nel ripristino dell’educazione per tutti il suo architrave. Anche il Cile, che dall’11 settembre in avanti ha costruito se stesso come un mondo a parte rispetto all’America latina, con un’economia ancillare a quella statunitense e una società completamente identificata col modello neoliberale, vuole tornare a far parte del Continente.
——- COMMENTO ——-
Il sistema educativo cileno, contro il quale 700.000 studenti sono scesi in piazza giovedì, non è dissimile da quello che pretenderebbe di impiantare in Italia la proposta di legge presentata tra gli altri dal senatore del Partito Democratico, Pietro Ichino (leggi l’ottima Francesca Coin). L’accesso all’educazione non sarebbe più pubblica e (semi)gratuita ma condizionata all’indebitamento di massa per molte decine di migliaia di € (dai 50 ai 100.000) per poter studiare per poi immettersi in un mercato del lavoro (quello odierno della precarietà strutturale) esponendosi (in Cile, come in Gran Bretagna come domani in Italia) al rischio continuo del fallimento.
Tale sistema si basa su due grandi menzogne che paesi seri come la Germania non si berranno mai e propagandate da pifferai del modello come Francesco Giavazzi: la prima è che non ci siano i soldi da destinare all’educazione, all’università e alla ricerca pubblica. La seconda è che le classi popolari manterrebbero i figli delle classi medie agli studi senza usufruirne e perciò un sistema pubblico sarebbe ingiusto.
Proprio gli oltre 30 anni di esperienza del modello cileno testimoniano che siamo di fronte a due menzogne al di là di ogni altra considerazione sull’utilità per qualunque paese del puntare su Università e ricerca. La prima è che la mancanza di fondi sia un fatto ineluttabile e non dipenda invece da precise scelte sull’allocazione delle risorse fatte dai governi. Un altro fisco, che colpisca l’evasione, funga da perequatore delle differenze sociali e che abbia come obbiettivo preciso quello di garantire servizi pubblici gratuiti ed efficienti, è possibile checché ne pensino Giavazzi e Ichino. La seconda è che in un modello educativo fondato sull’indebitamento le classi popolari neanche si pongono il problema se studiare o no. Ne sono semplicemente escluse, perpetuando le gerarchie sociali e senza alcun ascensore possibile. Il Cile è vicino, stiamo attenti.
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it

05 gennaio 2011

Il terrorista Battisti.

Dal blog Asocial Network.



Il terrorista Battisti


a P. Padoout, funzionario.
Seguir con ansia un presidente brasiliano e poi
ritrovarsi a sbavare
manifestare in quattro gatti e trykolori
un sottile dispiacere
e intervistare cento volte lo stronco per scoprire
che è stato il padre a sparare
domandarsi dove sia delinquenza e schifezza
in fondo al cuore
perché i fascisti fan rumore
e unanimismi e Repubblica edizione notte
per vedere
se poi è tanto difficile mentire
e scrivere articoli e firmare
La Russa e
la Santanchè
e maledire persino Pelé
Capire tu non puoi
tu chiamale se vuoi
estradizioni
te le fotti le tue
estradizioni 


Uscir dal parlamento una mattina
e non capire un casso
faccia da orango lesso
Parlar di denunciare il trattato militare
per ore ed ore
dal piddì fino all'itaglia der valore
e ricoprirsi d'un regime di merda
fin dentro le ossa
mentre all'Aquila c'è un'altra scossa
E prendere a galere un uomo solo
perché non sa il giapponese
sapendo che non gestisce le tue imprese
e scrivere menzogne da leccare
Gasparri e
la Santanchè
e maledire pure Nené
Capire tu non puoi
tu chiamale se vuoi
estradizioni
te le fotti le tue
estradizioni.


25 novembre 2010



Da Selva Blog










Dove sono i difensori della democrazia  e della libertà? Dove sono le conigliette pom-pom dei diritti umani versione exporting? Dove sono quelli che si batterono per la libertà di Donna Ingrid Betancourt? Perchè tacciono? 


Ci sono 600 sindacalisti uccisi, 
1200 cittadini sequestrati, travestiti da "guerriglieri", e poi sterminati, 
17000 cittadini "desaparecidos", scomparsi nel nulla.

Il responsabile principale di questo orrore visita l'Italia, si chiama Uribe, era indicato come il "narco 82" nel bollettino dell'agenzia nord-americana DEA. Era, oggi è un utile alleato degli USA, e di quelli che lo riceveranno e festeggeranno in Italia. I diritti umani sono estensibili ed informi come la gomma da masticare?

27 ottobre 2010

L’eredità di Néstor Kirchner sull’America latina del XXI secolo



Chi poteva immaginare Nestor Kirchner, il ragazzo della Gioventù Peronista divenuto presidente della Nazione in uno dei momenti più difficili della storia mai facile dell’Argentina, come un cardiopatico morto a sessant’anni appena compiuti? Chi poteva immaginare, ricordando l’immensa vitalità con la quale saltava da un capo all’altro della Patria grande latinoamericana, che in questo inizio di XXI secolo aveva contribuito a disegnare nella sua ineludibile integrazione, che il suo cuore potesse non reggere più?
Anche quando nelle ultime settimane erano giunte notizie allarmanti su ricoveri e interventi chirurgici, si collocava Don Néstor ancora nella sfera dei giovani cavalli di razza della politica continentale. E lo si vedeva alla vigilia di lanciarsi in una nuova e più appassionante sfida politica, quella di succedere a sua moglie Cristina e tornare alla Casa Rosada per dare continuità al progetto kirchnerista di Argentina. È quel progetto che aveva plasmato la speranza dell’Argentina nei giorni bui dell’uscita dalla notte neoliberale che aveva portato il paese al crollo di fine 2001.
Ancora pochi giorni fa svolgeva un ruolo attivissimo nella soluzione del colpo di Stato in Ecuador contro il governo amico di Rafael Correa, lui segretario generale di quella UNASUR, l’Unione delle Nazioni Sudamericane che in poco tempo si è imposto come il principale consesso regionale sulla base del fatto che il contributo degli Stati Uniti (da sempre egemoni nell’OSA, l’Organizzazione degli Stati Americani) è in genere il problema e quasi mai la soluzione alle crisi regionali.
Il primo straordinario contributo di don Néstor fu evitare il far ripiombare il paese nel passato obbligando il suo rivale Carlos Menem a rinunciare al ballottaggio al quale erano giunti insieme nella corsa alla prima elezione presidenziale post-crollo del dicembre 2001. Menem era l’uomo simbolo delle peggiori tragedie neoliberali, della distruttiva parità col dollaro che in 13 anni aveva completamente deindustrializzato il paese, della chiusura delle mense costringendo migliaia di bambini a morire di fame, dell’abbandono delle scuole e degli ospedali pubblici, del disastro culturale prodotto dalle televisioni commerciali, dell’impunità per le violazioni dei diritti umani e delle “relazioni carnali” con gli Stati Uniti.
Semplicemente sconfiggendo la prospettiva dell’eterno ritorno di un governo coloniale a Buenos Aires, Néstor Kirchner aprì una pagina nuova nella storia del grande paese australe. Per voltare pagina, in un modello sociale, quello kirchnerista, non certo radicale, ricostituì la sovranità nazionale stuprata dalla dittatura del Fondo Monetario Internazionale. Con l’aiuto politico ed economico del brasiliano Lula da Silva e del venezuelano Hugo Chávez, chiuse la pagina più nera della storia argentina saldando il debito con l’FMI e recuperando la capacità del paese di scegliere le proprie priorità. Inaugurò così una stagione nella quale rifecero capolino le nazionalizzazioni, un vero tabù in un paese completamente privatizzato, e fu uno dei baluardi, di nuovo con Lula e Chávez, nell’impedire il progetto dell’ALCA.
L’Area di Libero Commercio delle America doveva essere la risposta di George Bush alla Cina: l’intera America latina doveva essere un’immensa maquiladora dove in condizioni di lavoro semischiaviste, omologhe a quelle cinesi, gli Stati Uniti potevano combattere la battaglia per l’egemonia mondiale con il paese asiatico organizzando l’intera economia latinoamericana in nome di tale supremo interesse. Fu un battaglia che gli USA persero in quei giorni di Mar del Plata nel 2005 quando Kirchner sfilava con al fianco Diego Armando Maradona e gridava insieme a tutto un continente il proprio NO al modello neocoloniale rappresentato da Bush. Se è ragionevole sostenere che il neoliberismo non è mai tramontato in America latina, anche nei paesi integrazionisti, è altrettanto vero che la rottura della teoria della dipendenza operata in questo decennio da uomini come Néstor Kirchner è la premessa fondamentale alla costruzione di un modello sociale meno ingiusto.
Proprio con Lula e Chávez, don Néstor inaugurerà quel “concerto latinoamericano”, consultazioni quotidiane e incontri continui, che hanno portato a quello straordinario fiorire delle relazioni economiche (più che triplicate) e politico sociali nella regione, fino a ieri impedite dal modello neocoloniale di sviluppo.
Ma il contributo del ragazzo della Gioventù Peronista non si ferma alla politica economica e internazionale. In un momento nel quale il paese doveva ricostituire la propria dignità, capì che questa non potesse sedimentarsi senza giustizia. Così Kirchner si caricò del peso e del rischio politico di abrogare le leggi dell’impunità volute in epoca neoliberale per i militari violatori dei diritti umani responsabili dei 30.000 desaparecidos. Se oggi migliaia di processi per violazioni dei diritti umani sono in corso e l’Argentina è in grado di puntare il dito contro paesi come la Spagna incapace di fare giustizia per i crimini del franchismo, ciò è merito di quella generazione testarda di militanti di sinistra e peronisti della quale Kirchner faceva parte e che con l’abrogazione delle leggi d’impunità, Punto Finale e Obbedienza Dovuta, qualcosa di impensabile nell’Argentina neoliberale, ha saldato un impegno morale con i compagni sterminati per imporre il modello economico che ha distrutto il paese.
Oggi che finisce la corsa di Néstor Kirchner si aprono grandi interrogativi. Il kirchnerismo, il presidente, Cristina Fernández, hanno davanti a loro ancora un anno di governo per superare l’assenza del candidato naturale alla presidenza della Repubblica nelle elezioni del prossimo anno. La nuova America latina deve superare la prima scomparsa di un suo leader storico. La continuità dei processi popolari non è assicurata, ma le premesse, anche per l’azione di personaggi come Néstor Kirchner, ci sono tutte.

01 ottobre 2010

Colpo di stato in Ecuador: l’America latina integrazionista è più forte del golpismo

Un soldato delle forze speciali leali piange sul corpo del commilitone Froilán Jiménez, caduto nella battaglia per liberare il presidente.
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“Chi ha versato il sangue di compatrioti (nella foto il corpo di Froilán Jiménez, caduto per liberare il presidente, pianto da un commilitone) sappia che non dimenticheremo né perdoneremo”. E’ questo un passaggio non banale del discorso di Rafael Correa davanti a migliaia di sostenitori dopo 11 ore di sequestro in un ospedale della polizia e dopo essere stato liberato solo da un blitz dell’esercito. In queste parole c’è il seme dell’America latina nuova, che non abbassa più la testa e non ha più paura di processare i criminali e oggi può affrontare –non bastano certo le declamazioni ma centinaia di violatori di diritti umani e stupratori della democrazia in carcere lo testimoniano- il cancro dell’impunità.
Ma, al di là delle parole, Rafael Correa ha già vinto la propria sfida. Ha sfidato i golpisti invitandoli a sparare, ad ucciderlo se ne avevano il coraggio. Quindi, per 11 ore, i golpisti avevano preteso che il presidente umiliasse se stesso e la Costituzione dell’Ecuador accettando di trattare, barattando la sua incolumità personale con la rinuncia sostanziale a quel progetto di un nuovo Ecuador dove tutti fossero cittadini. Ma Correa non ha chinato la testa e, a quel punto, il blitz, anticipato di due ore da Giornalismo partecipativo, è apparso l’unica soluzione.
Gli avvenimenti di Quito, dopo l’ennesima settimana di demonizzazione dell’America latina integrazionista da parte dei grandi media mondiali, rimettono in maniera chiara come il sole, per chiunque sia in buona fede, le cose al loro posto. Come ha affermato nella notte il Presidente brasiliano Lula ancora una volta è stato testimoniato che non è la sinistra ad attentare alla democrazia in America latina. La sinistra, i governi integrazionisti che stanno riscattando il Continente dalla notte neoliberale, sono la democrazia in America latina. Lula stesso e domani Dilma Rousseff, Hugo Chávez, Cristina Fernández, Rafael Correa, Pepe Mujica, Evo Morales, perfino Cuba, per quanti errori possano aver compiuto e continueranno a compiere, stanno dalla parte dei popoli che vogliono riprendersi la storia, vogliono una vita più dignitosa e stanno ridando un senso a parole d’ordine in Europa dimenticate come uguaglianza e giustizia sociale.
E’ invece la destra ad attentare sempre alla democrazia in America latina, come ha dimostrato in Venezuela, in Honduras, in Ecuador con i colpi di stato e in in Bolivia col secessionismo, partendo da quello strumento goebblesiano che in tutti i paesi prende la forma del complesso mediatico commerciale.
E’ sotto gli occhi di tutti quanto è avvenuto questa settimana. I media commerciali di tutto il continente, ma anche europei ed italiani, si sono dedicati sistematicamente a demonizzare i governi democratici di Brasile e Venezuela. Il primo, con all’attivo forse il più positivo bilancio al mondo perfino in termini di crescita capitalista dal 2003 in avanti, il secondo che ha appena vinto con maggioranza assoluta le elezioni parlamentari, sono stati costantemente sotto tiro. Nel caso venezuelano la vittoria è stata ridicolamente e sistematicamente presentata come una sconfitta e una campana a morto per il governo bolivariano. Anche sull’Ecuador i disinformatori sono al lavoro: “tranquilli non è un golpe” hanno sviato tutto il giorno e anche adesso occultano evidenze, testimonianze e prove per presentare il complotto come un semplice conflitto sindacale sfuggito di mano per focosità naturale (sic) delle popolazioni andine.
Conflitto sindacale un corno! Le parole e i fatti devono avere ancora un senso, anche per chi di mestiere lavora sempre per edulcorare. Il presidente è stato malmenato, colpito con gas lacrimogeni, infine sequestrato per 11 ore in un’ospedale all’interno di una caserma, con almeno un tentativo solido di portarlo altrove, frustrato solo perché nel frattempo migliaia di cittadini avevano circondato la caserma, riproducendo per molti versi l’epopea dei giorni dell’aprile 2002 in Venezuela, quando il popolo si sollevò contro il golpe riportando Hugo Chávez a Miraflores. Il popolo pacifico che non accetta più la prepotenza è la cifra dell’America latina del XXI secolo. Anche dove la violenza infine trionfa, come è successo in Honduras, nessuno abbassa più la testa.
Ma non è solo il sequestro del presidente, che pure è la prova provata e legale dell’avvenuto colpo di stato, a testimoniare la gravità degli eventi: durante ore sono state sotto controllo golpista le due principali città del paese e i due principali aeroporti del paese sono stati chiusi. Anche in città come Cuenca e Manabi ci sono state manifestazioni di appoggio al golpe, mettendo in piazza quella massa di manovra, gli “studenti di destra”, già visti all’opera in varie parti del Continente, da Santa Cruz in Bolivia a Caracas, scesi in piazza in appoggio ad un governo civico-militare che per almeno un paio d’ore è sembrato potesse prosperare.
Altrove, invece, la strada è stata presa da civili leali alla Costituzione, in ore di tensione intensa che hanno già fatto cadere le teste del capo della Polizia e, la notizia non è ufficiale ma è stata confermata a Giornalismo partecipativo, del ministro degli Interni Gustavo Jarlkh. La televisione pubblica, altro atto gravissimo, è stata assaltata e ridotta al silenzio per oltre un’ora da elementi sicuramente riconducibili all’ex-presidente fondomonetarista Lucio Gutiérrez. Dov’è la SIP, la società interamericana della stampa (la confindustria degli editori di media latinoamericani), dov’è Reporter Senza Frontiere, così solerti a strapparsi le vesti quando un media commerciale è ricondotto al rispetto delle leggi in Bolivia o in Brasile o in Venezuela e sempre silenziosi quando la libertà di stampa dei media non omologati viene vilipesa? Per ore molti giornalisti sono stati sequestrati nella stessa caserma del presidente e almeno un cameramen è stato gravemente picchiato e la sua telecamera distrutta. Cosa importa…
All’estero la CNN ha impiegato otto ore prima di ammettere che il presidente Rafael Correa si trovasse sotto sequestro. Ammettere il sequestro voleva dire ammettere la rottura dell’ordine costituzionale e quindi il golpe in atto. Strana maniera di lavorare per un canale all-news che deve la sua fortuna al tempismo con il quale dà le notizie. El País di Madrid ha dovuto rinculare e spiegare che c’era stato un sequestro solo quando ha dovuto prendere atto del blitz per porvi fine. Vergogna per un quotidiano che con coraggio si oppose al golpe Tejero un 23 febbraio di troppi anni fa in Spagna! Fondo Monetario Internazionale, destra tradizionale, non solo personaggi come Lucio Gutiérrez ma anche il sindaco di Guayaquil Jaime Nebot erano dietro al tentativo golpista, il simbolo della destra della costa che in Ecuador viene chiamata “pelucones”, parrucconi. Inoltre si moltiplicano le informative che testimoniano come proprio la polizia nazionale ecuadoriana, individuata come punto debole nella lealtà alla Costituzione, sia stata sistematicamente infiltrata e profumatamente corrotta fin dal 2008 dai soliti noti, a partire da USAID.
Ai golpisti è andata male su tutta la linea. I presidenti latinoamericani, escludendo una volta di più Washington, hanno attraversato il continente nella notte per riunirsi a Buenos Aires e mostrarsi uniti come mai. Non facevano eccezione quelli di destra, Juan Manuel Santos, Alan García, Sebastían Piñera, contro il terzo golpe in otto anni nella regione, senta contare altri rumori di sciabole dalla Bolivia al Paraguay. Nel frattempo il governo degli Stati Uniti si limitava a “monitorare” la situazione e, solo quando è stato evidente l’isolamento dei golpisti nel paese e nel continente, è passato dal monitoraggio alla condanna. Far finta di non vedere una regia dietro questa giornata che si conclude con un bilancio di due morti e una settantina di feriti e descrivere gli avvenimenti di Quito come casuali e spontanei è un cosciente atto di disinformazione. Altro che conflitto sindacale!

11 agosto 2010

Hugo Chávez e Juan Manuel Santos cancellano il piano Uribe-Pentagono

da SudTerrae.


E’ fallito il piano del Pentagono e di Álvaro Uribe di ipotecare le relazioni tra il successore di questo e il Venezuela per destabilizzare il governo di Hugo Chávez e incolparlo di finanziare e proteggere “gruppi terroristi”.
Ieri a Santa Marta, in Colombia, lo stesso presidente bolivariano e il neo-presidente colombiano Juan Manuel Santos hanno infatti ristabilito normali relazioni diplomatiche dopo la rottura del 22 luglio scorso quando Uribe, a pochi giorni dalla fine del suo mandato, aveva denunciato presunti aiuti e ospitalità venezuelane alla guerriglia delle FARC.

Sotto la gestione dell’ex presidente argentino Nestor Kirchner, segretario generale di UNASUR, l’organizzazione latinoamericana che esclude gli Stati Uniti dalla risoluzione delle crisi regionali, si è archiviata dunque l’ultima crisi costruita a tavolino da Álvaro Uribe e dal Pentagono per coinvolgere il Venezuela nella guerra colombiana e metterlo di fronte alla comunità internazionale sul banco degli imputati come “stato canaglia” che appoggia il “terrorismo”. La stessa facilità con la quale Santos e Chávez sono potuti andare oltre e ristabilire le relazioni testimonia la pretestuosità della stessa denunciata perfino da organi mainstream come il settimanale britannico “The Economist”.
Non tutto evidentemente è stato facile. I due paesi vengono da una continua crisi negli anni di Uribe e sono innumerevoli gli episodi e i temi di frizione che non si limitano certo alla guerriglia ma vanno all’uso della frontiera binazionale da parte di narcos e paramilitari colombiani (Chávez accusò Uribe di averli usati per tentare di assassinarlo e per fomentare un golpe) alla concessione di basi militari agli Stati Uniti ai fatti di Sucumbíos, quando la Colombia causò decine di vittime bombardando il territorio ecuadoriano.
Oggi le cose appaiono pronte per un nuovo inizio e il tempo ci dirà se non sono (come è ben possibile) speranze mal riposte. Di sicuro in nessun momento la delegazione colombiana, che comprendeva oltre a Santos la nuova ministro degli esteri María Angela Holguín, ha accusato Hugo Chávez di aver mai aiutato la guerriglia, come invece infinite volte aveva fatto il suo predecessore Uribe, spesso producendo prove poi rivelatesi completamente false come nel caso delle manipolazioni sul computer del guerrigliero delle FARC Raúl Reyes, fatto assassinare in territorio ecuadoriano da Uribe stesso nel citato episodio di Sucumbíos il primo marzo 2008.
D’altra parte Chávez è andato avanti con parole chiare nel chiedere alla guerriglia stessa di deporre le armi e trovare la via del dialogo al quale sarebbe oggi disposto un Santos che, giova comunque ricordare, aveva invece in passato condiviso tutte le responsabilità della guerra senza quartiere condotta dal proprio predecessore. Oggi, addirittura, i due presidenti si propongono reciprocamente di abrogare la parola “guerra” dai rispettivi dizionari e si esercitano a chi è più bravo a citare il Libertador Simón Bolívar, morto nel 1830 proprio a Santa Marta e nel museo in memoria del quale si è tenuto parte del vertice tra due delle province che un tempo facevano parte della Gran Colombia.
Inizialmente però Santos pretendeva che la guerriglia fosse definita come “terrorismo”, cosa inaccettabile per i venezuelani. In conclusione si è optato per la formula “gruppi armati al margine della legge”. E’ una definizione che, a rigor di logica, include tanto i paramilitari come i narcos. E’ una espressione, sulla quale si è insistito sia da parte di Nestor Kirchner che da parte venezuelana e infine accettata da Bogotà, che archivia la retorica vetero-bushiana e mette la Colombia e non certo il Venezuela di fronte alle proprie responsabilità.
E’ infatti di questi giorni l’ennesima denuncia delle Nazioni Unite sul contesto di sistematica violazione dei diritti umani e sull’impunità totale in epoca uribista. Delle 289.000 vittime di violazioni dei diritti umani ufficialmente registrate solo una ha ottenuto riparazioni e, delle migliaia di paramilitari teoricamente smobilitati durante il governo Uribe, appena due sono stati condannati per i loro crimini.
In merito (parziale) i due presidenti hanno stabilito una commissione bilaterale che dovrebbe farsi carico dei problemi intorno alla frontiera binazionale e in special modo della violenza e che agirà sotto gli auspici di UNASUR che una volta di più emerge come organismo che si sta sostituendo alla OSA (Organizzazione degli Stati Americani, da sempre controllato dagli Stati Uniti) nella risoluzione dei conflitti regionali.
Lo sviluppo della commissione è vista positivamente come “fatto concreto” sia dalla stampa colombiana che da quella venezuelana e degli altri paesi integrazionisti. Non ha sorpreso i più avvertiti la necessità e perfino la fretta di andare oltre Uribe da parte di Santos addirittura avendo già pronta la nomina del nuovo ambasciatore a Caracas. Per Santos, ne abbiamo reso conto lunedì e venerdì scorso, il commercio binazionale (che vale sette miliardi di dollari e l’1.5% del PIL colombiano) è oggi più importante del collaborare col Pentagono (che comunque aumenta la propria presenza militare in Colombia e l’accerchiamento del Venezuela) per destabilizzare il governo di Hugo Chávez.

di Gennaro Carotenuto

28 febbraio 2010

Orlando Zapata Tamayo: la morte utile alla barbarie capitalista.

dal blog Viva Cuba!




E’ di questi giorni la notizia della triste morte in un carcere cubano di Orlando Zapata Tamayo, la propaganda anticubana al servizio della menzogna imperialista ha ovviamente approfittato della notizia per scatenare la solita campagna internazionale atta a denigrare l’isola che testardamente continua a non volersi sottomettere alle pretese di dominio del potente vicino del nord.
L’assoluta mancanza di vittime del supposto regime carcerario cubano induce i controrivuzionari super stipendiati dal governo nordamericano, ad agire senza alcun scrupolo pur di garantirsi le prebende che vengono loro elargite a dismisura. E’ difficile morire a Cuba, non solo perché la durata media della vita è pari a quella dei paesi più sviluppati del mondo e perché nessuno muore di fame malgrado le scarse risorse economiche, ne di malattie curabili, ma perché dominano la legge e l’onore. I mercenari a Cuba sono giudicati secondo le leggi vigenti (in nessun paese si possono violare le leggi, ricevere soldi e collaborare con l’ambasciata di un paese considerato nemico; per esempio, negli USA questo comporta severe sanzioni di privazioni di libertà quando non addirittura la sparizione di presunti sospetti. E non solo negli USA, l’Europa, e l’Italia in primis, non disdegnano di ricorrere alla condanna a morte per via extragiudiziale….), a Cuba nessuno sparisce o viene assassinato dalla polizia, non esistono “angoli oscuri” per interrogatori “non convenzionali” a prigionieri scomparsi come avviene a Guantanamo o ad Abu Ghraib, per citarne solo due dei tanti.
Agenzie di stampa ed alcuni governi si sono affrettati a condannare Cuba per la morte in carcere di Orlando Zapata Tamayo. Tutte le morti sono lamentabili e dolorose però l’eco mediatico stavolta si tinge di entusiasmo al fine di fare apparire la vittima un “eroe” della lotta conto la “dittatura cubana”. Peccato che tacciano vergognosamente sulle vere cause di questa morte e sulle “imprese” del detenuto. Al di là di qualsiasi maquillage mediatico, Zapata Tamayo era un prigioniero comune che incominciò a delinquere nel 1988, fu processato per violazione di domicilio nel 1993; lesioni nel 2000; lesioni e detenzione di arma bianca nel 2000; truffa sempre nel 2000; ferite e fratture del cranio del cittadino Leonardo Simòn con l’uso di un machete, alterazione dell’ordine e disordini pubblici nel 2002. Queste sono solo alcune delle cause per nulla vincolate alla politica per cui venne giudicato e condannato per essere poi rilasciato il 9 marzo del 2003 sotto diffida a non commettere altri delitti. Però il nostro “eroe” il 20 dello stesso mese tornò a delinquere. A causa dei suoi antecedenti questa volta venne condannato a 3 anni di carcere. La sentenza venne poi ampliata negli anni successivi a causa della sua condotta aggressiva in prigione.
Nemmeno nella lista dei prigionieri politici stilata nel 2003 dalla Commissione dei Diritti Umani dell’ONU, notoriamente manipolata al punto che poi venne soppressa, non appare il suo nome, tant’è che se fosse stato condannato per reati politici non sarebbe stato liberato anticipatamente.
Avidi di arruolare la maggior quantità possibile di supposti o reali controrivoluzionari, venne convinto dei vantaggi materiali che comportava la “militanza politica” anche grazie alla partecipazione di ambasciate straniere a questa pratica di proselitismo. Zapata Tamayo adottò il profilo “politico” quando già la sua biografia penale era molto estesa. Venne continuamente stimolato dai suoi mentori politici a dar vita a scioperi della fame che minarono definitivamente il suo organismo. La medicina cubana, esistono tutti gli atti in proposito, lo seguì attraverso diverse istituzioni ed ospedali dove esistono specialisti molto qualificati che non risparmiarono risorse nel trattare i suoi problemi di salute. Ha ricevuto alimentazione forzata, la famiglia fu sempre informata ad ogni passo, la sua vita venne prolungata per diversi giorni con la respirazione artificiale.
Ci sono però domande senza risposte che non sono mediche. CHI E PERCHÈ stimolò Zapata ad una condotta SICURAMENTE SUICIDA? A chi CONVENIVA la sua morte? La sua morte rallegra gli ipocriti finti addolorati , Zapata era il candidato perfetto, un soggetto “necessario” per i nemici della Revoluciòn, un uomo facile da convincere perché insistesse con le sue richieste assurde (televisione, cucina e telefono personali nella sua cella), sapevano benissimo, loro, che non potevano essere evase. Ma serviva “il caso” COSTI QUEL CHE COSTI. Tutti gli altri scioperi della fame furono denunciati dagli istigatori come causa di probabile morte, però gli altri scioperanti sempre desistevano prima di procurarsi danni alla salute (come il nostro Pannella, inscenare il caso ma non farsi danno). Istigando Zapata a proseguire fino alla sua morte questi mercenari si fregavano le mani in attesa dell’esito letale malgrado gli sforzi dei medici, ed ora esibiscono cinicamente il caso come un trofeo.
Alcuni mezzi d’informazione al servizio della destra più criminale e reazionaria, stavano sperando con ansia la fine del moribondo per dare inizio alla loro vile campagna denigratoria infischiandosene del fatto che una vita è stata stroncata dalla loro criminale mentalità perversa, che un essere umano veniva immolato per soddisfare le loro lugubri trame a scopo puramente politico. Il povero Orlando Zapata Tamayo è stato manipolato fino a condurlo premeditatamente all’autodistruzione per soddisfare le loro necessità politiche.
Questo caso è una conseguenza diretta della politica criminale contro Cuba, che stimola all’emigrazione illegale, a fomentare disordini e non rispettare le leggi e l’ordine stabilito. Lì staL’UNICA VERA CAUSA di questa morte indesiderata da tutte le autorità cubane, sia per questioni etiche e morali sia per ovvie questioni politiche.
Ma perché oltre a questi delinquenti prezzolati ci sono governi che si uniscono a questa campagna sconsiderata, se sanno, perché lo sanno benissimo, che a Cuba non si usa la tortura e quantomeno le esecuzioni extragiudiziarie come invece avviene frequentemente nei paesi che con troppa superficialità si definiscono portatori di democrazia? Quanti morti in carcere si potrebbero denunciare ogni anno in questi paesi impropriamente considerati baluardi della democrazia? Già Cuba lo ha detto più di una volta: possiamo ridarvi tutti i mercenari che volete, però rendeteci i nostri cinque compatrioti incarcerati dall’impero perché stavano combattendo il terrorismo (che ha causato oltre tremila vittime innocenti tra i cittadini cubani, tra loro anche un italiano ma i nostri governi di vario colore succedutesi in questi anni se ne sono guardati bene dal chiedere l’estradizione dei rei confessi….) e che stanno scontando eroicamente l’ingiusta pena loro inflitta, pena condannata da tutte le istituzioni veramente democratiche e da tutte le persone civili.
Ma che non si rallegrino tanto questi cialtroni per il “successo” della loro iniziativa, non serviranno le ipocrite menzogne mediatiche a fermare il processo rivoluzionario cubano. Oltre cinquant’anni di infamie non sono servite a niente, Cuba non potrà mai essere intimidita, impedita ne separata dal suo eroico e dignitoso cammino verso il futuro. Ne dalle aggressioni, ne dalle menzogne e tantomeno dalle infamie.

15 febbraio 2010

Brasile: Lula, un film per chiudere un doppio mandato da record

di Maurizio Stefanini per Limes


RUBRICA ALTREAMERICHE. Nonostante il flop del kolossal sulla sua vita, Lula termina gli otto anni dei suoi due mandati con un indice di popolarità record e con eccezionali dati economici. E' cresciuto il ceto medio brasiliano. Va a Porto Alegre e a Davos, media tra Usa e Venezuela, ma rischia di strafare.


Você sabe quem è esse homem, mas não conhece asua história. “Voi sapete chi è quest’uomo, ma non conoscete la sua storia”. Il trailer comincia dunque con una casa bassa sull’orizzonte allucinato del sertão, mentre echeggia il vagito di un neonato. Si vede poi la testa dell’infante su cui cade un fiotto d’acqua, non è chiaro se per lavarlo o è il battesimo, ma la madre gli dice dunque: “ti chiamerai Luiz Inácio”. E poi vediamo il bimbetto saltellare tra i cactus. La madre con lui al collo e un fazzoletto in testa che viaggia su un camion. Un uomo barcollante che la picchia gridando, col ragazzino che si mette in mezzo. Luiz Inácio che si guadagna i primi soldini vendendo frutta in mezzo alla strada e lustrando scarpe. Una lancia su un fiume. La donna che piange mentre consegnano un diploma. Il giovanotto in tuta da operaio, al tornio. Il giovanotto che corteggia una ragazza. Un matrimonio in cravatta, sotto al riso che cade. Il giovanotto di nuovo in tuta da operaio che perde un dito sotto a una pressa. Un ospedale, con una voce che parla di un “figlio nato morto” e di una donna pure morta di parto. E poi tutta a una serie di assemblee sindacali. Un bacio a un’altra ragazza, stavolta bionda. Comizi e manifestazioni, inframezzati da un poliziotto che minaccia e da spari di lacrimogeni. Il giovanotto cui viene fatta la foto segnaletica degli arrestati. E poi i nomi degli interpreti, seguiti da un’assemblea che acclama il leader che si passa le mani sugli occhi, e si torna al ragazzino che viaggia sul camion.

È Lula, o filho do Brasil: biografia dei primi 35 anni
 di vita del presidente operaio, sugli schermi brasiliani dal primo gennaio di quello che sarà l’ultimo dei suoi otto anni di presidenza. La Costituzione non consente infatti più di due mandati consecutivi, e lui ha rifiutato l’iniziativa che pure era partita per modificarla, in modo da consentirgli una nuova ricandidatura. Lula, o filho do Brasil è un film che parla di poveri e di povertà, ma è la pellicola brasiliana più costosa di tutti i tempi: 17 milioni di reais, quasi 7 milioni di euro. Soldi pubblici nell’anno in cui si voterà per il presidente che di Lula dovrà prendere il posto, e con la candidata del suo partito Dilma Roussef che gli sedeva al fianco alla prima, da cui immaginabili e dure accuse di opposizioni e giornali. “Statua equestre”. “Film governativo”. “Spot a spese del contribuente”… Ma quando allo stesso Lula hanno chiesto che ne pensasse il presidente, pur commosso, non è riuscito a celare una certa perplessità.



In particolare sulla scena madre, quando suo padre ubriaco aggredisce la madre, e il piccolo si erge a difenderla: “non mi ricordo che il mio papà fosse così violento!”. Anche i suoi vecchi compagni di lotta interpellati hanno manifestato un riserbo simile. “Io sono stato in galera con Lula per 31 giorni”, ha ricordato il suo vecchio amico Djalma Bom. “Non è vero che dormivamo per terra, avevamo brande”. Completamente cancellata è la storia di Miriam Cordeiro, con cui Lula ebbe una figlia. Ma poi abbandonò entrambe, e lei andò in tv durante la campagna elettorale del 1989, accusandolo di averle imposto di abortire. Insomma: un santino che ufficialmente il presidente non aveva neanche sollecitato, anche se vari elementi del suo entourage avrebbero lavorato sotto banco. Un critico ha sostenuto che lo schema è chiaramente ispirato al Che Guevara di Steven Soderbergh.

Fábio Barreto, il regista, è però tutt’altro che un militante.
 Figlio di un notissimo produttore, fratello dell’altro regista di Dona Flor e i suoi due mariti, in passato ha diretto opere non esattamente ideologiche: da un clone brasiliano di Desperate Housewives a un film intitolato Lambada. Ha comunque avuto anche una nomination all’Oscar per il miglior film straniero, per un film del 1995 sull’emigrazione italiana di inizio ‘900. Nelle interviste ha spiegato che Lula non gli interessa tanto dal punto di vista ideologico quanto esistenziale. Essendo il primo presidente brasiliano venuto dalla povertà, è anche il primo che non ha complessi di colpa verso i poveri. E dunque, paradossalmente, anche il primo che non ha bisogno di fare il populista. Il film, in realtà, poi è andato male, malgrado le grandi aspettative che aveva creato: addirittura, si era pensato di dover mettere schermi all’aperto. Invece, la prima settimana di programmazione non è andato oltre il primo posto, e poi è scivolato verso il basso. Chi ha provato a indagare sui perché del flop ha concluso che il film è emozionante, gli attori sono bravi, ma non è quello il tipo di Lula che alla gente piace, e che termina gli otto anni dei suoi due mandati con un indice di popolarità record, di oltre l’80%. Ciò, malgrado la catena di scandali che ha falcidiato la dirigenza del suo partito, provocando anche ben due scissioni.

Il Lula che piace, ad esempio, è quello che prova a
 tenere assieme Porto Alegre e Davos. Andando prima a Porto Alegre, dove tornava per la sua decima edizione quel Forum Sociale Mondiale che proprio nella città brasiliana era stato inventato come alternativa da sinistra al “pensiero unico di Davos”, e che era poi migrato in altre sedi.



Una decima edizione in realtà in tono minore, a vedere il modo in cui l’attenzione dei mass-media è ormai precipitata al minimo, e anche la frequenza è ormai in tono minore: il che tra l’altro è quasi un paradosso, a vedere il modo in cui certe critiche del Forum Sociale Mondiale alla globalizzazione dopo la crisi sono ormai diventate quasi la nuova ortodossia di parecchi governanti, da Obama a Tremonti. Ma Lula doveva al Forum Sociale molto, se si pensa al modo in cui l’iniziativa aveva fatto da “vetrina” al suo Partito dei Lavoratori (Pt), e al suo nuovo modo di governare tra comune di Porto Alegre e Stato di Rio Grande do Sul. E anche se nel frattempo il Pt aveva perso entrambe le amministrazioni, andate rispettivamente al centro e al centro-destra, la presenza del “presidente operaio” ha galvanizzato i 15.000 presenti alla cerimonia.

“Lula è un militante del Forum Sociale”, ha proclamato
 il sindaco José Fogaça: che è del centrista Partito del Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb); che alle ultime elezioni ha sconfitto al ballottaggio proprio una candidata del partito di Lula; ma che è comunque alla guida di una città che questo evento ha reso famosa in tutto il mondo, e a cui tiene evidentemente in modo particolare, se si pensa che nella sua attività pre-politica di compositore musicale ne ha scritto l’inno. “Lula, guerreiro, do povo brasileiro!”, cantava la gente a tempo di samba. “Olé, Olé, Lula, Lula!". È vero che era meno gente degli 80.000 dell’edizione del 2003, quando vi era intervenuto per la prima volta da presidente. “Non rinnegherò mai una virgola delle idee che mi hanno portato alla Presidenza”, aveva allora proclamato. Ma poi, a sorpresa, era partito per Davos. Anche stavolta aveva appunto deciso di fare lo stesso. “Sto qui e poi vado a Davos, così come ho fatto nel 2003”, ha annunciato.

Qualcuno lo ha applaudito, qualcuno è rimasto perplesso. “Sono
 convinto che Davos non ha più il glamour di un tempo”, ha aggiunto quasi a mo’ di giustificazione. Malgrado la sua abituale vanteria “mai come con me le banche brasiliane si sono arricchite”, in agenda aveva un discorso sull’”urgenza di riformare il sistema finanziario internazionale”, oltre alla richiesta di concludere il Doha Round del Wto e di riformare l’Onu: due battaglie in cui il leader della sinistra coincideva esattamente con il presidente di un Paese con il doppio interesse geopolitico di trovare sbocchi al suo sempre più prorompente export, e di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.



E a Davos avrebbero dovuto consegnargli un nuovo “Premio allo Statista Globale” inventato apposta per lui dopo 40 anni di storia del Forum Economico: “riconoscimento al presidente Lula da Silva per il modo in cui ha portato il Brasile a compiere le sue mete di sviluppo e progresso sociale in maniera integrata e equilibrata”.

In realtà, poi a Davos non è riuscito ad andarci: colpa
 di una crisi di ipertensione cui non deve essere estranea la sua notoria propensione per i superalcolici e per la carne alla brace, e che l’ha obbligato a un improvviso ricovero subito dopo il discorso di Porto Alegre. Il fatto che il Premio abbiano dovuto darglielo attraverso un rappresentante, però, non vuol dire che non se lo sia meritato. Con lui il Pil brasiliano è cresciuto del 33%. Con lui l’inflazione è calata dal 16 al 5,3%. Con lui il debito pubblico è sceso dal 52,3 al 43%. Con lui il Brasile ha scoperto i giacimenti petroliferi che promettono a breve di farne un Paese esportatore di greggio. Ma spesso i meri dati macroeconomici ingannano, in un’area che come l’America Latina è famosa per economie che vanno bene dove però la gente sta male. O viceversa: dall’Argentina di Perón al Venezuela di Chávez, quelle altre situazioni in cui importanti politiche di redistribuzione vengono fatte al costo di sfasciare l’apparato produttivo in maniera quasi irreparabile.

L’eccezionalità del dato che Lula lascia in eredità
 è invece quella di economia e cittadini che hanno migliorato assieme. La povertà con Lula è caduta dal 26 al 23%. L’indigenza dal 15 all’8%. La partecipazione al reddito del 50% più povero è passata dal 13 al 15%. Quella del 10% più ricco è scesa dal 47 al 43%. La disoccupazione è scesa dal 13 all’8,9%. I salari reali sono aumentati del 15%. Insomma, Lula è riuscito infine a creare quel ceto medio che, come fu individuato fin dal tempo di Aristotele, è la vera base per ogni democrazia. Secondo un recente studio della Fondazione Getulio Vargas, ormai il ceto medio brasiliano sarebbe arrivato alla metà della popolazione, accogliendo nei suoi ranghi oltre 27 milioni di nuovi membri negli ultimi sei anni. Si tratta di 91 milioni di persone, esattamente il 49,22% dei brasiliani, che con redditi compresi tra i 115 e i 4807 reais, tra i 586 e i 2530 dollari, detengono il 46% del reddito nazionale. Nel 2003 non si trattava che di 64,1 milioni di persone, che rappresentavano solo il 37,56% della popolazione e concentravano il 37% del reddito.

Certo, resta un 40% di persone con entrate inferiori ai 1115 reais: 70 milioni di persone. L’indice di diseguaglianza continua a essere dei peggiori del mondo, e anche gli indici di delinquenza sono elevatissimi, Per non parlare di quelli di corruzione. Insomma: molto lavoro è stato fatto, ma molto è ancora da fare.



La convinzione di Lula è però che è ormai terminata l’epoca in cui si faceva l’amara battuta: “il Brasile è il Paese del futuro e lo sarà sempre”. “Il Brasile deve perdere la mania di piccolezza per entrare nella mania di grandezza senza arroganza”, è il nuovo slogan che, passata la crisi di ipertensione, è andato a lanciare durante l’inaugurazione di una fabbrica di semiconduttori per tv e microchip: assolutamente pionieristica per la regione. “Il Brasile non deve niente a nessuno”.

Il miglioramento macroeconomico e microeconomico
 è stato in effetti accompagnato sul fronte geopolitico da una grandeur che ha visto il Brasile fare da arbitro tra gli Usa di George W. Bush e di Barak Obama e il Venezuela di Hugo Chávez. Ottenere Olimpiadi e Mondiali di Calcio. Dare vita a una quantità di importanti intese di Paesi emergenti: dal Bric con Russia, India e Cina; al Basic con Sudafrica, India e Cina; all’Ibsa con India e Sudafrica. Certo, il rischio di strafare è sempre presente. La guida della missione Onu ad Haiti ha portato a un’imbarazzante figura di inefficienza in occasione del terremoto. Il tentativo di fare addirittura da mediatore anche tra Israele e Iran sfocia ora nella rinuncia di Lula a viaggiare in Iran, nel momento in cui l’opposizione scende in piazza e la preoccupazione della comunità internazionale per il programma nucleare di Teheran cresce. Ma si tratta di scivoloni probabilmente inevitabili, nel contesto di una crisi di crescita.

Resta per Lula il problema di non riuscire a comunicare la sua popolarità al Pt, che durante i suoi due mandati ha perso amministrazioni locali in quantità. E meno che mai la popolarità si è finora comunicata alla povera Dilma Roussef: che a lungo nei sondaggi ha arrancato di una ventina di punti sotto il candidato del centro-destra José Serra. C’è da vedere se il recente grave scandalo che ha portato in galera il governatore di Brasilia José Arruda, di Serra alleato, non possa portare a un’inversione di tendenza.

Maurizio Stefanini, giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il FoglioLiberoLiberalL’OccidentaleLimesAgi EnergiaScuola Superiore della Pubblica Amministrazione e Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze.Specialista in politica comparata, processi di transizione alla democrazia, problemi del Terzo Mondo,  in particolare dell’America Latina, e rievocazioni storiche.