Visualizzazione post con etichetta Lotta alla mafia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Lotta alla mafia. Mostra tutti i post

29 giugno 2010

Sette anni, ne dimostra di più

Di Marco Travaglio per Voglio Scendere


Dunque, anche per la Corte d’appello di Palermo, Marcello Dell’Utri è un mafioso. Dopo cinque giorni di battaglia in camera di consiglio, i giudici più benevoli che lui abbia mai incontrato hanno stabilito quanto segue: fino al 1992, prima in casa Berlusconi, poi nella Fininvest, poi in Publitalia, ha sicuramente lavorato per Cosa Nostra (la vecchia mafia dei Bontate e Teresi, e la nuova mafia dei Riina e Provenzano) e contemporaneamente per il Cavaliere palazzinaro, finanziere, editore, tycoon televisivo. Dopo il 1992, cioè negli anni delle stragi politico-mafiose e della successiva nascita di Forza Italia (un’idea sua), mancano le prove che abbia seguitato a farlo per il Cavaliere politico. Questo, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, è quanto si può dire a una prima lettura del suo dispositivo. 

Qualche sito e qualche cronista (tra cui, sorprendentemente, quello di Sky) si sono subito affannati a concludere che “è stato smentito Spatuzza”: ma questo, finchè non saranno note le motivazioni, non lo può dire nessuno. Molto più probabile che i giudici abbiano stabilito, com’è giusto, che le sue parole – né confermate né smentite – da sole non bastano, senza riscontri. Riscontri che avrebbe potuto fornire Massimo Ciancimino, se i giudici Dell’Acqua, Barresi e La Commare avessero avuto la compiacenza di ascoltarlo, prima di decidere apoditticamente, senza nemmeno averlo guardato in faccia, che è “inattendibile” e “contraddittorio”. 
Riscontri che già esistevano prima che Spatuzza e Ciancimino parlassero: oltre alle dichiarazioni ultra-riscontrate di Nino Giuffrè e altri collaboratori sul patto Provenzano-Dell’Utri, è proprio sul periodo successivo al 1992 che i magistrati hanno raccolto la maggiore quantità di fatti documentati e inoppugnabili: le intercettazioni del mafioso Carmelo Amato, provenzaniano di ferro, che fa votare Dell’Utri alle europee del 1999; le intercettazioni dei mafiosi Guttadauro e Aragona che organizzano la campagna elettorale per le politiche del 2001 e parlano di un patto fra Dell’Utri e il boss Capizzi nel 1999; le agende di Dell’Utri che registrano due incontri a Milano col boss Mangano nel novembre del 1994, mentre nasceva Forza Italia; la raccomandazione del baby calciatore D’Agostino per un provino al Milan, caldeggiato dai Graviano e propiziato da Dell’Utri; e così via. Vedremo dalle motivazioni come i giudici riusciranno a scavalcare questi macigni. 

Ora, per Dell’Utri, il carcere si avvicina. Quello di ieri è l’ultimo giudizio di merito sulla sua vicenda: resta quello di legittimità in Cassazione, ma le speranze di farla franca attraverso una delle tante scappatoie previste dall’ordinamento a maglie larghe della giustizia italiana sono ridotte al lumicino. La prescrizione, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa doppiamente aggravato dall’elemento delle armi e da quello dei soldi, scatta dopo22 anni e mezzo dalla data ultima di consumazione del reato: quindi dal 1992. Il calcolo è presto fatto: se la Cassazione deciderà che davvero il reato si interrompe nel 1992, la prescrizione scatterà nel 2014-2015, quanto basta alla Suprema Corte per confermare definitivamente la condanna a 7 anni. Che non potranno essere scontati ai domiciliari secondo la norma prevista dalla ex Cirielli per gli ultrasettantenni (Dell’Utri compirà 70 anni nel 2011), perché non vale per i reati di mafia (altrimenti sarebbero a casa anche Riina e Provenzano). 
Se invece la Cassazione cassasse senza rinvio la condanna, Dell’Utri avrebbe risolto i suoi problemi. Ma c’è pure il caso che la Cassazione  cassi la sentenza con rinvio, accogliendo il prevedibile ricorso della Procura generale contro l’assoluzione per i fatti post-1992. Nel qual caso si celebrerebbe un nuovo appello, ma per Dell’Utri sarebbe una magra consolazione: rinvierebbe soltanto di un paio d’anni l’amaro calice del carcere, visto che, allungandosi il periodo del suo reato, si allungherebbe anche il termine di prescrizione. Semprechè, naturalmente, non venga depenalizzato il concorso esterno in associazione mafiosa.

Questa sentenza, per quanto discutibile, compromissoria e anche un po’ furbetta, aiuta a comprendere la differenza che passa tra la verità giudiziaria e quella storica, politica, morale. Nessuna persona sana di mente potrebbe credere, alla luce del dispositivo, che Cosa Nostra sia un’accozzaglia di squilibrati che si alleva un concorrente esterno, lo infiltra nell’abitazione e nelle aziende di Berlusconi per tutti gli anni 70 e 80 fino al 1992 e poi, proprio quando diventa più utile, cioè quando s’inventa un partito che riempie il vuoto lasciato da quelli che avevano garantito lunga vita alla mafia fino a quel momento, lo scarica o se ne lascia scaricare senza colpo ferire. Una banda di pazzi che per un anno e mezzo mettono bombe e seminano terrore in tutt’Italia per sollecitare un nuovo soggetto politico che rimpiazzi quelli decimati da Tangentopoli e dalla crisi finanziaria e politica del 1992, e quando questo soggetto politico salta fuori dal cilindro non di uno a caso, ma del vecchio amico Dell’Utri, interrompono le stragi, votano in massa per Forza Italia, ma rompono i rapporti col vecchio amico Dell’Utri, divenuto senatore e rimasto al fianco del nuovo padrone d’Italia. 

I giudici più benevoli mai incontrati da Dell’Utri, dopo cinque anni di appello e cinque giorni di camera di consiglio, non hanno potuto evitare di confermare che, almeno fino al 1992, esistono prove insuperabili (perfino per loro) della mafiosità di Dell’Utri. Cioè dell’uomo che ha affiancato Berlusconi nella sua scalata imprenditoriale, finanziaria, editoriale, televisiva. E che nel 1992-’93 ideò Forza Italia, nel 1995 fu arrestato per frode fiscale e nel 1996 entrò in Parlamento per non uscirne più. 
Intervistato qualche mese fa da Beatrice Borromeo per il Fatto quotidiano, Dell’Utri ha candidamente confessato: “A me della politica non frega niente. Io mi sono candidato per non finire in galera”.

Ecco, mentre i giudici di Palermo scrivono le motivazioni, ora la palla passa alla politica. Un’opposizione decente, ma anche una destra decente, semprechè esistano, dovrebbero assumere subito due iniziative. 
1) Inchiodare Silvio Berlusconi in Parlamento con le domande a cui, dinanzi al Tribunale di Palermo, oppose la facoltà di non rispondere. Perché negli anni 70 si affidò a Dell’Utri (e a Mangano)? Perché, quando scoprì la mafiosità di almeno uno dei due (Mangano), non cacciò anche l’altro che gliel’aveva messo in casa (Dell’Utri), ma lo promosse presidente di Publitalia e poi artefice di Forza Italia? Da dove arrivavano i famosi capitali in cerca d’autore degli anni 70 e 80? Si potrebbe pure aggiungere un interrogativo fresco fresco: il presidente del Consiglio è forse ricattato o ricattabile anche su queste vicende (ieri il legale di Dell’Utri, Nino Mormino, faceva strane allusioni al prodigarsi del suo assistito fino al 1992 per “salvare dalla mafia Berlusconi e le sue aziende”)? 
2) Pretendere le immediate dimissioni di Marcello Dell’Utri dal Parlamento. Quello di ieri non è un avviso di garanzia, una richiesta di rinvio a giudizio, un rinvio a giudizio, una sentenza di primo grado: è la seconda e ultima sentenza di merito. Che aspetta la politica a fare le pulizie in casa? Che i carabinieri irrompano a Palazzo Madama per prelevare il senatore e condurlo all’Ucciardone?

Il video della sentenza  (da Sky TG24)

16 marzo 2010

Enzo Bianco e Michele Emiliano premiati per il loro impegno contro la criminalità.














Nel corso di un incontro sul tema "Dall'Operazione Primavera alla Primavera della Legalità"


BRINDISI - “Dall’Operazione Primavera alla Primavera della Legalità”: sarà questo il tema di un importante incontro che si terrà oggi pomeriggio (lunedì 15 marzo) a partire dalla ore 17 presso il Salone di rappresentanza della Provincia di Brindisi. L’iniziativa, fortemente voluta dal presidente della Provincia Massimo Ferrarese, cade a dieci anni dalla operazione “Primavera” che debellò il contrabbando in provincia di Brindisi, e si concluderà, proprio, con la consegna di un riconoscimento ai protagonisti dell’”Operazione Primavera”. 
Dopo i saluti e l’introduzione del Presidente Massimo Ferrarese, si terranno i saluti del sindaco di Brindisi Domenico Mennitti, del prefetto Domenico Cuttaia, del presidente del Tribunale di Brindisi Francesco Giardino. A seguire ci saranno gli interventi del procuratore della Repubblica di Brindisi Marco Di Napoli, del giornalista Giuseppe Giacovazzo, e le conclusioni di Enzo Bianco, membro della 
Commissione Affari Costituzionali. I lavori saranno moderati dal giornalista Vittorio Bruno Stamerra.
In conclusione la provincia di Brindisi premierà l'ex ministro dell'Interno Enzo Bianco per aver contribuito esattamente dieci anni fa, con l'operazione “Primavera”, a smantellare il contrabbando dal territorio. Il premio sarà consegnato “a nome di tutti i cittadini brindisini” dal presidente Massimo Ferrarese “per aver restituito a queste terre legalità e dignità perse per troppo tempo”.
L'ex ministro, oggi parlamentare nel corso del suo intervento racconterà l'esperienza di quel mese che cambiò la storia della provincia di Brindisi.
Enzo Bianco, figlio di un fasanese emigrato in Sicilia e con diversi parenti a Fasano, avvocato, esperto di finanza internazionale, è stato sindaco di Catania, deputato dell’assemblea regionale siciliana è presidente dell’Anci (l’Associazione nazionale comuni di Italia). Parlamentare da diverse legislature (attualmente milita nel Partito democratico), ha ricoperto la carica  la carica di ministro dell'Interno dal 22 dicembre 1999 all'11 giugno 2001 nei governi D'Alema II e Amato II. È stato presidente del Copaco (Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti) e Presidente della Commissione Affari Costituzionali.
Proprio da ministro dell’Interno diede il via alla operazione “Primavera” - nella primavera, appunto, del 2000 - che smantellò il contrabbando in tutta la provincia di Brindisi e che partì proprio da Fasano. Enzo Bianco il 9 febbraio 2008 ha ricevuto dal Comune di Fasano la cittadinanza onoraria.
MINISTRO BIANCO PREMIATO OGGI DALLA PROVINCIA DI BRINDISI

17 febbraio 2010

Il boss-imprenditore rivela: "Sono entrato a Palazzo Chigi"


Nel rapporto dei Ros allegato all'inchiesta fiorentina sugli appalti della Protezione civile
spuntano anche i nomi di Micciché e Dell'Utri. E viene fuori anche Tesauro




FIRENZE - Un imprenditore di Cosa Nostra che arriva a Palazzo Chigi. Un giudice, Giuseppe Tesauro, in società con un funzionario ministeriale e anche imprenditore legato al clan dei Casalesi. Un commercialista mafioso, Pietro Di Miceli, che fa da mediatore con la Provincia di Frosinone per procurare un appalto a Riccardo Fusi, presidente di Btp. Ecco lo scenario che emerge dal rapporto del Ros dei carabinieri allegato all'inchiesta fiorentina sui grandi appalti della Protezione civile.

Tutto o molto ruota intorno alla figura di Antonio Di Nardo - considerato vicino al clan dei casalesi - al quale si lega anche il personaggio più scomodo delle storie ricostruite dagli investigatori. Quello che in una telefonata sostiene di essere stato "alla presidenza del consiglio". Lui è Mario Fecarotta, imprenditore affiliato a Cosa Nostra e legato, in particolare, alla famiglia Riina, arrestato nel 2002 per mafia e per estorsione aggravata (una mazzetta da 500 milioni). I rapporti con Di Nardo diventano "espliciti" il 27 gennaio 2009. E' Fecarotta a chiamare: "Antonio carissimo... e allora domani a mezzogiorno e mezzo siamo lì al Ministero ok?". Il ministero è quello delle infrastrutture. Fecarotta: "va bè all'una... all'una ci vediamo.. ti aspettiamo lì fuori...". Non è chiaro, dai brogliacci, se i due si incontrano fuori o dentro il palazzo. Fecarotta e Di Nardo si risentono il 29 gennaio, a incontro avvenuto. E' qui che entra in ballo la Presidenza del Consiglio. Dice l'imprenditore mafioso: "... no è importante perché poi il 25 abbiamo ... fra il 10 e il 25 abbiamo questa cosa.. poi siamo stati pure da Gianfranco lì.. alla... Consiglio.. alla Presidenza del Consiglio e abbiamo due appuntamenti in Sicilia in questa settimana abbastanza importanti.. tu devi vedere con quell'amico tuo...". A quale Gianfranco si riferiscano non è specificato. Un voluminoso dossier giudiziario sulla nuova mafia corleonese contiene il virgolettato di una vecchia telefonata tra Fecarotta e l'allora viceministro dell'economia Gianfranco Micciché. E' l'11 giugno 2001. Fecarotta, socio di Giuseppe Salvatore Riina, figlio di Totò, chiama Micciché al cellulare chiedendogli di intercedere per l'apertura di un conto corrente bancario. 



C'è poi il nome di Giuseppe Tesauro, giudice costituzionale dal 2005 e presidente dell'Antitrust fino al 2004. Stando alle carte Tesauro risulta socio dal 2007 (nella Paese del Sole immobiliare) di Antonio Di Nardo, funzionario del Ministero delle infrastrutture e socio occulto del consorzio di costruttori "Stabile Novus". Nelle 20mila pagine del rapporto del Ros saltano fuori, questa volta esplicitamente, anche i nomi di Gianfranco Micciché e Marcello Dell'Utri. Citati sempre in riferimento a Riccardo Fusi. Il 5 maggio 2009 Elena David dell'UNA Hotel - una catena riconducibile a Riccardo Fusi - dice di aver ricevuto una richiesta di sconto per l'alloggio negli alberghi della catena da parte di Francesco Costanzo (definito "quello che organizza la roba per Dell'Utri e Micciché").

Ancora Fecarotta e Di Nardo. E' il 12 marzo 2009. "Vorrei portare una persona con me a Bruxelles, un interlocutore valido, solo che non ho potuto parlare con la persona che volevo portarmi con me.. Penso che ci parlerò lunedì", dice Di Nardo. Buscemi richiama Di Nardo per sapere se va a Bruxelles. "Sì, però richiamami domani". Secondo i carabinieri l'"interlocutore valido" destinatario dell'invito di Di Nardo sarebbe il provveditore alle opere pubbliche del Lazio Giovanni Guglielmi.
(ha collaborato Mario Neri)

03 febbraio 2010

PIANO ANTIMAFIA DEL GOVERNO: COME I DIECI COMANDAMENTI SONO DIVENTATI NOVE


A REGGIO CALABRIA, IL CONSIGLIO DEI MINISTRI STRAORDINARIO AVREBBE DOVUTO ANNUNCIARE I DIECI COMANDAMENTI: ALL’ULTIMO MINUTO SCOMPARE LA TAVOLETTA DEI SOLDI, GARANTITA DA MARONI… MA I FONDI SEQUESTRATI ALLA MAFIA NON SONO CERTI E TREMONTI LI FA CANCELLARE
A molti la cosa sarebbe passata inosservata, vista l’enfasi del momento: dopo gli attentati della ‘ndrangheta e la decisione del governo di tenere un Consiglio dei ministri nella blindatissima Reggio Calabria, la maggior parte dei notisti politici era intenta a promulgare ai quattro venti i “dieci comandamenti”, ovvero le dieci misure preannunciate da giorni da Maroni e da Alfano su come la “linea dura” governativa avrebbe affrontato e sconfitto la mafia calabrese.
Ma come ha rivelato il “Secolo XIX”, quotidiano indipendente genovese, alla fine si è assistito ad un “miracolo all’italiana”: i comandamenti sono rimasti nove e la tavoletta scomparsa, tanto per cambiare, è quella relativa ai soldi da stanziare per realizzare gli altri nove.
Da giorni il ministro degli Interni e quello della Giustizia avevano fatto sapere ai giornali che dalla riunione sarebbe uscito un piano articolato in dieci punti. Maroni aveva anticipato alla Padania, giornale della Lega, alcuni dei principali contenuti della summa teologica : il giorno prima del Consiglio dei ministri il quotidiano leghista è infatti uscito con un articolo titolato “Il decalogo per vincere la guerra”.
Nell’articolo si poteva leggere: “il Cdm sarà l’occasione per ripartire i fondi del Fondo unico per la giustizia”, alimentato dai beni sequestrati o confiscati alle mafie.
E infatti il giorno della riunione, ecco i principali quotidiani italiani e le Tv dare fiato alle trombe e parlare del decalogo contro i boss.  
Peccato che contemporaneamente l’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio facesse partire un comunicato in cui i “comandamenti” erano improvvisamente ridotti a nove.
A quel punto gli zelanti Tg, non potendo leggere il decimo, perchè non esisteva, si vedono notificare una postuma, tardiva tavoletta sostitutiva, approntata sul momento e molto vaga che parla di “un piano straordinario di vigilanza nei territori del meridione più sensibili ai problemi del lavoro irregolare in agricoltura ed edlizia”.
Dei soldi annunciati dalla Padania nemmeno l’ombra.
Che era successo?
Il ministro Tremonti (che è persona seria) non aveva gradito l’indicazione di una somma di denaro a sostegno del piano, per il semplice motivo che i fondi sequestrati alla mafia non sono sicuri, ma come tutte le operazioni di polizia preventiva (al contrario delle confische) possono anche poi dover tornare indietro.
E il buon Tremonti ha pregato Maroni di restituire la tavoletta indebitamente sottratta e annunciata, rivelando l’ennesimo bluff padanocentrico.
Ovviamente i media sotto controllo si sono ben guardati dal precisare la vicenda e chiedersi come mai i soldi fossero spariti.
Per non parlare di una opposizione che dorme.
Il governo ha incassato il consenso popolare su un provvedimento che non esiste.
Passata la festa, gabbato l’elettore…