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23 agosto 2011

Le radici dell’odio e della convivenza

Di Slavoj Žižek per l'Internazionale






Nell’autogiustificazione ideologica di Anders Behring Breivik e nelle reazioni ai suoi atti criminali ci sono cose che dovrebbero farci riflettere. Il manifesto di questo “cacciatore di marxisti” cristiano che in Norvegia ha ucciso più di 70 persone non è il vaneggiamento di un folle, è una lucida esposizione della “crisi europea” che (più o meno) implicitamente è alla radice del crescente movimento populista contro gli immigrati, e le sue stesse incoerenze sono sintomatiche delle contraddizioni interne di questo movimento.
La prima cosa che colpisce è come Breivik costruisce il suo nemico. Mescola tre elementi (marxismo, multiculturalismo e islamismo) che appartengono a spazi politici diversi: quello dell’estrema sinistra marxista, quello del liberalismo multiculturale e quello del fondamentalismo religioso islamico. È la vecchia abitudine fascista di attribuire al nemico caratteristiche che si escludono a vicenda (complotto bolscevico-plutocratico giudaico, estrema sinistra bolscevica, capitalismo plutocratico, identità etnico-religiosa) che ritorna in una nuova forma.
Ancora più indicativo è il modo in cui l’autodesignazione di Breivik mescola le carte dell’ideologia di estrema destra. Breivik si erige a paladino del cristianesimo ma è un agnostico laico: per lui il cristianesimo è solo un bastione culturale da contrapporre all’islam. È antifemminista e pensa che alle donne non dovrebbe essere consentito accedere all’istruzione superiore, ma è a favore di una società “laica” e non condanna né l’aborto né l’omosessualità. In questo il suo predecessore è Pim Fortuyn, il politico populista di destra olandese ucciso nel maggio del 2002, due settimane prima delle elezioni alle quali si prevedeva che avrebbe ottenuto il 20 per cento dei voti. Fortuyn era un personaggio paradossale e sintomatico. Un populista di destra le cui caratteristiche e perfino le cui idee erano quasi tutte “politicamente corrette”. Era gay, aveva un buon rapporto personale con molti immigrati, mostrava un senso innato dell’ironia, e via dicendo. In breve era un bravo liberale tollerante da tutti i punti di vista, tranne quello della sua posizione politica. Incarnava quindi l’intersezione tra il populismo di destra e la correttezza politica liberale Forse doveva morire proprio perché era la prova vivente del fatto che la contrapposizione tra populismo di destra e tolleranza liberale è falsa, che sono due facce della stessa medaglia.
Inoltre Breivik combina alcuni tratti del nazismo (anche nei dettagli, per esempio la sua simpatia per Saga, la cantante folk svedese filonazista) con l’odio per Hitler: uno dei suoi eroi è Max Manus, il leader della resistenza norvegese antinazista. E ultima cosa, ma non per questo meno importante, Breivik è apertamente razzista, ma filosemita e filoisraeliano, perché lo stato di Israele è la prima linea di difesa contro l’espansione musulmana. Vorrebbe perfino vedere riscostruito il tempio di Gerusalemme. Insomma, paradossalmente è un nazista razzista filosemita. Come è possibile?
Una spiegazione potremmo trovarla nelle reazioni della destra europea alla strage di cui si è reso responsabile. Il suo mantra è stato che, pur condannando i suoi atti delittuosi, non dobbiamo dimenticare che esprimono “una legittima preoccupazione per problemi reali”. La politica tradizionale non riesce a fermare il degrado dell’Europa causato dall’islamizzazione e dal multiculturalismo e quindi, per citare il Jerusalem Post, la tragedia di Oslo dovrebbe farci riflettere e “rivedere seriamente le politiche sull’integrazione degli immigrati in Norvegia e altrove”. (Editoriale del 24 luglio 2011).
Tra parentesi, sarebbe bello sentire una riflessione simile sul terrorismo palestinese, qualcosa come: “Questi atti di terrorismo dovrebbero farci riflettere e rivedere la politica israeliana”. Il riferimento a Israele, naturalmente, è implicito dato che secondo il suo governo un Israele “multiculturale” non ha alcuna possibilità di sopravvivere e l’apartheid è l’unica soluzione realistica. Il prezzo di questo perverso patto tra i sionisti e la destra è che, per giustificare la rivendicazione della Palestina, bisogna accettare retroattivamente la linea di ragionamento che nella storia europea passata veniva usata contro gli ebrei. L’accordo implicito è: “Siamo pronti ad accettare la vostra intolleranza alla presenza di altre culture al vostro interno se voi riconoscete il nostro diritto a non tollerare quella dei palestinesi al nostro interno”.
La tragica ironia di questo accordo implicito è che, nella storia europea degli ultimi secoli, gli stessi ebrei sono stati i primi “multiculturalisti”. Il loro problema era come preservare la loro cultura in paesi dove ne predominava un’altra. (Tra parentesi, sarebbe opportuno ricordare che, negli anni trenta, in risposta all’antisemitismo nazista, Ernest Jones, il principale responsabile dell’imborghesimento conformista della psicoanalisi, faceva strane riflessioni sulla percentuale di stranieri che uno stato nazionale è in grado di sopportare al suo interno senza rischiare di perdere la propria identità, giustificando quindi la posizione nazista).
L’Europa dell’esclusione
E se stessimo veramente entrando in una nuova era nella quale questo tipo di ragionamento finirà per imporsi? E se l’Europa dovesse accettare il paradosso che la sua apertura democratica si basa sull’esclusione? “Non c’è libertà per i nemici della libertà”, come diceva Robespierre. In linea di principio, questo naturalmente è vero, ma poi bisogna entrare nello specifico. In un certo senso Breivik ha scelto bene il suo bersaglio: non ha attaccato gli stranieri, ma quelli della sua comunità che erano troppo tolleranti nei confronti degli intrusi. Il problema non sono loro, è la nostra identità (europea).
Sebbene l’attuale crisi dell’Unione europea sembri solo di tipo economico e finanziario, nella sua dimensione fondamentale è una crisi politico-ideologica: il fallimento dei referendum sulla costituzione europea di un paio di anni fa è stato un chiaro segnale del fatto che gli elettori la percepivano come un’unione economica “tecnocratica”, senza alcuna visione che potesse coinvolgere le popolazioni. Fino alle recenti proteste, l’unica ideologia capace di mobilitarle è stata la difesa contro gli immigrati.
Gli episodi di omofobia che si sono verificati nei paesi ex comunisti dell’Europa dell’est dovrebbero farci riflettere. All’inizio del 2011, a Istanbul c’è stata una parata gay in cui migliaia di persone hanno sfilato pacificamente, senza alcuna violenza né incidenti. Durante manifestazioni simili che si sono svolte in Serbia e in Croazia (a Belgrado e a Spalato), la polizia non è riuscita a proteggere i partecipanti, che sono stati ferocemente attaccati da migliaia di fondamentalisti cristiani. Questi fondamentalisti, e non i turchi, costituiscono la vera minaccia per l’Europa, quindi quando l’Unione ha praticamente bloccato l’ingresso della Turchia, avremmo dovuto sollevare una questione ovvia: perché non applicare le stesse regole all’Europa orientale? (Per non parlare del fatto abbastanza curioso che la forza principale che si nasconde dietro il movimento antigay in Croazia è la chiesa cattolica, nonostante i tanti scandali sui preti pedofili).
Gli antisemiti filoisraeliani
È importante collocare l’antisemitismo in questo quadro, come una delle tante forme di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. Per giustificare la sua politica sionista, lo stato di Israele sta commettendo un errore madornale: ha deciso di minimizzare, se non di ignorare del tutto, il cosiddetto “vecchio” antisemitismo (tradizionale europeo), concentrandosi piuttosto sul “nuovo”, presunto antisemitismo “progressista” mascherato da critica della politica sionista dello stato di Israele. Seguendo questa linea, qualche tempo fa Bernard Henri-Levy ha sostenuto (nel suo saggio La gauche en temps de crise) che l’antisemitismo del ventunesimo secolo sarà “progressista” o non esisterà. Portata alle sue estreme conseguenze, questa tesi ci costringe a ribaltare la vecchia interpretazione marxista dell’antisemitismo come una forma distorta di anticapitalismo (invece di dare la colpa al sistema capitalistico, la rabbia si concentra su un gruppo specifico accusandolo di corrompere il sistema): per Henri-Levy e quelli che la pensano come lui, l’anticapitalismo di oggi è una forma mascherata di antisemitismo.
Il divieto inespresso ma non per questo meno efficace di attaccarlo è emerso proprio nel momento in cui quel “vecchio” antisemitismo sta rinascendo in tutta l’Europa e in particolare negli ex paesi comunisti dell’est. Possiamo osservare questa strana alleanza anche negli Stati Uniti: come fanno i fondamentalisti cristiani americani, che sono per loro stessa natura antisemiti, ad appoggiare così entusiasticamente la politica espansionista dello stato di Israele? C’è una sola risposta a questa domanda: non è che i fondamentalisti cristiani siano cambiati, è che il sionismo stesso, con il suo odio per gli ebrei che non si identificano completamente con la politica israeliana, paradossalmente è diventato antisemita, vale a dire ha creato la figura dell’ebreo nemico della sua razza perché dubita del progetto sionista. Il gioco di Israele è pericoloso. Fox News, la principale voce dell’estrema destra americana e grande sostenitrice dell’espansionismo israeliano, qualche tempo fa ha dovuto rimuovere dalle sue funzioni Glen Beck, il suo conduttore più popolare, perché i suoi commenti stavano diventando apertamente antisemiti.
L’argomento standard dei sionisti nei confronti dei critici di Gerusalemme è che, naturalmente, come tutti gli altri stati, Israele può e deve essere giudicato e anche criticato, ma chi lo fa usa le giuste critiche alle sue politiche a scopi antisemitici. Quando i fondamentalisti cristiani che sostengono la politica israeliana respingono le critiche a quella politica, la loro linea di ragionamento è ben espressa da una vignetta pubblicata nel luglio del 2008 sul quotidiano viennese Die Presse dove si vedono due robusti viennesi con l’aria da nazisti. Uno di loro tiene in mano un giornale e commenta con il suo amico: “Qui si vede chiaramente come un antisemitismo assolutamente giustificato viene usato per criticare ingiustamente Israele!”. Questi sono oggi gli alleati di Israele. Come siamo arrivati a questo punto?
Un secolo fa, Gilbert Keith Chesterton denunciò chiaramente il difetto fondamentale dei critici della religione: “Uomini che cominciano combattendo la chiesa per amore della libertà e dell’umanità finiscono per rinunciare alla libertà e all’umanità pur di poter combattere la chiesa… I laici non hanno distrutto la spiritualità, ma la laicità, se questo può essere loro di qualche conforto”. Non potremmo dire la stessa cosa dei paladini della religione? Quanti fanatici difensori della fede hanno cominciato attaccando ferocemente la cultura laica contemporanea e poi hanno finito per rinunciare a qualsiasi esperienza religiosa significativa? Allo stesso modo, molti guerrieri del liberalismo sono così ansiosi di combattere il fondamentalismo antidemocratico da finire per rinunciare alla libertà e alla democrazia pur di sconfiggere il terrorismo. Se i “terroristi” sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell’altro mondo, i nostri guerrieri sono pronti a distruggere la loro democrazia in nome dell’odio per l’altro musulmano.
Alcuni di loro hanno tanto rispetto per la dignità umana da essere pronti a legalizzare la tortura – la massima degradazione della dignità umana – pur di difenderla. E non potremmo dire la stessa cosa della recente insurrezione dei difensori dell’Europa contro la minaccia degli immigrati? Nella furia di difendere le sue radici giudaico-cristiane, i nuovi zeloti sono pronti a rinunciare all’essenza stessa della cristianità. La vera minaccia per le radici del continente sono le persone come Breivik, il sedicente difensore dell’Europa che ha ucciso “per amor suo”. Con amici così, il nostro continente non ha bisogno di nemici. Se Breivik l’amasse veramente, avrebbe seguito il consiglio di suo padre e si sarebbe suicidato.
L’Altro decaffeinato
La recente ondata di risentimento nei confronti degli immigrati va letta sullo sfondo di una riorganizzazione a lungo termine dello spazio politico nell’Europa occidentale e orientale. Fino a poco tempo fa, lo spazio politico dei paesi europei era dominato da due partiti principali che coprivano quasi tutto l’elettorato, un partito di centrodestra (democristiano, liberal-conservatore, popolare…) e uno di centrosinistra (socialista, socialdemocratico…) con l’aggiunta di piccoli partiti che si rivolgevano a un elettorato più ristretto (ecologisti, comunisti, e così via). Sia a est che a ovest, gli ultimi risultati elettorali hanno evidenziato il graduale emergere di una polarità diversa.
C’è un partito centrista predominante che rappresenta il capitalismo globale, di solito con un programma culturale liberale (tolleranza nei confronti dell’aborto, dei diritti dei gay, delle minoranze etniche e religiose, e così via). A contrastarlo c’è un partito populista antimmigrazione sempre più forte le cui frange estreme sono apertamente razziste e neofasciste. Un caso esemplare lo vediamo in Polonia: dopo la scomparsa degli ex comunisti, i partiti principali sono quello centrista liberale “anti-ideologico” del primo ministro Donald Dusk e il partito cristiano conservatore dei fratelli Kaczynski. Tendenze simili le troviamo anche nei Paesi Bassi, in Norvegia, Svezia e Ungheria. Per la terza e ultima volta, come siamo arrivati a questo punto?
Dopo il crollo dei regimi comunisti del 1990, siamo entrati in una nuova era nella quale la forma predominante di esercizio del potere statale è diventata l’amministrazione esperta depoliticizzata e il coordinamento degli interessi. L’unico modo per introdurre un po’ di passione in questo campo, per mobilitare i cittadini, è la paura: la paura degli immigrati, della criminalità, della depravazione sessuale dei senza dio, di un’eccessiva interferenza dello stato (che si esprime con il controllo e l’aumento delle tasse), la paura della catastrofe ecologica, ma anche delle vessazioni (la correttezza politica è la forma esemplare della strategia della paura).
Questo tipo di politica fa sempre affidamento sulla manipolazione di folle spaventate e paranoiche, quelle che i greci chiamavanoochlos. Di conseguenza, l’evento politico più importante dei primi dieci anni del nuovo millennio è stato l’ingresso dei movimenti antimmigrazione nell’area dei partiti convenzionali, dopo aver finalmente tagliato il cordone ombelicale con quelli di estrema destra ai quali prima erano legati. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, nel nuovo spirito dell’orgoglio per la propria identità storica e culturale, adesso i partiti trovano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti che devono adattarsi ai valori culturali della società che li accoglie. “Questo è il nostro paese, prendere o lasciare”.
I progressisti, naturalmente, sono inorriditi da questo razzismo populista. Ma a guardare meglio scopriamo che il loro multiculturalismo tollerante e il loro rispetto per le differenze (etniche, religiose, sessuali) condivide con i movimenti antimmigrazione la necessità di tenere i diversi a debita distanza. Rispetto gli altri, ma loro non devono intromettersi troppo nel mio spazio. Nel momento in cui lo fanno, mi danno fastidio – con il loro odore, la loro lingua, i loro modi volgari, la loro musica, la loro cucina… Difendo i diritti dei neri, ma non sono disposto a sentire la loro musica rap a tutto volume. Sul mercato di oggi, troviamo tutta una serie di prodotti privi delle loro proprietà potenzialmente dannose: il caffè senza caffeina, la panna senza grassi, la birra senza alcol… E l’elenco potrebbe continuare: c’è anche il sesso virtuale senza sesso, la dottrina della guerra senza vittime (nostre, naturalmente) di Colin Powell, in pratica una guerra senza guerra, le ridefinizione contemporanea della politica come arte dell’amministrazione competente, cioè come politica senza politica, fino al liberalismo multiculturale tollerante come esperienza dell’Altro senza la sua Alterità. Vogliamo vedere un Altro decaffeinato che danza in modo affascinante e ha un rapporto olistico ed ecologico con la realtà, e ignorare che a casa picchia la moglie.
Il meccanismo di questa neutralizzazione è stato ben espresso nel 1938 da Robert Brasillach, l’intellettuale fascista francese giustiziato nel 1945, che si considerava un antisemita “moderato” e aveva inventato la formula dell’antisemitismo ragionevole. “Ci concediamo di applaudire i film di Charlie Chaplin, che è mezzo ebreo; di ammirare Proust, anche lui per metà ebreo; di osannare il violinista ebreo Yehudi Menuhin; e alla radio sentiamo la voce di Hitler grazie all’invenzione di un altro ebreo, Heinrich Hertz… Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per evitare i comportamenti antisemiti istintivi che sono sempre imprevedibili sia incoraggiare un antisemitismo ragionevole”. Non è forse l’atteggiamento che hanno oggi i nostri governi nei confronti della “minaccia dell’immigrazione”?
Dopo aver giustamente respinto il razzismo populista “irragionevole” e inaccettabile per i nostri standard democratici, avallano misure di protezione “ragionevolmente” razziste o, come ci dicono i Brasillach di oggi, alcuni dei quali sono addirittura socialdemocratici: “Ci concediamo di applaudire gli sportivi africani o dell’est europeo, i medici asiatici, i programmatori di software indiani. Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per evitare i comportamenti violenti contro gli immigrati che sono sempre imprevedibili sia introdurre misure di protezione ragionevoli”.
Questa disintossicazione del Prossimo è un chiaro passaggio dalla barbarie pura e semplice alla barbarie dal volto umano. È un ritorno indietro dall’amore cristiano per il prossimo al paganesimo della tribù (greci, romani…) che difende i propri privilegi rispetto ai barbari. Anche se mascherata da difesa dei valori cristiani, costituisce la più grande minaccia per l’identità cristiana.
Razzismo e multiculturalismo
Ma è necessario fare anche un altro passaggio: la critica del razzismo contro gli immigrati dovrebbe diventare un’autocritica e ammettere la complicità della forma predominante di multiculturalismo con quello che condanna. I critici di questa ondata di sentimenti contro gli immigrati di solito si limitano a celebrare l’infinito rituale di confessare i peccati dell’Europa, ad accettare umilmente i limiti della sua identità e ad esaltare la ricchezza di altre culture. I famosi versi di William Butler Yeats nella poesia Il secondo avvento, sembrano rendere perfettamente la situazione di oggi: “I migliori hanno perso ogni convinzione, e i peggiori si gonfiano d’ardore appassionato”. È un’ottima descrizione dell’attuale divisione tra liberali anemici e fondamentalisti appassionati, sia musulmani che cristiani. “I migliori” non sono più capaci di impegnarsi fino in fondo, mentre “i peggiori” sono impegnati nel loro fanatismo razzista, religioso e sessista. Come uscire da questo impasse?
Invece di recitare la parte delle anime belle che si lamentano di questa nuova Europa razzista che sta emergendo, dovremmo guardarci allo specchio e chiederci in che misura il nostro multiculturalismo astratto ha contribuito a creare questo triste stato di cose. Se tutte le parti non condividono e rispettano la stessa civiltà, il multiculturalismo diventa ignoranza reciproca regolata dalla legge, se non addirittura odio. Il conflitto sul multiculturalismo è un conflitto sulla Leitkultur: non tra culture ma tra visioni diverse di come le varie culture possono e dovrebbero coesistere, sulle regole e le pratiche che queste culture devono condividere se vogliono convivere.
Quindi dovremmo evitare di lasciarci prendere dal gioco di “quanta tolleranza possiamo permetterci”. Dobbiamo tollerare che non mandino a scuola i loro figli, che costringano le loro donne a vestirsi e comportarsi in un certo modo, che combinino i matrimoni, che brutalizzino i loro gay. A questo livello, naturalmente, non siamo mai abbastanza tolleranti, o lo siamo troppo, dimenticando i diritti delle donne, e così via. L’unico modo per uscire da questo impasse è proporre e lottare per la realizzazione di un progetto positivo condiviso da tutti. I terreni di lotta nei quali “non esistono né uomini né donne, né ebrei né greci” sono molti, dall’ecologia all’economia.
Nei suoi ultimi anni di vita, Sigmund Freud aveva cominciato a chiedersi: che cosa vuole una donna? Oggi la domanda che dovremmo porci è: che cosa vuole l’Europa? Per lo più si comporta come regolatrice dello sviluppo del capitalismo globale e a volte flirta con la difesa delle sue tradizioni. Entrambe queste strade portano all’oblio, alla sua emarginazione. L’unico modo che ha per uscire da questo debilitante impasse è recuperare la sua tradizione di emancipazione radicale e universale. Deve andare oltre la semplice tolleranza degli altri per arrivare a unaLeitkultur positiva dell’emancipazione che può solo sostenere l’autentica coesistenza e la fusione delle diverse culture, e impegnarsi nella prossima battaglia per questa Leitkultur. Non solo rispettare gli altri, ma offrire loro una battaglia comune, dato che oggi i nostri problemi sono comuni.
Traduzione di Bruna Tortorella

22 gennaio 2010

Il buddhismo razzista e xebofobo e i diritti dimenticati degli Hmong


Di Stefano Vecchia per Tempi.it

È calato il silenzio sul campo profughi di Huay Nam Khao e sulle colline della “Svizzera della Thailandia” ora si parla solo thai. L’area che ospitava i Hmong laotiani è stata isolata il 28 dicembre da 5.000 soldati e poliziotti, gli abitanti deportati in Laos e le capanne rase al suolo. I media confinati a chilometri di distanza. Il giorno dopo, i 4.300 profughi, quasi tutti anziani, donne e bambini, erano già oltre un confine per loro proibito dopo la fuga di mesi o anche anni prima e sono scomparsi agli occhi della comunità internazionale. Un fatto drammatico passato sotto silenzio nel mondo. Un evento, tuttavia, che, come sottolineato dalle organizzazioni umanitarie, non solo ha messo a repentaglio la vita di persone inermi, ma pone un preoccupante precedente di rimpatrio “legale” verso un paese conosciuto per il suo atteggiamento persecutorio. Poche le reazioni in Thailandia. Per un’opinione pubblica anestetizzata da proclami nazionalisti e da troppe divise in mostra ovunque, distratta dalla povertà crescente e dalla fuga degli investitori, Europa e America sono sempre più lontane, la crisi troppo vicina e le sue ragioni in parte troppo evidenti e radicate per reagire.
Perché, poi? Il buddhismo che rappresenta in Asia una grande forza libertaria e coesiva, in troppi casi diventa supporto a pretese nazionaliste e xenofobe. I Hmong sono sei-otto milioni, divisi in numerosi paesi, in Cina la maggioranza. Religiosamente sono in parte buddhisti e in parte animisti, con una forte componente cristiana, evidente in particolare tra i Hmong vietnamiti: 150 mila battezzati su 800 mila. Sono circa 450 mila i Hmong in Laos (la quarta maggiore etnia sulle 47 censite). Ovunque sono fortemente controllati e sovente perseguitati. La loro “colpa” risiede nella diversità etnica e religiosa, ma anche nell’aver preso le parti degli americani nel conflitto indocinese. In cambio di promesse di autonomia e benessere hanno condotto la guerra a modo loro, nella foresta, senza concedere tregua e senza aspettarsela, con oltre 50 mila caduti. Alla fine si ritrovarono ad affrontare da soli i comunisti vittoriosi del Pathet Lao. Mentre Van Pao, generale dell’esercito reale e a capo delle operazioni di “guerra segreta” coordinata in Laos dalla Cia, fuggiva negli Usa con alcune migliaia di combattenti, oltre 300 mila Hmong cercarono rifugio in Thailandia e da qui in paesi terzi.
Altri tempi, altre necessità, forse anche una diversa cultura dell’accoglienza, più efficace anche la pressione internazionale. Difficile dimenticare le sofferenze inflitte dai pirati thailandesi ai boat-people vietnamiti e cambogiani, ma da riconoscere che l’ospitalità offerta da Bangkok ha salvato migliaia di vite e garantito ai sopravvissuti un rifugio in attesa dell’espatrio definitivo. In Thailandia, l’ultimo campo ufficiale era stato chiuso nel 2005 e gli ultimi 15 mila ospiti ricollocati negli Stati Uniti. Tuttavia le condizioni nel paese d’origine hanno spinto negli ultimi anni altre migliaia di disperati ad attraversare il confine, finendo per essere catturati e inviati a Huay Nam Khao, nella provincia centrosettentrionale di Petchabun dove, negli ultimi tempi, la loro situazione è andata peggiorando. Da oltre un anno vivevano in attesa di conoscere i tempi del rimpatrio, il loro destino già segnato. A maggio 2007 la Thailandia aveva sospeso le verifiche dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) che stabilivano o meno lo stato di rifugiato politico, facendo di tutti i nuovi arrivati degli illegali, un “problema senza fine” nelle parole dell’allora premier, il generale Surayudh Chulanont. Precluso l’accesso dei campi alle organizzazioni umanitarie. Medici senza Frontiere – unica approvata – si era ritirata qualche mese fa per protesta contro le richieste delle autorità, che permettevano l’ingresso di generi alimentari, ma imponevano il silenzio totale sulle condizioni nel campo e sulla causa dei profughi. In compenso – ha tranquillizzato Bangkok – secondo gli accordi, il Laos aprirà all’Acnur i centri d’accoglienza (ufficialmente indicati dal governo di Vientiane come “centri di rieducazione”). Una possibilità finora mai realizzatasi per precedenti gruppi di rimpatriati.
Un altro elemento: nel caso dei Hmong, Bangkok giustifica il rimpatrio con lo status (da essa concesso) di immigrato per ragioni economiche e non riconosce le ragioni umanitarie, richieste con forza da molti paesi. “La legge è legge”, dicono. Peccato che lo stesso ragionamento non valga per centinaia di migliaia di birmani illegali che nell’antico Siam sono manovalanza necessaria e a basso costo, ma anche valvola di sfogo dalle tensioni per il regime birmano che ha nella Thailandia un partner privilegiato. La cacciata nel mare infestato dagli squali di centinaia di birmani di fede musulmana e di etnia Rohingya in fuga dalla miseria dei campi del musulmano Bangladesh verso le musulmane Malaysia e Indonesia lo scorso anno aveva costretto persino il governo a riconoscere di non avere alcuna presa sui militari che non solo gestiscono la vita economica del paese, ma anche la sua “sicurezza”.

Porte chiuse anche negli Usa
A chiudere definitivamente le porte alle speranze dei Hmong, l’atteggiamento internazionale. Bangkok sostiene che, nonostante le sue pressioni, le barriere poste da Washington all’accoglienza di nuovi rifugiati sono rimaste alzate. Indubbiamente, le leggi anti-terrorismo in atto negli Usa successivamente all’11 settembre 2001, hanno complicato la situazione. Dopo un aspro braccio di ferro tra l’amministrazione Clinton, fautrice del rimpatrio dei profughi sotto garanzie del governo laotiano e i repubblicani che spingevano per l’accoglienza incondizionata, alla fine degli anni Novanta tutti i restanti Hmong nei campi in Thailandia avevano ottenuto il permesso di entrare negli Usa. Le comunità Hmong in California, Minnesota e Winsconsin – sfondo al recente film diretto e interpretato da Clint Eastwood Gran Torino – sono in pratica raddoppiate in un decennio. Garantita la loro sicurezza, le statistiche segnalano che i 200 mila Hmong naturalizzati Usa vivono al 40 per cento sotto la soglia della povertà e che solo il 60 per cento dei giovani termina il ciclo delle superiori. «Per troppo tempo il popolo Hmong ha dovuto confrontarsi con aspetti negativi delle leggi anti-terrorismo Usa – diceva qualche tempo fa il senatore Norm Coleman del Comitato per i rapporti con l’estero del Senato statunitense. Certamente i rifugiati Hmong meritano di meglio». Certamente, ma oggi, chiuse le porte dell’accoglienza in Thailandia, ai Hmong laotiani non restano vie d’uscite. Al punto che il vecchio Van Pao, attraverso intermediari aveva cercato un accordo per potere tornare in Laos il 10 gennaio e consegnarsi alle autorità in cambio dell’avvio di colloqui di pace tra il governo e la sua etnia. Ha dovuto desistere davanti alla pretesa che, se dialogo vi deve essere, deve passare attraverso la preventiva applicazione della pena capitale che pesa sulla sua testa. 

06 gennaio 2010

Sartori. Il pedigree di un vecchio professorone.


dal blog Salam(e)lik


Giovanni Sartori, l'ultimo (si fa per dire) dei Vecchi Saggi regolarmente rispolverati dal Corriere per scrivere fregnacce sull'Islam, si è un po' risentito per essere stato ridicolizzato da una caterva di studiosi ed esperti molto più competenti di lui in materia. Al suo editoriale (sic) sull'"integrabilità degli islamici" hanno risposto infatti un po' tutti, in rete e non, e il bilancio era decisamente negativo per il vecchio professorone: non ne ha azzeccata neanche una, poveraccio.Marco Restelli, indianista e Lorenzo Declich, islamologo, gli hanno fatto letteralmente le pulci sui rispettivi blog, in particolare sui fatti storici da lui indicati come fondamenta del proprio ragionamento. Anche un brillante studente in relazioni internazionali, "nato in India, acculturato in Italia e soggiornante con cedolino" (come scrive lui), lo ha sbugiardato.

Sul Corriere, invece, Tito Boeri lo ha smentito sull'attualità, ricordandogli che "Il 77 per cento dei maghrebini di seconda generazione immigrati in Francia ha sposato una persona di cittadinanza francese" e che milioni di turchi vivono in Germania senza creare problemi. Purtroppo, Boeri ha replicato a Sartori secondo le modalità da me stigmatizzate a caldo quando scrissi: "Il guaio, in questo paese, è che quando questi espertoni "sbroccano" - perché di questo si tratta - nessuno osa gridare "l'espertone è sbroccato". Diventa tutta una gara a chi risponderà il "più pacatamente" possibile alle panzane propinate, col risultato che non si riesce mai a qualificarle per quello che effettivamente sono". Boeri non ha messo in luce gli strafalcioni del Sartori e non li ha argomentati. Si è solo limitato a porre domande generali, seppur di buon senso, lasciando al Sartori il compito di citare - a vanvera e persino sbagliando di nuovo - opere ed autori. Il che ha permesso a Sartori di fare la figura del dotto accademico e a Boeri quella del "«pensabenista», un ripetitore rituale del politicamente corretto, che perciò sa già tutto", come lo ha apostrofato Sartori stesso.

Questo tipo di risposta, con personaggi come Sartori, abituati a gridare slogan e a fare i capi-popolo, normalmente non funziona. Boeri è stato infatti ferocemente attaccato dal Sartori, che replica:"Il mio pedigree di studioso è in ordine. È quello del mio assaltatore che non lo è", "Se Boeri, che è professore di Economia del lavoro alla Bocconi e autorevole collaboratore di Repubblica, non è in grado di capire quel che scrivo, e dimostra di non sapere nulla del tema nel quale si spericola, figurarsi gli altri, figurarsi i politici." Quindi Sartori si arrampica sugli specchi, e si trincera dietro le scienze sociali per evitare di riflettere sulle "moltissime variabili che sono in gioco, ai loro molteplici contesti, e pertanto alla straordinaria complessità del problema. D’accordo. Ma nelle scienze sociali lo studioso deve procedere diversamente, deve isolare la variabile a più alto potere esplicativo, che spiega più delle altre. Nel nostro caso la variabile islamica (il suo monoteismo teocratico) risulta essere la più potente".

Ma pensa te...Ma uno studioso "con pedigree" non dovrebbe studiare appunto le variabili e rendere manifesta ai profani la complessità dei problemi che tratta? Oppure si deve limitare a cavalcare la vox populi e accontentare i lettori de La Padania? Che brutto modo di buttare alle ortiche un'onorata carriera accademica...Come ha giustamente scritto sul MessaggeroCorrado Giustiniani: "Stiamo freschi se anche le intelligenze più lucide di questo paese perdono improvvisamente la brocca e, invece di proporre soluzioni, preferiscono sparare giudizi di pancia e diffondere veleni ai quattro venti". Il problema è che io dubito fortemente che Sartori, nato nell'anno in cui è stato esiliato l'ultimo Sultano di Istanbul, sia lucido. Cosa dire della chiusa della sua replica, per esempio? "Alla sua intensità massima (L'Islam monoteista, ndr) produce l’uomo-bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto)". Ma Kamikaze non era un termine giapponese, caro studioso dall'impeccabile pedigree?

Il problema, però, non è Sartori, la sua arroganza e la sua isteria di vecchio professorone. Il problema è che uno come Sartori si è ben guardato dal rispondere agli studiosi di orientalistica che hanno scoperto errori ed orrori persino nella sua replica, a partire dai titoli e dagli autori dei saggi da lui citati. Questo dovrebbe far riflettere sulla condizione in cui sono costretti fior fior di orientalisti e islamologhi italiani. Studi, lauree, dottorati e specializzazioni in materia e alla fine chi chiamano a parlare di"cose islamiche" sul più importante quotidiano del paese? Un politologo, un professore di economia del lavoro, una romanziera latitante, un Magdi Allam...Che tristezza. Cari orientalisti, sveglia. Avete perso quasi dieci anni di tempo, da quando l'Islam è diventato di moda, nel 2001. Quanto tempo avete ancora intenzione di perdere prima di occupare il posto che vi spetta in questo paese?



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