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24 gennaio 2013

DITTATURA DEL PROLETARIATO E SOCIALISMO: NON SOLO TEORIA



di
Norberto Fragiacomo


In questo scritto tratteremo – ovviamente senza nessuna pretesa di completezza – una questione in apparenza astratta e teorica, che però, come si proverà a dimostrare, ha avuto una notevolissima ricaduta pratica sulla storia del ‘900: ci riferiamo al passaggio da una società caratterizzata dal modo di produzione capitalistico al comunismo.
Nel Capitale, a conclusione del Libro primo, Karl Marx descrive piuttosto sinteticamente l’agonia del sistema capitalista, ma si assenta prima che sopravvenga il decesso, e rinuncia a formulare ipotesi sul dopo. Ci dice soltanto – semplifico all’eccesso – che, ad un certo punto, l’irreversibile caduta del tasso di profitto condurrà all’accentramento del capitale in pochissime mani (mani non più impegnate, nemmeno indirettamente, nella produzione) e ad una proletarizzazione di massa dei ceti intermedi. La crème del capitalismo, ormai ridotta a un pugno di rentiers, avrà esaurito la propria funzione storica e vivrà la sua vecchiaia letteralmente alle spalle dei lavoratori, senza svolgere altro ruolo che quello del parassita. Si appaleserà, con abbacinante chiarezza, il contrasto insanabile tra il sistema capitalistico e la necessità per le forze produttive di espandersi ulteriormente: i resti di quella che si era presentata come una classe sommamente rivoluzionaria (la borghesia) si riveleranno un freno a progresso e sviluppo, demandati a lavoratori salariati ormai pienamente autosufficienti. Toccherà a questi ultimi, presa coscienza dei nuovi rapporti di forza, scrollarsi di dosso il pesante fardello: finalmente “gli espropriatori saranno espropriati”.
Sul come l’espropriazione debba avvenire[1] e sugli assetti del mondo futuro il Marx del Capitale non si sbilancia, pur lasciandoci intuire che il modello sarà l’autorganizzazione dei ceti produttivi. La seconda tematica viene schematicamente affrontata in un opuscolo polemico del 1875, occasionato dalla pubblicazione del programma del partito operaio tedesco – un programma che dispiacque al padre del socialismo scientifico per la sua indeterminatezza e la persistenza di echi lassalliani[2]. Nella Critica al programma di Gotha Karl Marx getta un fuggevole sguardo sul domani, distinguendo tra una prima fase, “inferiore”, del socialismo/comunismo (per il filosofo di Treviri i due termini sono sinonimi!) ed una seconda fase, quella del socialismo compiuto. Diamogli senza indugio la parola[3]: “quella con cui abbiamo da far qui è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come sorge[4] dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita, Perciò il produttore singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che dà. (…) Questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. (…) Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro diseguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri. (…) Ma questi inconvenienti sono inevitabili nellaprima fase della società comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto della società capitalistica.”Successivamente (dopo dieci anni? dopo un secolo? M. non è un indovino, e quindi non ce lo dice), “in una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro (…) è diventato il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo (…) sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, - solo allora l’angusto orizzonte borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ciascuno secondo i suoi bisogni!”
Quello appena citato è uno dei passi marxiani più noti e suggestivi (l’uomo di Treviri era, fra le varie cose, uno scrittore di straordinario talento), che va letto in unum con alcune frasi contenute nella quarta parte dell’operetta[5]. Al pari degli anarchici, Marx e i suoi seguaci ritengono inevitabile l’estinzione dello Stato, strumento di dominio borghese, ma – in contrapposizione a Bakunin – affermano che, prima di sparire, lo Stato ha un ultimo compito da portare a termine: “tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Ma il programma(di Gotha) non si occupa né di quest’ultima né del futuro Stato della società comunista.
Interpretando sistematicamente le parole dell’autore, giungiamo alla conclusione che le due fasi postrivoluzionarie sono, in verità, tre: il periodo transitorio della dittatura proletaria, il comunismo imperfetto – perché inquinato da residui borghesi – e quello realizzato. La domanda da porci è la seguente: quand’è, precisamente, che lo Stato scompare? L’ultima proposizione marxiana sembra intorbidare le acque, suggerendo una sopravvivenza dello Stato almeno fino al termine della fase c.d. inferiore. Un testimone d’eccezione, Friedrich Engels[6], ci convince del contrario: “Con l'instaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé e scompare. Non essendo lo Stato altro che un'istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici, parlare di uno "Stato popolare libero" è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse dello schiacciamento dei suoi avversari, equando diventa possibile parlare di libertàallora lo Stato come tale cessa di esistere. Noi proporremmo quindi di mettere ovunque invece della parola "Stato," la parola "Comune," una vecchia eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese Commune.
Ecco spiegato l’arcano: lo Stato condannato all’estinzione dopo lo “schiacciamento degli avversari” del proletariato e il venir meno della divisione in classi è quello politico, cui la borghesia assegna compiti di repressione; la Res publica comunista (definita, per l’appunto, Comune) ha la funzione, radicalmente diversa, di favorire l’autogoverno dei cittadini ed il pieno godimento della libertà da parte di ognuno, in una società pacificata ed omogenea[7]. La confusione è dunque meramente terminologica, non concettuale.
Per quanto si protrarrà il periodo intermedio? Marx ed Engels non possono saperlo: per tutto il tempo necessario a completare l’opera di abbattimento del regime borghese, ripetono laconicamente. Possiamo arguire che si tratterà di una fase piuttosto rapida dal fatto che la rivoluzione/trasformazione non è un evento accidentale, un incendio che scoppia per puro caso, bensì il punto d’arrivo di un lungo processo storico: la scintilla è destinata a scoccare non prima che la struttura economica della società, già collettivistica, entri in aperta contraddizione con la sovrastruttura borghese. Ai rivoluzionari non resterà che arare il campo, dopo averlo liberato dalle erbacce.
Gli spunti presenti nella Critica del programma di Gotha verranno sviluppati, quasi mezzo secolo dopo, dal più geniale e “pratico” tra i continuatori di Marx: Vladimir Lenin. Il grande marxista russo dedicherà al tema dello Stato rivoluzionario una trattazione organica nell’opera Stato e Rivoluzione (1917), scritta nei mesi immediatamente precedenti alla conquista del potere, in Russia, da parte dei bolscevichi, ed anche negli anni successivi tornerà svariate volte sull’argomento. Saranno proprio l’esperienza acquisita sul campo, nei panni di leader rivoluzionario, e la necessità di confrontarsi con una realtà complessa e quasi indecifrabile a determinare talune oscillazioni nel pensiero leniniano, un certo distacco dagli ammaestramenti del fondatore del marxismo e, soprattutto, dai suoi epigoni occidentali (Kautsky in primis).
Nella sezione V del saggio appena menzionato, Lenin parafrasa quanto detto da Marx a proposito della prima fase della società comunista, ricorrendo volentieri a citazioni, ma inserisce pure qualche elemento di novità, differenziando il “socialismo” della prima fase dal “comunismo” della seconda e precisando che, nella società socialista, “lo Stato non si è ancora estinto completamente, poiché rimane la salvaguardia del "diritto borghese" che consacra la disuguaglianza di fatto. Perché lo Stato si estingua completamente occorre il comunismo integrale.[8]
Questa lettura del testo del ’75 si discosta notevolmente da quella che abbiamo proposto poc’anzi, ed implica uno strettissimo rapporto, quasi una sovrapposizione, tra il periodo della dittatura del proletariato e quello socialista, entrambi caratterizzati dalla perdurante esistenza del vecchio modello statuale. In effetti, par di capire che la società socialista sia destinata ad affermarsi proprio durante la transizione: “Ora, la dittatura del proletariato, vale a dire l’organizzazione dell’avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, la dittatura del proletariatoapporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti (…) ed è chiaro che dove c’è repressione, dove c’è violenza, non c’è libertà, non c’è democrazia.
Non siamo gli unici a pensare che, sul punto, l’allievo innovi, e contraddica il maestro. Secondo l’eminente studioso (marxista) Paresh Chattopadhyay, “il socialismo, anche quando venga considerato, in accordo con Lenin, come la prima fase del comunismo di Marx, evidentemente è già la nuova società e non può essere la transizione alla stessa società. Invece il periodo di transizione di Marx si riferisce a quello che precede la prima fase del comunismo. Confondere ancora la transizione di Marx con la prima fase, dove i produttori hanno cessato di essere proletari, significherebbe far volatilizzare il lungo processo di auto emancipazione dei produttori e trasformare le posizioni di Marx in quelle di Bakunin[9]”.
Alla luce di quanto fin qui esaminato, l’affermazione di Chattopadhyay appare incontrovertibile – sorprende, però, che un uomo della precisione e dell’intelligenza di Ul’janov possa aver grossolanamente travisato un concetto tutto sommato limpido. E se il travisamento fosse intenzionale, o addirittura frutto di un adattamento della teoria originaria? In fondo, il rivoluzionario di Simbirsk opera in un contesto – la Russia arretrata e immiserita da un triennio di guerra – molto diverso da quello immaginato da Marx ed Engels. Invero, la stessa bipartizione operata da Lenin tra socialismo e comunismo genera un’ambiguità che si può supporre voluta: passaggi come “lo sviluppo progressivo, cioè l’evoluzione verso il comunismo, avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire altrimenti” celano forse, dietro il ricalco dell’originale marxiano, un raffinato gioco di prestigio verbale, che assegna un nuovo significato a formule universalmente accettate.
Ma a quale scopo il capo rivoluzionario ripenserebbe Marx, pur mutuandone la terminologia?
A parere di chi scrive, la “contraffazione” è a fin di bene: salva lo spirito del fondatore, pur apportando modifiche al suo schema[10]. Testi alla mano, vedremo di motivare l’assunto.
Va anzitutto tenuto presente che Lenin affianca all’attività di elaborazione teorica l’azione e l’impegno concreto: dal rientro a Pietrogrado[11] (aprile 1917) si misura quotidianamente con i fatti, molto più indocili alla cavezza rispetto alle idee, ed è quindi costretto a frequenti correzioni di rotta. In uno scritto del ’19 Vladimir Il’ic fa un’ammissione interessante[12] (“La dittatura del proletariato in Russia, in confronto ai paesi avanzati,deve inevitabilmente distinguersi per certe sue particolarità, in conseguenza del carattere molto arretrato e piccolo-borghese del nostro paese”), salvo poi precisare che “le forze fondamentali sono in Russia le stesse che in qualsiasi altro paese capitalistico, cosicché queste particolarità possono riferirsi solo a ciò che non è essenziale”). Sotto la dittatura proletaria si compiono i “primi passi del comunismo in Russia perché tutte queste condizioni da noi sono realizzate soltanto parzialmente, o, in altre parole, la realizzazione di queste condizioni si trova allo stadio iniziale.
Esattamente due anni dopo, in occasione del quarto anniversario dell’Ottobre Rosso, il capo bolscevico rivendica addirittura il carattere “borghese-democratico” della Rivoluzione: “Il compito più diretto e immediato della rivoluzione in Russia era un compito borghese democratico: eliminare i residui del medioevo, spazzarli via completamente (…) Noi abbiamo condotto la rivoluzione borghese democratica fino alla fine, come nessun altro. Noi procediamo con piena coscienza, fermezza ed inflessibilità verso la rivoluzione socialista, sapendo (…) che soltanto la lotta deciderà in quale misura riusciremo ad avanzare (…) Le trasformazioni democratiche borghesi sono un prodotto accessorio della lotta rivoluzionaria di classe. (…) La prima (cioè la rivoluzione borghese) si trasforma nella seconda (quella socialista)”.Lungi dall’essere giunto al termine, il processo è ancora in corso[13]: abbiamo qui un riferimento al concetto di “rivoluzione permanente”. Riportiamo ancora un paio di frasi tratte dallo stesso discorso, che ci paiono rivelatrici: “Occorreva una serie di fasi transitorieil capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare – con un lavoro di una lunga serie d’anni – il passaggio al comunismo. (…) prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, conduca verso il socialismo, altrimenti voi non arriverete al comunismo.
Riepiloghiamo: il “capitalismo di Stato”, che qui fa capolino, non coincide con il socialismo, ma ne costituisce una premessa – dunque, è premessa di una premessa. E’ forse sinonimo di dittatura del proletariato la nuova locuzione? Non ci sono evidenze in questo senso[14]: forte della sua solidissima preparazione teorica, Lenin va avanti per tentativi. In ogni caso, al compito attribuito da Marx allo Stato rivoluzionario (schiacciare i nemici di classe) se ne aggiunge un secondo: costruire ex novo una base economica per il futuribile edificio socialista.
L’ultimo pezzo di cui consigliamo la lettura è datato 1923, e fu pubblicato poco prima della morte di Lenin[15]. L’articolo, assai breve (l’autore era da tempo gravemente infermo, e l’ictus gli impediva di scrivere in autonomia), ma densissimo, è un’appassionata difesa delle ragioni del bolscevismo. In risposta alle critiche dei socialdemocratici europei, il rivoluzionario riconosce che in Russia non esistevano, nel ’17, i presupposti economici obiettivi per il socialismo, ma giustamente ribatte: “che fare se la situazione, assolutamente senza vie d'uscita, decuplicava le forze degli operai e dei contadini e ci apriva più vaste possibilità di creare le premesse fondamentali della civiltà, su una via diversa da quella percorsa da tutti gli altri Stati dell'Europa occidentale?” Toccava forse subordinare i bisogni e le speranze di decine di milioni di esseri umani al rispetto di un dogma, dimentichi dell’ammonimento dello stesso Marx: “nei momenti rivoluzionari occorre la massima duttilità”? Alla domanda Lenin dà una risposta negativa, e noi la condividiamo, perché siamo certi, al pari di lui, che l’occasione “giusta” rischia di non presentarsi mai, e non ci attira la prospettiva di un’attesa infinita alla “Aspettando Godot”[16]. Un accenno alle “peculiarità” della situazione russa chiude il cerchio: “la Russia - la quale sta alla frontiera tra i paesi civili e i paesi attratti definitivamente da questa guerra per la prima volta nell'orbita della civiltà, i paesi di tutto l'oriente, i paesi non europei - poteva e doveva manifestare alcuni caratteri peculiarii qualinaturalmente sono compresi nella linea generale dello sviluppo mondiale, ma distinguono tuttavia la sua rivoluzione da tutte le rivoluzioni precedenti dei paesi dell'Europa occidentale e determinano alcune innovazioni parziali quando si passa ai paesi orientali.
In buona sostanza, la lezione leniniana è che la scelta di un modello non implica la sua imitazione pedissequa, che le opportunità – quando sono effettivamente tali – vanno colte e che un onesto pragmatismo rientra tra le doti dell’attivista/rivoluzionario. Certi ondeggiamenti ed oscurità testuali derivano dall’incessante sforzo di adeguare e far combaciare la propria analisi con la realtà multiforme dell’esistenza: in un universo in cui persino un fiocco di neve è unico e irripetibile occorrono acume, flessibilità e capacità creative. Lenin segue la dottrina marxiana finché può, se ne discosta[17] quando deve: il suo indiscutibile marxismo risiede nel fatto che, dopo una vita di studi, è riuscito per primo a mettere l’idea in pratica, rivoluzionando la società e gettando le basi per una sua evoluzione in senso comunista[18], che purtroppo non andò a buon fine.
Gli esiti dell’esperimento, in effetti, furono disastrosi: questo non comporta affatto una condanna retroattiva[19] (di solito pronunciata in malafede), ma impone un sovrappiù di ragionamento.
Ora, è fuori discussione che l’Impero zarista, non essendo un Paese a capitalismo avanzato, fosse immaturo per la rivoluzione ed il socialismo/comunismo: Lenin manco si sogna di negarlo, e proprio per questo concepisce una fase dittatoriale di lunga durata (v.supra).
Il periodo di transizione preconizzato da Marx era invece breve, poiché allo scoppio della rivoluzione – questo era il postulato – le nuove forze produttive sarebbero già state operanti, il lavoro sarebbe apparso socializzato e le esigenze di trasformazione radicale si sarebbero appuntate piuttosto sulla sovrastruttura che sulla struttura economica. Insomma, il socialismo/comunismo sarebbe uscito in armi dal bozzolo come Atena dalla testa di Giove.
In Russia tutto ciò era impossibile: come Lenin ribadisce, l’immenso Paese non aveva ancora sperimentato una rivoluzione borghese. Da qui il richiamo ad una presunta (ma difficilmente sostenibile) natura “democratica borghese” dell’Ottobre, l’introduzione, con la NEP, di un capitalismo a livello di bottega e l’invito rivolto a industriali stranieri, una volta conclusasi la guerra civile, ad aprire fabbriche in URSS. Visti il disinteresse dei capitalisti, irrimediabilmente ostili al regime bolscevico, la vastità e la povertà diffusa, non resta al governo sovietico che assumere su di sé l’onere di modernizzare la Russia: la sola opzione è il capitalismo di Stato, “il solido ponte che conduce al socialismo”. Negli anni assistiamo quindi ad una sorta di ripiegamento rispetto al progetto esposto in Stato e Rivoluzione: il socialismo - che pure non s’identifica con la prima fase del regno della libertà tratteggiata da Marx – è di là da venire, per il momento ci si contenta di gettarne le basi. Senza la ricchezza materiale ed un adeguato sviluppo produttivo non ha senso parlare di socialismo né, a maggior ragione, del comunismo dell’abbondanza.
Una decisa accelerazione potrebbe essere favorita dagli eventi europei: ancora nel ’19, Lenin e i suoi collaboratori non dubitano di una prossima esplosione della rivoluzione in Europa – cioè in Germania. La Russia è solo la miccia: la dinamite è il continente più progredito.
Le certezze si sgretolano assai presto: le repubbliche sovietiche bavarese (Toller, Levine) e ungherese (Bela Kun) saranno travolte dalla reazione, gli spartachisti incontreranno una sorte ancor peggiore. Mentre la guerra civile infuria, il giovane governo sovietico subisce l’aggressione degli eserciti occidentali e, più tardi, un durissimo embargo economico (il c.d. “cordone sanitario”). Un’ultima puntata ad occidente si infrangerà contro la resistenza polacca (1920); poi subentra una tregua armata, ma la situazione permane instabile, con l’URSS accerchiata[20] e sotto costante minaccia d’invasione. Avesse previsto il futuro, sappiamo che Lenin nel ’17 avrebbe rinunciato al “colpo” per cui si preparava fin dalla giovinezza: lui stesso non credeva alle prospettive della rivoluzione in un solo Paese, per di più arretrato, e – negli anni convulsi tra il 1917 e il 1920 – presentì varie volte il crollo del suo regime.
A salvare il potere sovietico furono la perseveranza del leader, l’abilità organizzativa e militare di Trotzky e, soprattutto, il territorio sconfinato: la Russia ha le dimensioni di un continente[21] e proprio per questo, al contrario di Baviera e Ungheria, non può essere occupata militarmente da eserciti che, nel caso specifico, erano usciti stremati da un tremendo conflitto.
L’eccezione, comunque, conferma la regola secondo cui un moto rivoluzionario socialista (=comunista) ha durature possibilità di successo solo se interessa l’intero mondo sviluppato o, perlomeno, la maggioranza dei Paesi guida, perché (riassumiamo) l’avverarsi di tale condizione 1) riduce la durata della transizione e, conseguentemente, 2) i rischi di un’involuzione autoritaria; 3)impedisce o attenua l’interferenza di forze esterne.
Esplicitiamo l’ultimo punto: già ai tempi di Marx l’economia capitalista era parzialmente “globalizzata”[22]; il fenomeno dell’internazionalizzazione si accentua tra ‘800 e ‘900 (non a caso, Lenin gli dedicherà uno dei suoi libri più celebrati[23]). Se il capitale è “cittadino del mondo”, altrettanto vale per i suoi detentori: assistiamo, nel diciannovesimo secolo, al formarsi di una borghesia apolide per interesse, cioè non più legata all’economia del territorio d’origine, di cui Marchionne e i “delocalizzatori” sono i pronipoti.
Gli appartenenti a questa classe conducono affari un po’ ovunque, e i loro emissari arrivano nei più sperduti angoli del globo: pertanto, essi reagirebbero con estrema fermezza ad un sommovimento socio-economico anche di rilievo locale, facendo intervenire forze militari al loro (indiretto) servizio o foraggiando gli oppositori attivi sul posto. Visto che la dittatura del proletariato è finalizzata alla neutralizzazione dei nemici di classe, e che questi non cessano di tramare, in combutta con i loro “confratelli”, una volta varcato il confine, per una comunità nazionale isolata e sotto tiro la transizione si prolungherebbe fino al giorno del giudizio[24], ed anche la fase “inferiore” resterebbe una pia illusione.
Se a questo aggiungiamo che l’URSS di novant’anni fa, oltre ad essere isolata, era ancora un Paese preindustriale non possiamo sorprenderci del fatto che, malgrado gli sforzi di Lenin (morto troppo presto), non sia mai andata al di là della fase “transitoria” del capitalismo di Stato: Eric Hobsbawm annota convincentemente[25] che, al di là della valutazione (pessima) sull’uomo, Stalin non aveva alternative alla corsa all’industrializzazione intrapresa alla fine degli anni ’20. Cosa avrebbe fatto Lenin, se fosse stato ancora vivo? Presumibilmente lo stesso, ipotizza lo studioso inglese, anche se con minore brutalità.
Arretratezza ed isolamento sono due problemi che la Russia bolscevica riesce a superare appena dopo il secondo conflitto mondiale (al prezzo di una cifra oscillante tra i 12 e i 28 milioni di morti, e grazie alla bomba atomica): allora, forse, la transizione si sarebbe potuta conchiudere.
Così non fu, evidentemente perché i dittatori “in nome e per conto” del proletariato si erano affezionati al potere, ed erano restii ad abbandonarlo: fino alla fine ingloriosa (ma, se non altro, incruenta!) dei suoi giorni, l’URSS rimase un capitalismo di Stato con alcuni elementi di socialismo[26], retto da un ceto burocratico permeabile ma nettamente distinto dalla cittadinanza comune, il cui entusiasmo, peraltro, era svanito da tempo.
Quale fu l’errore di Vladimir Il’ic Ul’janov? A parer nostro, quello di non commettere veri e propri errori[27] (oltre che di morire prematuramente, ma dell’ictus avrebbe fatto volentieri a meno). In circostanze straordinariamente difficoltose, e con tutto il mondo contro, l’uomo di Simbirsk riuscì a manovrare con accortezza, a realizzare l’impensabile, ad infondere speranza e orgoglio ad una generazione nata in servitù[28]. Nonostante l’inerzia del proletariato europeo e l’ostilità dei governi imperialisti, l’Unione Sovietica sopravvisse al parto; era però debole e malata sin dall’infanzia, e i medici che, dopo Stalin, l’ebbero in cura, la lasciarono deperire, finché si spense.
Cosa rimane di un’esperienza settantennale? Nient’altro che l’esperienza stessa: poca cosa, ma funzionale, se non altro, a gettare un po’ di luce sul presente e il prossimo futuro.
Prima di andarsene, Vladimir Lenin propose al Comitato Centrale di accogliere nel suo grembo 50-100 tra contadini e operai, per rendere più difficile il formarsi di una casta di governanti. Il suggerimento non fu accolto (e anche se fosse stato accolto non avrebbe mutato il corso degli eventi), ma è prezioso anche per noialtri: ci rammenta che, per quanto non serva un popolo intero per trasformare una società, una ristrettissima elite non basta. E’ necessaria e – crediamo – sufficiente una minoranza agguerrita e consapevole. 




[1] Coerentemente con la sua mentalità di scienziato (sociale), Karl Marx non si avventura in previsioni sulle modalità di svolgimento di un’ipotetica rivoluzione sociale – ipotetica, sottolineiamo, perché, criticando il programma del Partì Ouvrier ed il massimalismo del suo leader Jules Guesde (1880), il nostro autore sembra prendere in considerazione la possibilità di una transizione pacifica dal sistema capitalista a quello socialista.
[2] Ferdinand Lassalle (1825-1864) fu un teorico ed agitatore socialista tedesco che, a coronamento di una vita avventurosa, morì ancor giovane in duello. Marx, che finì per detestarlo (e che nei confronti dei rivali, veri o presunti, si mostrò sempre poco cavalleresco), non gli risparmia, nel libello, critiche mordaci e qualche colpo basso, a cui il povero Lassalle, scomparso da un decennio, non poteva ovviamente replicare. 
[3] I testi di Marx, Engels e Lenin da cui abbiamo tratto le citazioni sono liberamente consultabili sul sito internet MIA (http://www.marxists.org/italiano).
[4] In tutte le citazioni di seguito riprodotte, il corsivo è sempre dell’autore, ilgrassetto del sottoscritto.
[5] Delle due fasi si parla, invece, nella prima parte.
[6] Nella lettera ad August Bebel (dirigente socialdemocratico tedesco) del 18 marzo 1875.
[7] All’opposto dei precedenti dominatori (borghesi, feudatari medievali ecc.), il proletariato vittorioso non creerà nuove masse di sfruttati, ma si farà umanità intera. Fine della Storia, perché il suo motore (la dialettica tra le classi) si arresta. G. W. F. Hegel, con le sue sintesi, non è passato invano, ma il sostrato resta giudaico-cristiano (messianismo, Thomas Müntzer, anabattismo ecc.).
[8] “Democrazia vuol dire uguaglianza”, chiarisce Lenin, e la perfetta uguaglianza è concepibile solo nel comunismo realizzato, non prima.
[9] Il suo testo Marx vs Lenin può essere letto in traduzione italiana sul sitohttp://www.left-dis.nl/i/chatto.htm (il titolo del pezzo è “Il contenuto economico del socialismo. Marx contro Lenin”).
[10] Tocca rammentare che quella di K. Marx è sì scienza, ma “scienza sociale” (C. Preve): le leggi da lui formulate sono il risultato di osservazioni ed approssimazioni. Valide in generale, esse servono a spiegare l’essenza dei fenomeni, non a descriverli minuziosamente.
[11] Ai dietrologi non par vero di poter speculare sul coinvolgimento del miliardario “rosso” Parvus e del Governo del II Reich nell’organizzazione del viaggio in treno dalla Svizzera: Lenin è accusato di intelligenza col nemico (si parva licet componere magnis, l’elettorato pecorone piddino fa insinuazioni simili sul conto di Ingroia, che favorirebbe il cerbero Berlusconi: “è matematica”, recitano a memoria, incapaci come sono di distinguere i numeri dalla propaganda). A nostro avviso, si realizzò tra l’esiliato e la borghesia germanica un’occasionale convergenza di interessi: egli voleva la fine della guerra imperialista, osteggiata fin dal ’14, la sua controparte l’uscita della Russia dal conflitto. Il Trattato-capestro di Brest Litovsk, prova provata del “tradimento” bolscevico, si dimostrò in realtà assai più utile alla neonata URSS che al Kaiser.
[12] Nello scritto Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato, pubblicato sul numero 250 della Pravda del 7 novembre.
[13] Si consideri che, nella primavera del 1919, Lenin aveva varato la NEP (Nuova politica economica) per rimediare ai danni causati dal comunismo di guerra.
[14] Lenin sostiene che l’epoca del dominio della classe oppressa è appena all’inizio: essa “marcia verso una vita nuova, verso la vittoria sulla borghesia,verso la dittatura del proletariato (corsivo nostro)”.
[15] Sulla nostra Rivoluzione, apparso sul numero 117 della Pravda (30 maggio 1923).
[16] Il dirigente socialista sloveno Henrik Tuma (1858-1935) raffronta polemicamente l’indolenza e il verbalismo dei socialdemocratici occidentali (“Si parlava tanto, in tutte le lingue del mondo civile, di rivoluzione della classe lavoratrice, ma non ci si preoccupava di educare i lavoratori per metterli in grado di farla davvero, la rivoluzione, quando fosse giunto il momento”) con la genuina passione dei russi: “A dir la verità, soltanto la guerra diede vita in Russia ad un importante movimento di contadini e operai. Gli operai, i contadini, ma anche la maggioranza dei borghesi e degli intellettuali erano rivoluzionari senza bisogno di essere indottrinati. (…) Proprio questa generale tensione presente nelle grandi masse del popolo russo e degli altri popoli della Russia permise ad un piccolo drappello di marxisti veramente rivoluzionari di imporsi così saldamente. Certo, ebbero anche la fortuna di trovare in Lenin un leader geniale (H. TUMA,Dalla mia vita, pag. 343).”
[17] Rectius: la aggiorna.
[18] Attenzione: non stiamo indirettamente tacciando Marx di “astrattismo”, né gli imputiamo errori di previsione. Senza il pensatore di Trier il figlio dell’ispettore scolastico di Simbirsk non sarebbe mai assurto a Lenin, né ci sarebbe stato l’Ottobre. Affermiamo soltanto che nessuna costruzione logica, per quanto geniale e armoniosa, può conservare, a contatto col reale, la sua purezza libresca. Era pressoché inevitabile, quindi, che tre fasi tra loro nettamente distinte diventassero ora due ora quattro, contaminandosi pure a vicenda.  
[19] Per un giudizio, sofferto e controcorrente, sul fallimento delle rivoluzioni novecentesche si veda quanto scrive Tiziano Terzani in Buonanotte signor Lenin eLa fine è il mio inizio. L’autore in sostanza dice: le conseguenze sono state tragiche, e forse non poteva essere altrimenti, ma fu giusto tentare.
[20] Il primo trattato internazionale con una potenza europea sarà sottoscritto dal governo sovietico appena nel ’22, a Rapallo. Controparte è un altro Stato “paria”, la Germania piegata, nel 1918, dalle potenze dell’Intesa.
[21] Lo stesso vale, mutatis mutandis, per la Cina di Mao. Nel secondo dopoguerra le rivoluzioni comuniste che si sono affermate in Paesi “normali” hanno sempre avuto il sostegno di almeno una delle due grandi potenze.
[22] Il termine è anacronistico, ma rende l’idea.
[23] L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo del 1916.
[24] Tra l’altro, all’epoca dei bolscevichi internet non esisteva, oggi sì: la cronaca ci mostra quanto efficace sia la rete – veicolo di propaganda, ma non solo – ai fini della disarticolazione di uno Stato teoricamente sovrano.
[25] Ne Il secolo breve.
[26] Lo Stato sociale sovietico, che vantava delle eccellenze in campo sanitario (v. Divisione Cancro di A. Solgenitsin) e scolastico, è ancora oggi giustamente rimpianto dalla gran massa degli abitanti dei Paesi ex URSS.
[27] Forse peccò di eccesso di ottimismo e sicurezza in se stesso, ma… cos’avrebbe potuto/dovuto fare una persona così profondamente dedita alla causa rivoluzionaria, se non provarci con tutte le energie disponibili? Conoscessimo il destino in anticipo aspetteremmo, inerti e rassegnati, il giorno della nostra dipartita.
[28] I Figli dell’Arbat di A. Rybakov contiene un’indimenticabile descrizione della gioventù moscovita degli anni ’20. Assieme ai sogni, il libro finisce con la morte di Kirov.

20 luglio 2010

GUERRA SEMANTICA: LA NUOVA PROPAGANDA

Di ROBERT FISK 
independent.co.uk

Il giornalismo è diventato un campo di battaglia linguistico - e quando i giornalisti usano termini come ‘picco della violenza’, ‘ondata’ o ‘coloni’, fanno un gioco pericoloso. 

State seguendo l'ultima in fatto di notizie sulla semantica? Giornalismo e governo israeliano si amano di nuovo. E' terrore islamico, terrore turco, terrore di Hamas, terrore della Jihad islamica, terrore di Hezbollah, attivista del terrore, guerra al terrore, terrore palestinese, terrorismo islamico, terrore iraniano, terrore siriano, terrore antisemita ... 

Ma io sto facendo un' ingiustizia agli israeliani. Il loro lessico, quello della Casa Bianca – per la maggior parte - e il nostro lessico giornalistico, è lo stesso. Sì, cerchiamo di essere equi verso gli israeliani. Il loro lessico va in questa direzione: terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore. 

Quante volte ho appena usato la parola "terrore"? Venti. Ma potrebbero anche essere 60, o 100, o 1000, o un milione. Siamo innamorati della parola, sedotti da essa, fissati con essa, attaccati da essa, assaliti da essa, rapiti da essa, impegnati ad essa. C’è amore, sadismo e morte in una sola doppia sillaba, tema principale di una canzone, apertura di ogni sinfonia televisiva, titolo di ogni pagina, segno di punteggiatura del nostro giornalismo, punto e virgola, virgola, nostro punto più potente. “Terrore, terrore, terrore, terrore ". Ogni ripetizione giustifica il suo antecedente. 

Per lo più, è sul terrore del potere e il potere del terrore. Potere e terrore sono diventati intercambiabili. Noi giornalisti abbiamo permesso che ciò accadesse. La nostra lingua è diventata non solo un alleato svilito, ma un partner a pieno titolo nel linguaggio verbale dei governi, eserciti, dei generali e delle armi. Ricordate il "bunker buster" (bomba che scava in profondità prima di esplodere- ndt) e il "Buster Scud" (sistema anti-missilistico- ndt) e il "target rich environment" (equipaggiamento ad alta tecnologia-ndt) nella Guerra del Golfo (parte prima)? Dimenticate le "armi di distruzione di massa". Chiaramente troppo ridicolo. Ma l’arma di distruzione di massa nella Guerra del Golfo (parte seconda) aveva un potere proprio, un codice segreto - genetico, forse, come il DNA - per qualcosa che poteva mietere terrore, terrore, terrore, terrore, terrore. "45 minuti di terrore". 

Potere e informazione non sono solo basati su rapporti cordiali tra giornalisti e leader politici, tra editori e presidenti. Non sono solo sul rapporto parassitario-osmotico tra giornalisti presumibilmente onorevoli e il legame di potere che corre tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato e Pentagono; tra Downing Street, il Foreign Office e il Ministero della Difesa; tra America e Israele. 

Nel contesto occidentale, il potere e l’informazione si basano sulle parole - e sull'uso delle parole. Sulla semantica. Sull’uso delle frasi e le loro origini. Sull’abuso della storia e sulla nostra ignoranza della storia. Sempre più oggi, noi giornalisti siamo diventati prigionieri del linguaggio del potere. Questo succede perché non ci interessa più nulla della linguistica o della semantica? Succede perché i portatili "correggono" la nostra ortografia, "snelliscono" la nostra grammatica in modo che le nostre frasi molto spesso si rivelano identiche a quelle dei nostri governanti? È per questo che gli editoriali di oggi spesso suonano come discorsi politici? 

Per due decenni, le dirigenze degli Stati Uniti e Gran Bretagna - e israeliane e palestinesi - hanno usato le parole "processo di pace" per definire l'inadeguato, impossibile, disonorevole accordo che ha permesso agli Stati Uniti e Israele di dominare ogni scheggia di terra che sarebbe stata data ad un popolo occupato. Ho contestato questa espressione e la sua origine, al tempo di Oslo - anche se dimentichiamo facilmente che gli stessi accordi segreti di Oslo sono stati una cospirazione senza alcuna base giuridica. 

Povera vecchia Oslo, penso sempre. Che cosa ha mai fatto Oslo per meritare questo? E' stato l'accordo della Casa Bianca che ha suggellato questo trattato ridicolo e discutibile - in cui i rifugiati, i confini, le colonie israeliane, anche gli orari – dovevano essere bloccati fino a quando non potevano più essere negoziati. 

E dimentichiamo facilmente il prato della Casa Bianca - anche se, sì, ricordiamo le immagini - sul quale Clinton citò il Corano e Arafat disse: "Grazie, grazie, grazie, signor Presidente". Come chiamammo queste sciocchezze dopo? Sì, fu "un momento della storia"! Fu? Fu così? 

Ricordate come la chiamò Arafat? "La pace dei coraggiosi". Ma io non ricordo nessuno di noi che abbia sottolineato che "la pace dei coraggiosi" fu utilizzata dal generale de Gaulle verso la fine della guerra d'Algeria. La Francia perse la guerra con l’Algeria. Noi non pubblicizzammo questa straordinaria ironia. 

Lo stesso oggi. Noi giornalisti occidentali - usati ancora una volta dai nostri padroni – ci siamo occupati dei nostri allegri generali in Afghanistan, dicendo che la loro guerra può essere vinta solo con una campagna fatta con "i cuori e le menti”. Nessuno ha posto loro la domanda ovvia: non era questa la stessa identica frase utilizzata per i civili vietnamiti nella guerra del Vietnam? E non abbiamo - non ha l'Occidente - perso la guerra in Vietnam? Ma ora noi giornalisti occidentali stiamo usando – per l’ Afghanistan - la frase "i cuori e le menti" nei nostri articoli come se fosse una nuova definizione nel dizionario piuttosto che un simbolo di sconfitta per la seconda volta in quattro decenni. 

Basta guardare le singole parole che abbiamo recentemente cooptato dalle forze armate degli Stati Uniti. Quando noi occidentali scopriamo che i "nostri" nemici - Al-Qaeda, per esempio, o i talebani - hanno fatto esplodere più bombe e organizzato più attacchi del solito, lo chiamiamo "picco di violenza". 

Ah, sì, un "picco"! Un "picco" è una parola usata per prima in questo contesto, secondo il mio file, da un generale di brigata nella Zona Verde di Baghdad nel 2004. Ma ora noi usiamo questa espressione, improvvisiamo su di essa, la trasmettiamo come fosse nostra, una nostra invenzione giornalistica. Stiamo utilizzando, abbastanza letteralmente, un’ espressione creata per noi dal Pentagono. Una punta, naturalmente, va bruscamente verso l’alto poi bruscamente verso il basso. Un "picco di violenza" evita pertanto l'uso minaccioso delle parole "aumento della violenza" – perché un aumento, naturalmente, dopo, potrebbe non scendere di nuovo. 

Di nuovo, quando i generali americani riferiscono di un improvviso aumento delle loro forze per un attacco a Falluja o al centro di Baghdad o di Kandahar - un massiccio movimento di soldati portati in paesi musulmani a decine di migliaia - questo lo chiamano "ondata". E un’ ondata, come uno tsunami o altri fenomeni naturali, può essere devastante nei suoi effetti. Ciò che queste “ondate” in realtà sono - per usare le parole vere del giornalismo serio - sono rinforzi. E i rinforzi vengono inviati ai conflitti quando gli eserciti stanno perdendo quelle guerre. Ma la nostra televisione e i giornali per ragazzi e ragazze ancora parlano di "picchi" senza alcuna attribuzione a qualcosa. Il Pentagono vince ancora. 

Nel frattempo il "processo di pace" è crollato. Quindi i nostri leader - o "attori chiave", come ci piace chiamarli - hanno cercato di farlo funzionare di nuovo. Il processo doveva essere rimesso "sul binario giusto". Si vede che era un treno. Le carrozze avevano deragliato. L'amministrazione Clinton per prima usò questa frase, poi gli israeliani, poi la BBC. Ma ci fu un problema quando il "processo di pace" fu messo ripetutamente "sul binario giusto" - e ancora deragliava. Così abbiamo prodotto una "tabella di marcia” - gestita da un Quartetto e guidata dal nostro vecchio Amico di Dio, Tony Blair, che - in un’oscenità storica - oggi definiamo un "inviato di pace". Ma la "tabella di marcia" non funziona. Ora, mi accorgo, il vecchio "processo di pace" è ritornato sui nostri giornali e sugli schermi televisivi. All' inizio di questo mese, sulla CNN, uno di quei vecchi parrucconi noiosi, che i ragazzi e le ragazze della Tv definiscono "esperti", ci ha detto di nuovo che il "processo di pace" era stato messo "sul binario giusto" per l'apertura di "colloqui indiretti" tra israeliani e palestinesi. Non si tratta solo di luoghi comuni - questo è giornalismo assurdo. Non c'è battaglia tra i media e il potere; attraverso il linguaggio, noi, i media, siamo diventati come loro. 

Ecco un altro pezzo di codardia informatica che fa digrignare i miei denti 63enni, dopo che hanno mangiato humus e tahina in Medio Oriente per 34 anni. Ci viene detto, in molti articoli analitici, che ciò con cui abbiamo a che fare in Medio Oriente sono le "narrazioni concorrenti". Che caruccio! Non c'è giustizia, non c'è ingiustizia, solo un paio di persone che raccontano fatti storici diversi. Sulla stampa britannica le "narrazioni concorrenti" ora saltano fuori regolarmente. 

La frase, dal falso linguaggio antropologico, elimina la possibilità che un gruppo di persone - in Medio Oriente, per esempio – sia occupato, mentre un altro sia l’occupante. Anche in questo caso, non c'è giustizia, né ingiustizia, non c’è oppressione né oppresso, ma solo alcune amichevoli "narrazioni concorrenti", una partita di calcio, se volete, su un piano di parità, perché le due parti sono – o no? - "in concorrenza". E a due parti deve essere dato un termine identico in ogni storia. 

Così un’ "occupazione" diventa una "controversia". Un "muro" diventa un "recinto" o una "barriera di sicurezza". Così le azioni israeliane di colonizzazione della terra araba, contro ogni legge internazionale, diventano "insediamenti" o "avamposti" o "quartieri ebraici". E' stato Colin Powell, nella sua protagonistica, impotente apparizione come Segretario di Stato di George W. Bush, che ha detto ai diplomatici degli Stati Uniti di riferirsi ai territori palestinesi occupati come "terra contestata" - il che era abbastanza buono per la maggior parte dei media statunitensi. Non ci sono "racconti concorrenti", naturalmente, tra i militari americani e i talebani. Quando ci saranno, saprete che l'Occidente ha perso. 

Ma vi farò un esempio di come le "narrazioni concorrenti" vengono rifatte. Ad aprile ho tenuto una conferenza a Toronto in occasione del 95° anniversario del genocidio armeno del 1915, l'assassinio deliberato di massa di 1,5 milioni di cristiani armeni da parte dell'esercito e delle milizie turche ottomane. Prima del mio intervento, sono stato intervistato dalla televisione canadese CTV, che possiede anche il Toronto Globe and Mail. Fin dall'inizio, ho potuto vedere che l'intervistatrice aveva un problema. Il Canada ha una numerosa comunità armena. Ma Toronto ha anche un’ ampia comunità turca. E i turchi, come il Globe and Mail dice sempre, "contestano accanitamente" che quello fu un genocidio. 

Così l' intervistatrice chiamava il genocidio "stragi mortali". Certo, ho notato immediatamente il suo specifico problema. Non riusciva a chiamare le stragi " genocidio", perché la comunità turca si sarebbe scandalizzata. Ma lei sentiva che la parola "stragi" da sola - in particolare con le raccapriccianti fotografie di armeni morti come sfondo dello studio – non era sufficiente a definire l’uccisione di un milione e mezzo di esseri umani. Di qui le "stragi mortali". Che strano! Se ci sono stragi "mortali", ci sono quindi stragi che non sono "mortali" e da cui le vittime possono uscirne vive? E’ stata una ridicola tautologia. 

Tuttavia, l'uso del linguaggio del potere - delle sue parole e frasi portanti - continua ancora tra noi. Quante volte ho sentito giornalisti occidentali parlare di "combattenti stranieri" in Afghanistan? Si riferiscono, ovviamente, ai vari gruppi arabi presumibilmente in aiuto dei talebani. Abbiamo sentito naturalmente la stessa storia per l’Iraq, per i combattenti sauditi, giordani, palestinesi, ceceni. I generali li hanno chiamati "combattenti stranieri". Immediatamente, noi giornalisti occidentali abbiamo fatto lo stesso. Chiamarli "combattenti stranieri" significava che fossero una forza d'invasione. Ma non una volta - mai - ho sentito qualche importante stazione televisiva occidentale riferirsi al fatto che ci sono almeno 150.000 "combattenti stranieri" in Afghanistan, e che tutti loro indossano divise americane, britanniche e altre divise della NATO. Siamo "noi" ad essere i veri "combattenti stranieri". 

Allo stesso modo, la maligna frase "Af-Pak" - tanto razzista quanto politicamente disonesta - è ora utilizzata dai giornalisti, sebbene fosse originariamente una creazione del Dipartimento di Stato Usa del giorno in cui Richard Holbrooke fu nominato rappresentante speciale americano per Afghanistan e Pakistan. Ma la frase evita l'uso della parola "India" - la cui influenza in Afghanistan e la cui presenza in Afghanistan, è una parte vitale della storia. Inoltre, "Af-Pak" – eliminando l’ India - ha di fatto eliminato tutta la crisi del Kashmir dal conflitto del sud-est asiatico. E così ha privato il Pakistan di ogni voce nella politica locale degli Stati Uniti sul Kashmir - dopo tutto, Holbrooke è stato fatto inviato per l’ Af-Pak, con l’espresso divieto di discutere sul Kashmir. Così la frase "Af-Pak", che evita del tutto la tragedia del Kashmir - troppe "narrazioni concorrenti ", forse? - significa che quando noi giornalisti utilizziamo la stessa frase, "Af-Pak", che è stata sicuramente creata per noi giornalisti, stiamo facendo il gioco del Dipartimento di Stato. 

Ora diamo un'occhiata alla storia. I nostri leader amano la storia. Soprattutto, amano la Seconda Guerra Mondiale. Nel 2003, George W. Bush pensava di essere Churchill. Certo, Bush aveva trascorso la guerra del Vietnam a proteggere i cieli del Texas dai vietcong. Ma ora, nel 2003, fronteggiava i "mediatori", che non volevano la guerra con Saddam, il quale era, naturalmente, "l' Hitler del Tigri". I mediatori erano gli inglesi che non vollero combattere la Germania nazista nel 1938. Anche Blair, naturalmente, ci provò sulle dimensioni del panciotto e della giacca di Churchill. Egli non “mediava”. L'America era il più antico alleato della Gran Bretagna, proclamò - e sia Bush che Blair ricordarono ai giornalisti che gli Stati Uniti furono spalla a spalla con la Gran Bretagna nel suo momento di bisogno nel 1940. 

Ma nulla di tutto questo era vero. Il più antico alleato della Gran Bretagna non erano gli Stati Uniti. Era il Portogallo, uno stato neutrale fascista durante la Seconda Guerra Mondiale, che abbassò la sua bandiera nazionale a mezz'asta quando Hitler morì (persino gli irlandesi non lo fecero). 

Né l'America combatté al fianco della Gran Bretagna nel suo momento del bisogno, nel 1940, quando Hitler minacciava l'invasione e la Luftwaffe bombardò Londra. No, nel 1940 l'America si stava godendo un periodo molto proficuo di neutralità, e non si unì alla Gran Bretagna in guerra fino a quando il Giappone non attaccò la base navale statunitense di Pearl Harbour nel dicembre 1941. Allo stesso modo, nel 1956, Eden chiamò Nasser il "Mussolini del Nilo". Un brutto errore. Nasser era amato dagli arabi, non odiato come lo era Mussolini dalla maggioranza degli africani, in particolare dagli arabi libici. Il parallelo con Mussolini non fu contestato o messo in discussione dalla stampa britannica. E tutti sappiamo cosa è successo a Suez nel 1956. Quando si tratta di storia, noi giornalisti lasciamo che i presidenti e primi ministri ci prendano in giro. 

Ma la parte più pericolosa della nostra nuova guerra semantica, il nostro uso delle parole di potere - anche se non è una guerra, dal momento che ci siamo abbondantemente arresi - è che ci isola dai nostri telespettatori e lettori. Non sono stupidi. Capiscono le parole in molti casi - temo - meglio di noi. Anche la storia. Loro sanno che noi disegniamo il nostro vocabolario dal linguaggio di generali e presidenti, dalla cosiddetta élite, dalla prepotenza degli esperti dell'Istituto Brookings, o da quelli della Rand Corporation. Così siamo diventati parte di questo linguaggio. 

Nel corso delle ultime due settimane, mentre stranieri - umanitari o " attivisti terroristi " - hanno cercato di portare cibo e medicinali via mare agli affamati palestinesi di Gaza, noi giornalisti avremmo dovuto ricordare ai nostri telespettatori e ascoltatori un giorno di tanto tempo fa, quando l'America e la Gran Bretagna sono andate in aiuto di una popolazione recintata, portando cibo e combustibile - i nostri stessi militari morirono nel farlo - per aiutare una popolazione affamata. Quella popolazione era stata rinchiusa in una recinzione eretta da un esercito brutale che voleva affamare il popolo per portarlo alla sottomissione. L'esercito era quello russo. La città era Berlino. Il muro sarebbe venuto più tardi. Quelle persone erano state i nostri nemici solo tre anni prima. Eppure abbiamo attivato il ponte aereo di Berlino per salvarle. Ora, guardate oggi Gaza: quale giornalista occidentale - dal momento che amiamo paralleli storici - ha mai menzionato la Berlino del 1948 nel contesto di Gaza? 

Invece, che cosa abbiamo ottenuto? "Attivisti" che si trasformò in "attivisti armati" nel momento in cui si sono opposti all’ imbarco armato dell'esercito israeliano. Come osano questi uomini sconvolgere il lessico? La loro punizione è stata evidente. Sono diventati "terroristi". E i raid israeliani - in cui "attivisti" sono stati uccisi (un'altra prova del loro "terrorismo") – sono poi diventati "mortali" incursioni. In questo caso, "mortali" era più scusabile di quanto lo fosse stato sulla CTV - nove i morti di origine turca che è leggermente meno del milione e mezzo di armeni uccisi nel 1915. Ma è stato interessante che gli israeliani - che per loro motivi politici fino ad allora avevano vergognosamente assecondato la smentita turca - ora, all'improvviso, hanno voluto informare il mondo del genocidio armeno del 1915. Questo ha provocato un brivido comprensibile tra molti dei nostri colleghi. I giornalisti che hanno regolarmente evitato qualsiasi menzione del primo olocausto del 20° secolo - a meno che non facciano anche riferimento al modo in cui i turchi "contestano accanitamente" l’etichetta genocidio (ergo il Toronto Globe and Mail) – potrebbero improvvisamente riferirsi ad esso. Il nuovo ritrovato interesse storico di Israele ha reso il soggetto legittimo, anche se quasi tutti i rapporti giornalistici hanno cercato di evitare qualsiasi spiegazione su ciò che effettivamente accadde nel 1915. 

E cosa è diventato il raid marittimo israeliano? E' diventato un "raid rattoppato”. Rattoppato è una parola bellissima. Iniziò come termine tedesco di origine inglese medio, "bocchen", che significava “riparare malamente". E noi, ci siamo più o meno tenuti a tale definizione fino a quando i nostri consulenti di lessico giornalistico hanno cambiato il suo significato. I ragazzi delle scuole "rattoppano", un esame. Potremmo "rattoppare" un pezzo di cucito, un tentativo di riparare un pezzo di materiale. Potremmo anche rattoppare un tentativo di convincere il nostro capo a darci un aumento. Ma ora noi "rattoppiamo" un' operazione militare. Non è stata un disastro. Non è stata una catastrofe. Ha solo ucciso alcuni turchi. 

Quindi, data la cattiva pubblicità, gli israeliani hanno solo "rattoppato" il raid. Stranamente, l'ultima volta che giornalisti e governi hanno utilizzato questa particolare parola, è stato a seguito del tentativo di Israele di uccidere il leader di Hamas, Khaled Meshaal, per le strade di Amman. In quel caso, gli assassini professionisti israeliani furono catturati dopo aver tentato di avvelenare Meshaal, e re Hussein costrinse l'allora primo ministro israeliano (un certo B Netanyahu) a fornire l'antidoto (e a scarcerare molti "terroristi" di Hamas). La vita di Meshaal fu salva. 

Ma per Israele e i suoi giornalisti occidentali obbedienti questo è diventato un "tentativo fallito" sulla vita di Meshaal. Non perché egli non fosse destinato a morire, ma perché Israele fallì nell’ ucciderlo. Si può così "rattoppare" un'operazione uccidendo turchi - oppure è possibile "rattoppare", un' operazione non uccidendo un palestinese. 

Come si fa a rompere con il linguaggio del potere? Ci sta certamente uccidendo. Questo, temo, è uno dei motivi per cui i lettori si sono allontanati dalla "grande stampa” per Internet. Non perché la rete è libera, ma perché i lettori sanno di essere stati ingannati e truffati; sanno che quello che guardano e che leggono sui giornali è un'estensione di quello che sentono dal Pentagono o dal governo israeliano; che le nostre parole sono diventate sinonimi con il linguaggio di un governo legittimato, attentamente triturate, che nascondono la verità, mentre sicuramente ci rendono politicamente - e militarmente - alleati di tutti i principali governi occidentali. 

Molti dei miei colleghi di diversi giornali occidentali rischierebbero infine il posto di lavoro se contestassero continuamente la falsa realtà del giornalismo d’informazione, nesso del potere mediatico - governativo. Quante testate giornalistiche hanno pensato di trasmettere un servizio, al momento del disastro di Gaza, del ponte aereo per rompere il blocco di Berlino? Lo ha fatto la BBC? 

Col cavolo lo hanno fatto! Preferiamo le "narrazioni concorrenti". I politici non volevano che il viaggio di Gaza – l’ho detto alla riunione di Doha l’11 maggio - giungesse a destinazione, "sia che la sua fine fosse riuscita, farsesca o tragica ". Crediamo nel "processo di pace", nella "tabella di marcia". Manteniamo il "recinto" intorno ai palestinesi. Lasciamo che i "capoccioni" risolvano il problema. E ricordiamo che si tratta di: "terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore." 

Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk/
Link: http://www.independent.co.uk/opinion/commentators/fisk/fighting-talk-the-new-propaganda-2006001.html
21.07.2010 

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CONCETTA DI LORENZO