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04 agosto 2017

Otto principi fondamentali della politica economica cinese contemporanea

Da Giù le mani dalla Cina.

Il rapido sviluppo economico della Cina negli ultimi anni è stato spesso definito con aggettivi quali “miracoloso” [1]. Parlare di un “Beijing Consensus” o di un “modello cinese” è diventata ormai prassi comune nei dibattiti accademici.
Ma, come abbiamo scritto altrove, “forti problemi teorici sono iniziati ad emergere per quanto riguarda l’esistenza, il contenuto, e le prospettive del modello Cina” [2]. La domanda chiave, quindi, è la seguente: quale tipo di teoria economica e quale strategia sono alla base di questo “miracolo”? Il modello cinese è stato variamente descritto, alternativamente, come una forma di neoliberismo, o come un nuovo tipo di keynesismo. Riteniamo che i grandi progressi recenti registrati nello sviluppo del paese siano i risultati dei progressi teorici nel campo dell’Economia Politica, verificatisi all’interno dello stesso contesto cinese; al contrario, i principali problemi che hanno accompagnato lo sviluppo della Cina riflettono l’influenza dannosa del neoliberismo occidentale.
Il presidente Xi Jinping ha sottolineato la necessità di sostenere e sviluppare una politica economica Marxiana per il XXI secolo, adattata alle esigenze e alle risorse della Cina. Il bollettino di una conferenza sullo stato dell’Economia cinese del Comitato Centrale del Partito Comunista (tenutasi nel Dicembre 2015), ha riaffermato, di conseguenza, l’importanza degli otto grandi principi della “Economia Politica Socialista con Caratteristiche Cinesi”.
Questi principi e le loro applicazioni sono discussi nel seguito, insieme ad alcuni commenti sulle possibili interpretazioni, attualmente oggetto di dibattito intellettuali cinesi.
Scopo di questo articolo è quello di chiarire il modello teorico ufficiale che sta alla base del “miracolo” economico cinese, utilizzando, a tal fine, i termini e i concetti prevalenti nella Cina odierna.
1. Sostenibilità guidata da Scienza e Tecnologia
Una premessa fondamentale delle teorie di economia politica elaborate da Marx sostiene che le forze di produzione, in ultima analisi, determinano i rapporti di produzione, dando origine ad una dialettica costante che modella la sovrastruttura dell’ideologia e delle istituzioni giuridiche e politiche. Allo stesso tempo, i rapporti di produzione che prevalgono in un determinato stadio di sviluppo finiscono per diventare vincoli che impediscono l’ulteriore sviluppo di altre modalità produttive. All’interno di questo processo le forze di produzione rappresentano gli elementi più dinamici, rivoluzionari e attivi della società; gli esseri umani che sviluppano costantemente le tecnologie più avanzate e nuove modalità organizzative rappresentano la forza motrice della produzione. Oggi lo sviluppo della produttività comporta tre elementi essenziali sostanziali: la forza-lavoro, gli strumenti ed i macchinari, i materiali. A questi si accompagnano tre ulteriori elementi fortemente interrelati: la scienza e la tecnologia, la gestione, l’istruzione. Tra questi, la scienza e la tecnologia tendono a guidare i cambiamenti decisivi che portano all’ulteriore sviluppo delle forze di produzione.
Il principio della sostenibilità, ispirato dalla scienza e dalla tecnologia, è fondamentale nello studio della politica economica della Cina. Questo principio enfatizza il fatto che la liberazione e lo sviluppo delle forze di produzione costituiscano la missione principale del Socialismo nei suoi stadi primari. Come modello economico, il Socialismo richiede un certo livello di sviluppo materiale e tecnologico alla sua base. Questo principio sottolinea che la crescita della popolazione, lo sfruttamento e l’allocazione delle risorse, l’ambiente debbano sostenersi a vicenda. In pratica, secondo il quadro economico-politico ufficiale della Cina, questo significa la costruzione di una società dalle tre caratteristiche fondamentali: una società qualitativamente avanzata,  da raggiungere attraverso il controllo e la riduzione della popolazione; una società efficientemente avanzata, cui pervenire attraverso la conservazione delle risorse;  una società in cui l’ambiente sia protetto e tutelato. Tutto ciò richiede continua innovazione come forza motrice.
L’accento sull’innovazione sostenibile è particolarmente importante oggi. Storicamente, il “collo di bottiglia” che ha limitato lo sviluppo economico e sociale cinese è stato rappresentato dalla carenza di forze motrici dell’innovazione. Dal 1998 al 2003, la produzione di alta tecnologia della Cina non solo dipendeva in larga misura da materiali importati, ma è stata anche in gran parte gestita da imprese e da investitori stranieri. Ad esempio, nel 2003, le imprese cinesi dipendenti da investimenti stranieri rappresentavano circa il 90% delle esportazioni del paese di computer, componenti e periferiche, ed il 75% delle sue esportazioni di attrezzature elettroniche e per le telecomunicazioni [3]. Da allora, il governo cinese ha prestato maggiore attenzione alla politica dell’ innovazione.
Solo se i diritti di proprietà intellettuale saranno protetti a tutti i livelli le imprese cinesi e l’economia nel suo complesso potranno sfruttare i vantaggi commerciali derivanti dall’utilizzo di marchi riconosciuti e da progressi tecnici in alcuni settori, così come soddisfare gli standard tecnici internazionali necessari per l’esportazione [4]. Nel clima economico attuale, solo se riconosciamo all’innovazione il ruolo di prima forza motrice dello sviluppo, possiamo proteggere il paese da vari rischi: risolvere la difficoltà connesse all’eccesso di capacità produttiva; realizzare la trasformazione strutturale e l’aggiornamento dell’economia; tenere il passo con il ritmo dello sviluppo scientifico e tecnologico globale. Solo se affidiamo all’innovazione il compito primario di promuovere lo sviluppo e la usiamo per trasformare le forze produttive esistenti, coltivarne di nuove, rivitalizzare quelle vecchie, e creare le condizioni affinché possano emergerne di nuove costantemente, possiamo infondere forti stimoli allo sviluppo sostenibile dell’economia e della società.
Dovremmo, al tempo stesso, abbandonare quelle vecchie idee prevalenti nel discorso economico cinese come “produrre non è vantaggioso come l’acquistare, che a sua volta non è altrettanto vantaggioso quanto la rendita”, “utilizzare il mercato per l’acquisizione delle tecnologie” e così via, e affrontare la questione dell’innovazione originale, dell’innovazione integrata, e della ri-innovazione, introducendo e assorbendo l’innovazione nell’economia. Dovremmo stabilire un sistema che combini governo, mercato e tecnologia, al fine di trasferire spontaneismo economico nei processi di “atomizzazione” produttiva. Durante questo processo, l’effetto determinante della scienza e della tecnologia deve essere pienamente compreso, e dovremmo, a livello strategico, riconoscere l’importanza della scienza e della tecnologia nel guidare la distribuzione delle risorse [5].
2. Orientare la produzione per migliorare la vita delle persone
Uno dei principi dell’economia politica è la teoria dello scopo della produzione. Nel Capitalismo, l’obiettivo diretto e finale della produzione è quello di accumulare la maggiore quota possibile di plusvalore o profitto privato; in questo contesto, la produzione di valore d’uso ha lo scopo di servire la produzione di plusvalore o profitto privato. A questo proposito, c’è una differenza sostanziale tra il Capitalismo e il Socialismo. Nel Capitalismo, che persegue il profitto dei pochi, l’accumulo si verifica su scala mondiale, mentre la grande maggioranza delle masse popolari vivono in povertà [6]. In contrasto con questo modello, l’obiettivo diretto e ultimo della produzione nel Socialismo è quello di soddisfare i bisogni materiali e culturali delle persone. La produzione di nuovo valore e di plusvalore “pubblico” ha l’obiettivo di servire la produzione di valore d’uso che rifletta obiettivi della produzione orientati al popolo ed ai suoi bisogni primari.
L’Economia Politica del Socialismo con Caratteristiche Cinesi deve seguire il principio di organizzare la produzione per migliorare il tenore di vita e soddisfare le esigenze primarie del popolo. Questo principio sottolinea che la principale contraddizione nel Socialismo nella sua prima fase è quella tra o crescenti bisogni materiali e culturali del popolo, e l’arretratezza della produzione sociale. Questa discrepanza può essere superata solo attraverso lo sviluppo rapido e costante delle capacità produttive; questo è il compito primario del Socialismo nelle sue fasi iniziali. Questo sviluppo deve avere il popolo al centro, con la prosperità collettiva come obiettivo-guida. Il nostro obiettivo deve essere una società in cui tutte le persone contribuiscano alla soddisfazione dei bisogni umani nella misura in cui essi sono in grado, e godano di un accesso alle risorse materiali, sociali, e spirituali di cui hanno bisogno per il pieno sviluppo del loro potenziale umano in accordo, naturalmente, con le esigenze di sostenibilità ambientale [7].
Il punto di vista per il quale il miglioramento delle condizioni di vita del popolo equivale allo sviluppo è un’articolazione del principio dello scopo della produzione e dello sviluppo economico socialista. Dobbiamo continuare a rendere lo sviluppo economico il nostro compito centrale e insistere sull’idea strategica di dare allo sviluppo economico primaria importanza. Dobbiamo perseguire l’innovazione come elemento fondamentale per questo cambiamento favorendo in tal modo lo sviluppo cinese e permettendogli di raggiungere livelli più elevati. Tuttavia, il punto di partenza e il punto di arrivo dello sviluppo della produzione e dell’economia deve essere quello di migliorare le condizioni di vita delle persone; ci dovremmo quindi porre l’obiettivo di costruire una società benestante a tutto tondo. Ogni piano di miglioramento delle condizioni di vita del popolo deve cercare di soddisfare sette criteri: creazione di ricchezza e distribuzione del reddito; alleviamento della povertà; occupazione; diritto alla casa; istruzione; accesso alle cure mediche; sicurezza sociale. Nelle attuali circostanze di rallentamento della crescita e di sviluppo dei mercati interni, questi criteri devono essere soddisfatti attraverso il coordinamento della necessità di sviluppo economico e di sviluppo sociale.
Migliorare le condizioni di vita del popolo è un compito senza fine, relativamente al quale emergono continuamente nuove sfide. Dobbiamo adottare misure più mirate e dirette, aiutare i lavoratori a risolvere le loro difficoltà e promuovere il loro benessere attraverso le istituzioni statali e la società civile. Dobbiamo valutare realisticamente gli effetti delle nostre azioni sugli standard di vita, assicurando che i servizi pubblici creino una affidabile “rete di sicurezza”.
3. La precedenza della proprietà pubblica sui diritti della proprietà nazionale
Le tensioni di base tra una produzione sempre più orientata a servire scopi sociali e la proprietà privata capitalista danno luogo ad ulteriori contraddizioni e possibili crisi. Queste includono il conflitto tra la gestione e la pianificazione delle imprese private e il caos del mercato, la disparità tra l’espansione indefinita della produzione e la relativa carenza di domanda reale, ed il verificarsi di periodiche bolle, fenomeni di panico nei mercati, recessioni. Gli antagonismi di classe che derivano da queste contraddizioni hanno storicamente ispirato movimenti di massa per sostituire la proprietà privata dei mezzi di produzione con la proprietà pubblica.
L’economia politica contemporanea cinese salvaguarda il principio dei diritti di proprietà privata, ribadendo, tuttavia, il predominio della proprietà pubblica. Nel contesto del relativo sottosviluppo delle forze produttive proprio degli stadi primari del Socialismo, lo sviluppo economico ha richiesto che ad una proprietà pubblica dominante fossero affiancate forme diversificate di proprietà privata: “Le imprese private nazionali ed estere possono essere sviluppate fatto salvo il presupposto della priorità – sia in termini qualitativi che quantitativi – dell’ economia pubblica” [8]. Questo principio sottolinea la continua necessità di rafforzare e sviluppare l’economia pubblica, favorendo, al contempo, anche lo sviluppo dei settori privati dell’economia, assicurando che tutte le forme di proprietà compensino le proprie mutue carenze attraverso una reciproca promozione ed uno sviluppo coordinato. Cionondimeno, il ruolo centrale della proprietà pubblica deve essere salvaguardato, così come il settore statale deve conservare un carattere dominante nell’economia. Questo rappresenta una garanzia istituzionale per tutti i cinesi rispetto al fatto che essi condivideranno, a livello collettivo, i frutti dello sviluppo; al tempo stesso, ciò è una garanzia importante del consolidamento del ruolo-guida del partito e del sistema socialista cinese.
Il principio mette in risalto una differenza fondamentale tra l’economia socialista ed il sistema economico capitalistico moderno, in cui la proprietà privata è dominante. Se gestita correttamente, la proprietà pubblica può non solo avere una integrazione organica con l’economia di mercato, ma anche ottenere, come risultato finale, una maggiore equità ed efficienza rispetto a quella cui è possibile pervenire tramite la proprietà privata. Nel frattempo, dovremmo anche notare chiaramente che attualmente il mondo è ancora diviso in stati-nazione e che la proprietà statale rimane una forma adeguata di proprietà socialista.
Allo stato attuale, dobbiamo essere guidati dall’idea che il settore statale agisca come fondamento dell’economia socialista, e che l’obiettivo delle riforme orientate a promuovere la proprietà mista non è quello di minare alle fondamenta l’impresa di proprietà statale, ma di rafforzarla. Dobbiamo imparare dagli errori passati della riforma del settore statale, che hanno permesso ad una élite ristretta di accumulare enormi fortune attraverso la cattiva gestione di fondi pubblici. Abbiamo bisogno di concentrarci sullo sviluppo di nuovi strumenti di proprietà mista con la partecipazione di capitali pubblici. Il modello collettivo e cooperativo delle economie cinesi rurali ha bisogno di ulteriori investimenti. Nuove politiche devono essere introdotte per migliorare la vitalità, la competitività, e la gestione del rischio dell’economia pubblica. Il governo dovrebbe controllare e regolare le imprese private, sia in patria che all’estero, e non solo supportarle, al fine di trarne benefici generali, riducendo al minimo i loro effetti negativi. La Cina dovrebbe incoraggiare e guidare le imprese private ad attuare le riforme che consentano ai lavoratori di accumulare partecipazione azionaria, in modo che sia il capitale che il lavoro possano trarre benefici che siano realmente a vantaggio della prosperità collettiva.
4. Il primato del lavoro nella distribuzione della ricchezza
In ogni economia capitalista, i lavoratori salariati sono pagati solo in base alla loro forza lavoro, e non per il valore delle merci che producono. In queste condizioni, il salario specifico che un lavoratore guadagna è associato con la sua posizione e le sue prestazioni. E mentre in alcuni settori delle economie capitaliste, la presenza di organizzazioni collettive del mondo del lavoro può limitare il tasso di sfruttamento e fornire l’apparenza di una equa distribuzione della ricchezza, il potere dominante resta quello fornito dalla proprietà privata dei mezzi di produzione ai datori di lavoro.
La distribuzione della ricchezza nell’economia socialista cinese deve essere guidata dalle esigenze del lavoro; non da quelle del capitale. Dobbiamo lottare contro lo sfruttamento e la polarizzazione. Le disuguaglianze nei redditi devono essere colmate, e crescita economica e aumenti nella produttività del lavoro dovrebbero tradursi in aumenti salariali per tutti i cittadini. E’ di vitale importanza, dunque, stabilire un solido e scientifico meccanismo per determinare i livelli salariali, così come un meccanismo di indicizzazione dei salari.
Dobbiamo mettere in pratica l’idea che solo attraverso la costruzione di istituzioni atte a garantire che i benefici della crescita della Cina siano equamente distribuiti si potrà fornire al popolo un senso di scopo comune rispetto al progetto di sviluppo economico. Dobbiamo rafforzare lo slancio dello sviluppo e promuovere l’unità popolare, avanzando gradualmente e costantemente verso la prosperità collettiva. Solo se l’allocazione delle risorse si concentrerà sul benessere collettivo, la produzione sociale potrà essere effettuata in modo sano e costante e la superiorità del sistema socialista potrà essere realizzata nella pratica.
L’adesione ad una idea di sviluppo condiviso coinvolge principalmente i problemi di sostentamento del popolo e della prosperità collettiva; tra questi, il problema della distribuzione della ricchezza è sicuramente il più rilevante. Infatti, oggi, la cattiva distribuzione della ricchezza è il più grande ostacolo alla prosperità collettiva. Abbiamo assistito a un grave declino della quota di lavoro del PIL (da circa il 53% nel 1990 al 42% nel 2007). La presenza di un crescente “esercito industriale di riserva”, la segmentazione del mercato del lavoro, e le massicce privatizzazioni delle imprese statali hanno significativamente depresso il potere e indebolito la solidarietà interna alla classe operaia [9]. In Cina oggi, le disuguaglianze nella distribuzione della proprietà e nel reddito sono grandi e in crescita, con un coefficiente di Gini nazionale superiore a quello degli Stati Uniti. Il più ricco 1% delle famiglie cinesi controlla un terzo di tutte le attività economiche; un dato simile a quello osservabile negli Stati Uniti. Dobbiamo notare che l’indice principale di polarizzazione tra ricchi e poveri non è fornito dal reddito da salari, ma dalla ricchezza, cioè, dal patrimonio netto delle famiglie [10].
Negli ultimi dieci anni, i documenti ufficiali hanno sottolineato l’importanza di implementare misure per affrontare il problema della disuguaglianza nei redditi, ma ciò si è rivelato controverso. In genere, alcuni articoli rintracciabili nella stampa cinese persino elogiano i ricchi come motori della crescita economica e come modelli di comportamento sociale, i quali, in tal modo meriterebbero di detenere una quota sproporzionata di ricchezza del paese. Questa idea, oggi assai popolare, ma dal potenziale altamente distruttivo, sostiene che l’attuale divario tra ricchi e poveri è un problema banale, non correlato allo sviluppo su larga scala delle economie non-pubbliche, e che la vera preoccupazione è ora la cosiddetta “trappola del reddito medio” [11].
In realtà, è stato il neoliberismo ad inventare il concetto di “trappola del reddito medio”, e a trascinare i paesi dell’America Latina in esso. Ha inoltre contribuito affinché le economie ad alto reddito, come gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione Europea, precipitassero in una crisi finanziaria, e paesi a basso reddito, come quelli dell’Africa sub-sahariana restassero impantanati in prospettive di sviluppo lento a lungo termine. L’economista Mylene Gaulard scrive quanto segue:
La crescita economica cinese ha rallentato dal 2002. Molte ricerche sulla “trappola del reddito medio” stanno mantenendo un occhio vigile sulla possibilità o meno, da parte della Cina, di unirsi al gruppo di nazioni ad alto reddito con il suo PIL pro capite. La maggior parte delle ricerche paiono esprimere scetticismo dovuto all’aumento del costo salariale, per l’esattezza, all’aumento del costo unitario del lavoro, che comporterebbe la perdita di competitività internazionale. Tuttavia, a causa del fatto che l’aumento del costo unitario del lavoro non sembra così rischioso come la diminuzione dell’efficienza del capitale, dovremmo consultare l’ analisi marxista per comprendere meglio questo problema. [12]
La Cina deve prestare attenzione agli insegnamenti di Deng Xiaoping, espressi alla fine del secolo scorso, per risolvere i problemi del divario tra ricchi e poveri e per raggiungere la prosperità collettiva, sviluppando un meccanismo per la ricchezza e la distribuzione del reddito basato sul primato del lavoro [13].
5. Il principio del mercato guidato dallo Stato
Il carattere anarchico del mercato capitalistico, e la spinta del singolo capitalista ad innovare al fine di ridurre i costi del lavoro, portano periodicamente alle crisi di sovrapproduzione, delle quali sono i lavoratori a soffrire maggiormente. Tali crisi possono essere a breve o a lungo termine, a seconda del grado di fattori “non di mercato” presenti, in particolare dal livello di condizioni monopolistiche. In un’economia di mercato capitalistica, questa legge proporzionale si basa principalmente su tali aggiustamenti spontanei, e il ruolo della regolamentazione statale è relativamente limitato.
Al contrario, nell’economia socialista cinese, il mercato è guidato dallo Stato; non il contrario. Marta Harnecker ha sostenuto che, senza la pianificazione partecipativa non può esistere il Socialismo, non solo a causa della necessità di porre fine all’anarchia della produzione capitalistica, ma anche perché solo attraverso l’impegno di massa la società può veramente appropriarsi dei frutti del suo lavoro. Gli attori da coinvolgere nella progettazione partecipata varieranno in base ai diversi livelli di proprietà sociale [14]. Questi principi di un “mercato guidato dallo stato” sottolineano che una società socialista è in grado di sviluppare un’economia di mercato in modo pianificato e proporzionato, e che il ruolo fondamentale svolto dal mercato nell’allocazione delle risorse deve dispiegarsi sotto la stretta supervisione del governo.
Nel dare al mercato un ruolo determinante nella allocazione generale delle risorse, promuovendo al contempo il ruolo regolatore del governo, ogni sforzo deve essere fatto per affrontare i problemi connessi ai meccanismi imperfetti di mercato, al rischio di un eccessivo intervento pubblico, e, sull’altro versante, a quello di una scarsa vigilanza regolamentativa. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo avanzare riforme orientate al mercato che riducano significativamente l’assegnazione diretta delle risorse da parte del governo e permettano a questa allocazione di verificarsi in base alle regole del mercato (in base a prezzi e concorrenza) per ottenere la massima efficienza. I compiti e le funzioni del governo sono principalmente di mantenere una politica macroeconomica stabile, di rafforzare i servizi pubblici, per garantire una concorrenza leale e rafforzare la sorveglianza del mercato, per promuovere la prosperità collettiva e correggere o compensare le carenze del mercato.
Dobbiamo continuare a cercare di combinare il sistema di base del socialismo con un’economia di mercato. In questo modo, saremo in grado di trarre il massimo vantaggio di entrambi gli aspetti. Va riconosciuto che nell’economia cinese, le leggi dell’ auto-regolamentazione del mercato svolgono un ruolo determinante per quanto riguarda l’allocazione delle risorse in generale, ma queste comunque operano in modo diverso rispetto ai mercati capitalistici. In un’economia capitalistica, il funzionamento del mercato decide l’allocazione delle risorse in maniera autonoma. Al contrario, in un’economia socialista, il governo usa il controllo dei prezzi, le sovvenzioni, il razionamento, e le altre politiche per assicurare che l’allocazione delle risorse sia pianificata e proporzionata. Abbiamo bisogno, quindi, di esaminare meglio il ruolo determinante del mercato e la sua integrazione nei piani del governo. Dovremmo approfittare dei benefici che il  mercato è in grado di offrire e, allo stesso tempo correggere le inefficienze nei meccanismi di regolamentazione sia dello Stato che del mercato stesso, pervenendo così ad un duplice approccio [15]. Ovviamente, visto che l’economia cinese socialista di mercato si basa sul primato della proprietà pubblica, la forza e la portata della regolamentazione in settori quali la legislazione, la politica fiscale, amministrazione, e l’etica superano la capacità di regolamentazione dei governi nelle economie di mercato capitalistiche. Le prestazioni senza precedenti dell’economia cinese negli ultimi decenni sono la prova convincente della maggiore capacità del governo di guidare lo sviluppo.
Non dobbiamo negare l’oggettività della programmazione statale, della pianificazione e della regolamentazione, e ritenere che concetti quali la “legge di regolamentazione statale”, la “legge di pianificazione”, e altre simili leggi fondamentali perdano di validità esclusivamente perché esse possano tramutarsi in eventuali azioni sbagliate a causa della implementazione da parte di attori umani. Sposando questa logica, si dovrebbe ugualmente convenire che, poiché anche nell’attività di mercato esiste un elemento umano, nozioni come la “legge di regolamentazione del mercato” e la “legge del valore” siano ugualmente non applicabili. Dopo tutto, il mercato è determinato dal comportamento umano. L’azione economica umana nel mercato regola l’impresa, la natura delle merci, i prezzi e la concorrenza. Pertanto, sia le leggi di regolamentazione del mercato che quelle di regolamentazione statale si basano su attività umane, nella forma e nel contenuto. Buoni ed efficaci approcci alla micro- e alla macroeconomia richiedono che tutti i lavoratori nelle imprese e il governo cerchino di fornire i propri contributi individuali in sintonia con le attività economiche oggettive in cui gli esseri umani partecipano.
6. Uno sviluppo rapido e ad alte prestazioni
Il tasso di crescita economica ottimale dovrebbe essere determinato in modo da massimizzare le prestazioni economiche. Un tasso di crescita relativamente basso, caratterizzato da un insufficiente uso delle risorse, inibisce la piena occupazione, l’ accumulazione di ricchezza e il benessere pubblico. Eppure, un tasso di crescita più elevato, con un utilizzo delle risorse estensivo piuttosto che intensivo è altrettanto dannoso per la sostenibilità ecologica e per la giustizia distributiva [16]. Qualsiasi indice basato sul Prodotto Interno Lordo (PIL) va analizzato dialetticamente. Valutato in isolamento, qualsiasi approccio di misurazione della crescita incentrato unicamente sul PIL è inadeguato: dobbiamo prestare attenzione non solo alla crescita fine a sé stessa, ma anche al tipo di crescita verso il quale ci stiamo indirizzando, in quali aree essa si concentra, e a quali costi.
L’economia cinese dovrebbe dare la priorità alle prestazioni, piuttosto che alla velocità. Dal 1980 fino al 1990, la crescita economica è stata la priorità assoluta del governo cinese; il PIL è stato quadruplicato nel corso di tale periodo. Entro il 2020, si prevede che il PIL ed il PIL pro-capite doppieranno gli analoghi indicatori misurati nel 2010. Dal 2013, a seguito di trenta anni di crescita rapida quasi ininterrotta, la Cina è entrata in una nuova fase che noi chiamiamo la “nuova normalità”. La crescita ha subito un rallentamento, e l’ economia cinese si sta trasformando da un ampio modello a forte crescita in un modello ad alte prestazioni.
Per raggiungere una crescita economica stabile, dovremmo preoccuparci, anzitutto, di effettuare riforme strutturali per quel che concerne l’economia dell’offerta. Le ragioni principali per il crescente rallentamento dei tassi di crescita dell’economia cinese sono: la mancata riforma delle strutture necessarie per sostenere lunghi periodi di crescita estensiva; la dipendenza di queste ultime dagli input di materie prime; il consumo di risorse primarie; i bassi livelli di innovazione. I cambiamenti della situazione economica, sia in patria che all’estero richiedono un aggiornamento urgente dell’economia cinese: da uno sviluppo rapido ad uno sviluppo di alta qualità [17]. Il mercato del lavoro cinese dovrebbe cambiare ed imbracciare una divisione maggiormente diversificata del lavoro, con una struttura più flessibile.
7. Sviluppo equilibrato con coordinamento strutturale
Uno dei principi di economia politica della Cina è la legge di distribuzione proporzionale del lavoro sociale (o “legge proporzionale” in breve), che governa la contraddittoria dialettica tra produzione sociale e la domanda, insieme alla necessità di coordinare lo sviluppo per l’intera economia nazionale. Tale legge richiede che il lavoro sociale complessivo di persone, strumenti e materiali dovrebbe essere distribuito proporzionalmente in base alla domanda, al fine di mantenere un equilibrio strutturale tra le diverse industrie ed i diversi settori. Nella riproduzione sociale, la produzione e la domanda mantengono un equilibrio dinamico nella loro struttura di valore massimizzando la produzione, riducendo al minimo, al contempo, l’utilizzo di lavoro. Il coordinamento strutturale generalizzato dell’economia si riflette, tra gli altri, nella crescente razionalizzazione e raffinatezza delle infrastrutture industriali, nel commercio estero, nella gestione aziendale, nell’innovazione tecnologica.
Questo principio di equilibrio strutturale coordinato è essenziale per l’economia politica cinese contemporanea. Esso fa parte del suo più ampio obiettivo di promuovere l’evoluzione dell’industria cinese da un livello medio-basso livello ad un livello medio-alto. Nel contesto di crescente modernizzazione, un equilibrio dovrebbe essere mantenuto tra i settori primario, secondario e terziario, ed all’interno di ciascun settore. Le strutture economiche delle province, delle città e delle regioni dovrebbero essere diversificate; il commercio estero dovrebbe coinvolgere una quota maggiore di prodotti nuovi e ad alta tecnologia dei marchi nazionali. Le grandi imprese cinesi dovrebbero mantenere la quota maggiore del commercio, coesistendo con imprese più piccole ed imprese straniere. Per quanto riguarda i prodotti ad alta tecnologia, la percentuale di tecnologie di base possedute e la proporzione dei diritti di proprietà intellettuale detenuti sul mercato mondiale dovrebbero essere aumentate. Nel mercato, la domanda e l’offerta dovrebbero mantenere un equilibrio dinamico, con l’offerta leggermente superiore alla domanda. Lo sviluppo dovrebbe servire l’economia reale e l’economia virtuale non deve essere eccessivamente sviluppata. Le attività di industrializzazione, informatizzazione, urbanizzazione e modernizzazione agricola dovrebbero essere condotte in stretto coordinamento.
Al momento, dobbiamo adattare le nostre teorie, le nostre linee guida e le politiche per lo sviluppo economico a quella che chiamiamo “nuova normalità”. Dobbiamo concentrarci sul rafforzamento delle riforme strutturali dell’offerta, e, al contempo, incrementare moderatamente la domanda lorda e riformare i principali settori dell’economia, con particolare attenzione alla riduzione della eccessiva capacità strutturale. Dovremmo gradualmente ridimensionare la capacità e le riserve, ridurre l’indebitamento delle imprese, e promuovere l’innovazione per ridurre i costi e rafforzare i segmenti deboli del sistema produttivo. I miglioramenti devono essere effettuati anche nella qualità e l’efficienza delle catene logistiche, degli approvvigionamenti, e nell’efficacia degli investimenti. E’ anche importante accelerare lo sviluppo di fonti energetiche eco-compatibili e la dare impulso ad una crescita sostenibile. Dobbiamo abbandonare la persistente idea sbagliata secondo la quale finché si eliminano surplus economici dovuti ad  interventi amministrativi, gli eccessi di capacità produttiva e le sovrapproduzioni causati dal mercato possano essere bilanciati automaticamente senza alcun intervento attivo del governo. Questo errore neoliberista e le sue conseguenze non sono solo la ragione principale per il grande eccesso di capacità produttiva presente nell’economia cinese, ma rappresenta anche una violazione dello spirito del Socialismo cinese.
8. Sovranità economica e apertura
Un principio finale è quello di aprire l’economia al commercio e agli investimenti. Secondo questo principio, tale apertura è vantaggiosa per la crescita economica sia in patria che per quel che concerne le attività commerciali con l’estero, favorendo l’ottimizzazione nell’allocazione delle risorse e il miglioramento delle interazioni tra industria e tecnologia. Le modalità di tali aperture, unitamente alla loro gamma e portata, dovrebbero essere discusse, decise ed attuate in modo flessibile e rispondente alle condizioni complesse e mutevoli dell’economia nazionale e globale. I paesi emergenti ed in via di sviluppo dovrebbero sempre dedicare particolare attenzione alle loro strategie e tattiche nel momento in cui si aprono ai paesi sviluppati, dati i rischi e le incertezze insiti in un rapporto così disuguale.
Una politica economica socialista con caratteristiche cinesi deve concentrarsi, di conseguenza, sul principio della sovranità economica. La Cina dovrebbe insistere sulla politica statale di apertura bidirezionale che integra la politica nazionale e internazionale, sviluppando un’economia aperta di livello superiore traendo vantaggio dai mercati nazionali ed esteri. Ciò comporta l’impostazione di una politica commerciale volta a identificare e sfruttare opportunità reciprocamente vantaggiose, proteggendo nel contempo lo sviluppo della Cina e proteggendo il paese da rischi per la sicurezza economica nazionale. Essa richiede una politica che dia uguale importanza al contributo straniero in economia sia in termini di input che in termini di output, ed in grado di sfruttare sia i latecomer advantages che i pioneer advantages in diversi settori dell’economia [18]. Per fare ciò, la Cina dovrebbe costruire imprese internazionali governate da tre livelli di controllo: il pacchetto azionario, le tecnologie chiave e gli standard tecnologici, unitamente ai marchi dovrebbero rimanere, saldamente, in mani cinesi. Allo stesso tempo, è importante non cadere nelle tradizionali trappole riconducibili alla teoria dei vantaggi comparati [19], e, al contempo, sviluppare teorie e strategie volte a trarre vantaggi dai diritti di proprietà intellettuale.
Nell’immediato futuro, dovremmo concentrarci sull’apertura di diverse regioni al commercio estero, utilizzando i loro punti di forza specifici al fine di evitare una inutile concorrenza tra regioni per lo stesso tipo di commercio, soprattutto quando determinate attività economiche si sposano naturalmente con le caratteristiche di alcune regioni piuttosto che con altre. La Cina dovrebbe fare il miglior uso possibile delle sue importazioni ed esportazioni, non importando prodotti che potrebbero essere altrettanto facilmente prodotti in ambito nazionale, né esportando prodotti per i quali esiste una domanda interna non soddisfatta. E’ altrettanto importante aumentare il livello di distribuzione internazionale, traendo il massimo da competenze e tecnologie straniere per lo sviluppo di capacità di produzione internazionale ed attività manifatturiere. Zone di libero scambio ed investimenti infrastrutturali devono essere negoziati con partner strategici. Nel complesso, la Cina ha bisogno di giocare un ruolo più forte nella governance economica globale.
Un’ulteriore sfida è quella di distribuire in modo efficace gli investimenti esteri cinesi per garantirsi benefici ottimali. Ciò vale anche per le riserve cinesi di valuta estera. A questo proposito è importante imparare il più presto possibile dall’esperienza delle economie sviluppate (Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti) nelle loro relazioni commerciali con partner stranieri. Il problema delle fusioni “decapitanti” è da evitare quando le aziende in crescita e le industrie dall’estero cercano di entrare nel mercato cinese [20]. La Cina deve impegnarsi a rimanere aperta al commercio estero, al fine di approfondire e ampliare la qualità e la crescita della propria produzione economica. Una componente chiave di questa strategia è l’iniziativa “Una Cintura, una Via” [21]. Questo progetto di investimento di massa deve andare di pari passo con lo sviluppo di una nuova architettura finanziaria globale, come incarnata da istituzioni quali la Banca Asiatica per gli Investimenti Infrastrutturali ed il Fondo per la Via della Seta. Queste istituzioni rappresentano punti di riferimento nel più ampio progetto di rafforzare e sostenere il successo economico della Cina.
Articolo di Cheng Enfu e Ding Xiaoqin 
Traduzione di Francesca Cirillo e Andrea Genovese
Ripreso dal sito della Rete dei Comunisti (Italia)
Note Biografiche
Cheng Enfu è un membro dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali e presidente della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World Association for Political Economy).
Ding Xiaoqinè vice direttore del Centro di Economia Politica Socialista con Caratteristiche Cinesi presso la Shanghai University of Finance and Economics, ricercatore post-dottorato presso l’Accademia cinese delle scienze sociali, e segretario generale della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World Association for Political Economy).
Questo articolo è stato tradotto dal cinese all’inglese da Shan Tong (Università di Scienze Politiche e Giurisprudenza della Cina Orientale) e, successivamente, dall’inglese all’italiano ad opera di Francesca Cirillo ed Andrea Genovese.
Note e Riferimenti Bibliografici
[1] La ricerca per questo articolo è stata supportata dal progetto 16NKS081 della Fondazione Nazionale di Scienze Sociali della Cina, e dal progetto 211 della Shanghai University of Finance and Economics. Eventuali richieste di chiarimenti vanno indirizzate Ding Xiaoqin (autore principale dell’articolo).
[2] Enfu Cheng, Xiangyang Xin, “Fundamental Elements of the China Model,”International Critical Thought 1, no. 1 (March 2011): 2–10.
[3] Martin Hart-Landsberg and Paul Burkett, “China, Capitalist Accumulation, and Labor,”Monthly Review 59, no. 1 (May 2007): 17–39.
[4] Xiping Han and Lingling Zhou, “A Review of the Theory of Advantage of Intellectual Property Rights and Its Application Value,”Journal of Economics of Shanghai School 11, no. 3 (2013): 1–9.
[5] Chengxun Yang and Yu Cheng, “The Evolution to Consciousness of Resource Allocation: The Ternary Mechanism—Rethinking the Lessons of Dialectics of Nature by Engels,”Journal of Economics of Shanghai School 13, no. 4 (2015): 31–43.
[6] Harry Magdoff and John Bellamy Foster, “China and Socialism: Editors’ Foreword”, Monthly Review 56, no. 3 (2004): 2–6.
[7] Pat Devine, “Question 1: Why Socialism?”Science & Society 76, no. 2 (2012): 151–71.
[8] Enfu Cheng and Xiangyang Xin, “Fundamental Elements of the China Model,”International Critical Thought 1, no. 1 (2011): 2–10.
[9] Hao Qi, “The Labor Share Question in China,”Monthly Review 65, no. 8 (2014): 23–35.
[10] Secondo Reference News del 17 Ottobre 2015, l’ultimo Hurun Wealth Report mostra che 2015 il numero di miliardari in China (596) ha superato quello degli Stati Uniti (537). Questo numero non include i miliardari di Hong Kong, Macao e Taiwan.
[11] Secondo Hu Shuli (direttrice di  Caixin, gruppo editoriale cinese specializzato nella analisi finanziaria ed economica), una volta che un paese è entrato nella sua fase di reddito medio – considerando l’esportazione di merci ad alta intensità di lavoro come il settore di crescita tradizionale e rappresentativo di una tale condizione – i costi del lavoro cominciano ad aumentare e si perde vantaggio competitivo; considerando la riduzione del divario tecnologico, se si mira a incrementare il tasso di produzione non ci si può più basare sul modello “studio e riproduzione dei prodotti”, ma bisogna avviare un processo di riconversione ricorrendo all’innovazione. Se non si procede in questo modo, si cade tra i due poli dei paesi a basso reddito e di quelli ricchi. Per evitare queste circostanze, settori liberisti cinesi hanno richiesto, più volte, un processo di riforme strutturali per trasformare il modello di crescita economica, lavorando sui punti seguenti: la competizione e la deregolamentazione economica creativa; università con un alto livello di ricerca; un sistema di mercato con una forza lavoro dinamica e che si basi su investimenti con un certo margine di rischio; un sistema finanziario con un mercato di private equity e Securities (Nota a cura dei traduttori)
[12] Mylene Gaulard, “A Marxist Approach of the Middle-Income Trap in China,”World Review of Political Economy 6, no. 3 (2015): 298–319.
[13] Xinghua Wei, “The Persistence, Development, and Innovation of the Economic Theories on Socialism with Chinese Characteristics,”Studies on Marxism, 10 (2015): 5–16.
[14] Marta Harnecker, “Question 5: Social and Long-Term Planning?” Science & Society 76, no. 2 (2012): 243–66.
[15] Guoguang Liu and Enfu Cheng, “To Have a Comprehensive and Accurate Understanding of the Relationship between Market and Government,”Studies on the Theories of Mao Zedong and Deng Xiaoping, no. 2 (2014): 11–16.
[16] La crescita estensiva si basa sul maggiore utilizzo dei fattori produttivi; la crescita intensiva si basa sulla crescita della produttività ottenuta tramite l’introduzione di innovazioni (Nota dei traduttori).
[17] Dal 2002 al 2011, il PIL cinese è  aumentato ad un tasso superiore al 9%. Il PIL è  cresciuto al 7.7% nel 2012 e nel 2012; il tasso di crescita è  poi sceso al 7.4% nel 2014 e al 6.9% nel 2015. Nei primi sei mesi del 2016, il PIL è cresciuto ad un tasso annualizzato equivalente del 6.7%. Nonostante questo rallentamento, la Cina rimane, tra le maggiori economie mondiali, quella che esibisce il miglior tasso di crescita. Il Fondo Monetario Internazionale stima che la Cina sia responsabile di un quarto dell’intera attività economica mondiale.
[18] Per latecomer advantages (letteralmente, vantaggio del ritardatario) si intendono i vantaggi ottenibili da una impresa (o, più in generale, da un sistema paese) dalla penetrazione in mercati che utilizzano tecnologie e modalità di produzione mature (acquisibili, dunque, a costi maggiormente accessibili). Al contrario, per pioneer advantages (letteralmente, vantaggio del  pioniere) si intendono i vantaggi ottenibili da una impresa (o, più in generale, da un sistema paese) dalla penetrazione in nuovi mercati o dalla produzione di nuovi prodotti (utilizzando, dunque, nuove tecnologie che presuppongono, tuttavia, maggiori investimenti). (Nota dei traduttori)
[19] La teoria dei vantaggi comparati fu elaborata dall’economista britannico David Ricardo. Secondo tale teoria (assai utilizzata in ambiti liberoscambisti, fortemente criticata dal pensiero economico critico), ogni paese può trarre vantaggio dal commercio internazionale. (Nota dei traduttori)
[20] Per “fusione decapitante” si intende, in ambito cinese, un processo innescato ad opera di una azienda volto ad eliminare dal mercato (tramite acquisizione) di un potenziale concorrente o una impresa in possesso di particolari tecnologie di interesse (Nota dei traduttori).
[21] Sul progetto “Una Cintura, una Via”, si veda anche il seguente articolo: http://contropiano.org/documenti/2016/10/05/treno-cina-rotterdam-seta-084337
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11 novembre 2014

"La Sinistra assente" e la questione del socialismo in Cina: Diego Angelo Bertozzi replica a Luciano Canfora

dal blog di Domenico Losurdo.


D.A. Bertozzi, che ringrazio, è esperto di questioni cinesi e autore dei libri "La Cina da impero a nazione" (Simple) e, con A. Fais, de "Il risveglio del Drago" (All'insegna del Veltro) [DL].

Nella sua recensione del libro “La sinistra assente” di Domenico Losurdo, pubblicata sul Corriere della Sera del 3 novembre, il professor Canfora riconosce i meriti di questo testo ma ne critica le posizioni relative alla Repubblica popolare cinese. Secondo Canfora, il recente sviluppo economico di questo paese sarebbe in contraddizione con le premesse teoriche del socialismo cinese e della rivoluzione maoista e in questo senso lo “sforzo ermeneutico “ di Losurdo sarebbe “mal riposto”.
Con le sue affermazioni – non nuove – Canfora si inserisce insomma in un filone di pensiero ben consolidato – anche a sinistra – di condanna degli sviluppi di quello che si definisce “socialismo con caratteristiche cinesi” e che si riassume, per l'appunto, nel rigetto di un tradimento consumatosi nel post-rivoluzione culturale e sfociato in una restaurazione autoritaria del liberismo capitalista. La Cina, secondo una lettura divenuta ormai senso comune, non solo non rappresenta un'alternativa reale alla restaurazione liberista in atto, ma ne è, invece, parte attiva con il suo bagaglio di sfruttamento, diseguaglianze raccapriccianti e pulsioni imperialiste.
In fondo basterebbe poco per dimostrare che l'affermazione “lo stato di cose che si è affermato in quel grande Paese, trasformatosi ormai nell'esatto contrario di ciò che si proponeva di essere alla metà del Novecento” concede troppo alla vulgata dominante.
Si potrebbe partire dal discorso di Mao che il 1° di ottobre del 1949 sancì ufficialmente la nascita della Repubblica popolare cinese: “Ci siamo uniti, con la guerra di liberazione nazionale e con la grande rivoluzione popolare, abbiamo abbattuto gli oppressori interni ed esterni e proclamiamo la fondazione della Repubblica popolare cinese. Da oggi il nostro popolo entra nella grande famiglia di tutti i popoli del mondo, amanti della pace e della libertà”.
Da allora sono passati più di cinquant'anni e, quindi, possiamo chiederci in cosa il Partito comunista cinese abbia contribuito nella costruzione “dell'esatto contrario” di quanto preannunciato dal suo leader più eminente e tuttora ritenuto fonte di ispirazione e cardine ideologico. Ebbene, tra gli scopi originari della lunga rivoluzione cinese, portata a termine dal Pcc, c'era proprio quello della rinascita nazionale, della ri-conquista dell'integrità territoriale e della piena sovranità. Ebbene, difficile non vedere come proprio oggi questi obiettivi siano stati sostanzialmente raggiunti (anche se non del tutto), con il ritorno alla madrepatria di Hong Kong e Macao, con l'ormai concreta prospettiva di raggiungere il primato economico, con la drastica riduzione del gap tecnologico (e militare) con le principali potenze mondiali (Usa su tutti), tanto che il Pentagono con sempre maggiore frequenza lancia allarmi su una sempre più prossima parità militare. Nata per chiudere la triste parentesi del “secolo delle umiliazioni”, la Cina è, dopo mezzo secolo, in grado di opporsi ai rinnovati progetti di smembramento dell'imperialismo statunitense. L'”esatto contrario” avrebbe visto ben altri scenari: la liquidazione violenta della presenza comunista (una fine simile a quella dei comunisti indonesiani), lo smembramento dell'ex Celeste impero con la perdita di periferie, storicamente baluardi a protezione del centro, come Xinjiang e Tibet, oppure la ricomparsa, sotto forma diversa, di potentati regionali con a capo moderni “signori della finanza”.
Certo, il processo di apertura e riforma, nelle sue fasi di maggiore radicalità, ha portato alla crescita di diseguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, riservando ad alcune regioni costiere, piuttosto che a quelle interne, il ruolo di locomotiva dello sviluppo. Tuttavia ha permesso il raggiungimento di un risultato di portata storica (e non solo per la Cina): l'uscita dall'estrema povertà (quindi dal rischio di morte per fame) di oltre 200 milioni di persone nelle aree rurali. Nel 1950 la Cina comunista vedeva ancora parte della propria popolazione vittima di morte per inedia, con intere zone devastate da uno dei peggiori imperialismi della storia e condannate al perenne sottosviluppo. Non possiamo negare che la povertà sia ancora una realtà drammaticamente presente nella Cina popolare – e la dirigenza cinese è in prima linea nel riconoscerlo, ma il dato è quello di una sua riduzione di circa il 90%. A tutto questo va aggiunta la costante crescita percentuale a doppia cifra dei salari e il progressivo riconoscimento di diritti ai lavoratori (riduzione dell'oraria, aumento delle ferie, maggiori garanzie contro il licenziamento, sviluppo di una rete di protezione sociale universale). Misure impensabili senza uno sviluppo economico a doppia cifra. Tutt'altro che l'”esatto contrario” di quanto preannunciato! Certo, al mercato e all'iniziativa privata sono riconosciti ruoli crescenti, ma si resta nel quadro di una coerente programmazione economica da parte dello Stato (pianificazione), del controllo di quest'ultimo sul credito, sulle infrastrutture, sui settori strategici dell'economia, di un potere statale che può aumentare per legge i salari minimi (nel 2011 a Pechino crebbero per decreto del 21%), di un sistema fiscale fortemente progressivo a tutto vantaggio dei redditi più bassi, e dello sviluppo di un fiorente settore cooperativo che vede impiegata una fetta crescente della popolazione.
A questo vanno poi aggiunte le ricadute internazionali dello sviluppo economico cinese. L'ingresso a titolo paritario nella “grande famiglia di tutti i popoli del mondo” avveniva nel pieno di un processo di lotte di liberazione nazionale che vedevano impegnati popoli dell'Asia come dell'Africa contro le ex potenze coloniali e l'ingresso dell'imperialismo statunitense (guerra di Corea e difesa militare della secessione di Taiwan). Sintetizzava, quindi, la volontà dei comunisti cinesi di favorire il processo in atto e di costruire un ordine internazionale basato sul rispetto delle autonome vie di sviluppo economico-sociale. Volontà e programma politico che sarebbe stato successivamente scolpito nei Cinque principi della coesistenza pacifica (1954) in occasione della nascita del Movimento dei Paesi non allineati. A sessant'anni da quella presa di posizione – ancora oggi pietra miliare dell'impegno diplomatico cinese – ci troviamo forse di fronte all'”esatto contrario”? Chiusa la parentesi dell'esportazione della rivoluzione – che portò Pechino a sostenere anche movimenti di liberazione di dubbia ispirazione in funzione anti-sovietica – ora il successo economico cinese esercita quella che possiamo definire una “attrazione magnetica”  o un “irradiamento” per quei Paesi – ancora molti – desiderosi di uscire da un secolare sottosviluppo e di sconfiggere la povertà. In campo è posta un'alternativa tanto all'imperativo liberista quanto alla complementare “carità che uccide”, secondo la definizione della giornalista africana, collaboratrice di New York Times e Financial Times, Dambysa Moyo. Queste sono le sue considerazioni: “Negli ultimi decenni più di un trilione di dollari nell'assistenza allo sviluppo ha davvero migliorato la vita degli africani? No. Anzi, in tutto il globo i destinatari di questi aiuti stanno peggio, molto peggio. Gli aiuti hanno contribuito a rendere i poveri più poveri e a rallentare la crescita. Al contrario, il ruolo della Cina in Africa è maggiore, più sofisticato e più efficiente di quello di qualsiasi altro paese in qualunque momento del dopoguerra. Un ruolo criticato da quanti attualmente si arrogano il diritto di decidere il destino del continente come se fosse una loro precisa responsabilità, ossia la totalità dei liberal occidentali, i quali la ritengono (spesso nel ruolo più paternalistico) una loro precisa responsabilità. Per molti africani i vantaggi sono davvero tangibili: ora ci sono strade dove non ne esistevano, e posti di lavoro dove mancavano; invece di fissare il deserto degli aiuti internazionali, possono finalmente vedere i frutti dell'impegno cinese. Quest'ultimo è chiaramente un fattore che negli ultimi anni ha permesso all'Africa di arrivare a un tasso di crescita del 5%.”[1]
Lo stesso vale per l'America Latina, visitata recentemente, in occasione dell'ultimo vertice Brics, dal presidente della Repubblica popolare cinese – e segretario del Pcc – Xi Jinping. Ai sempre più stretti legami economici e alle collaborazione in materia energetica e infrastrutturale, segue – considerazione lanciata da uno studio del Council on Hemispheric Affairs  - un sempre più diffusa disponibilità “politica” nei confronti di Pechino: “un consenso diverso sta emergendo riguardo agli investimenti cinesi nella regione. Con l'emergere della Cina sulla scena mondiale, molti Paesi dell'America Latina hanno accolto gli investimenti cinesi con le braccia aperte, perché vedono la Cina come una contrappeso all'egemonia statunitense nella regione”. Ma in gioco non c'è solo il bilanciamento dello storica e preponderante influenza Usa – una progressiva erosione che sta permettendo l'azione integrazionista condotta da governi di stampo progressista, quando non socialista – quanto la “gravitazione” della regione verso norme di politica estera tradizionalmente gradite a Pechino, su tutte la non interferenza negli affari interni in tema di diritti umani[2].
Una parte significativa del mondo guarda con interesse al socialismo cinese e la stessa presenza di Pechino ha dato a molti quanto negli ultimi decenni sembrava inverosimile: una possibilità di scelta, una alternativa al ricatto, da giocare a favore dei propri interessi. È indubbio: la presenza e l'azione della Cina popolare costituisce e offre un sempre più importante contrappeso politico-economico per tutti quei Paesi che, grazie ai flussi finanziari e ai crediti (a tassi agevolati) provenienti dal dragone orientale, possono evitare il cappio dello sfruttamento occidentale rappresentato da  strumenti operativi come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Siamo, anche in questo caso, di fronte all'”esatto contrario” di quanto preannunciato mezzo secolo prima? Pare proprio di no.

Diego Angelo Bertozzi


[1]                   Dambysa Moyo, “La carità che uccide”, Rizzoli, 2010, pag. 122
[2]     “The Dragon in Uncle Sam's backyard: China in Latin America”, Council on Hemispheric Affairs, giugno 2014


14 settembre 2013

Alcune radici del Socialismo con caratteristiche cinesi


Da Marx21,   di Francesco Maringiò*

Chinese-Dragon-at-Dusk(1) Qualsiasi discussione sul presente e sul futuro della Cina non può prescindere dal fondamentale contributo dato da questo paese alla lotta per il Socialismo.È interessante notare come nei primi 15 anni dalla nascita dell’URSS (1917-1932), ci siano state tre diverse “configurazioni” di Socialismo:a)    il Comunismo di Guerra (1918-1921), da Gramsci definito il “collettivismo della miseria”;b)    la Nuova Politica Economica (1921-1929), su impulso di Lenin;c)    la Collettivizzazione dell’agricoltura e la centralizzazione integrale dell’economia (1929-1932), su impulso del nuovo gruppo dirigente bolscevico, a seguito della morte di Lenin (1924).

Nessuna di queste fasi è stata indolore e, soprattutto, nessuna è stata la proiezione delle analisi dei classici del marxismo. Pertanto è del tutto legittimo che oggi ci siano nuovi esperimenti e che il gruppo dirigente cinese cerchi la sua strada per costruire il socialismo in un Paese orientale, arretrato tecnologicamente rispetto alla triade imperialista ed in cui vive un quarto della popolazione mondiale.(2) Quando il PCC prese il potere nel 1949 la Cina era uno dei Paesi più poveri al mondo, a seguito del lungo “secolo delle umiliazioni” (1839-1949) iniziato con la Prima Guerra dell’Oppio che diede vita a quel processo definito da Ken Pomeranz come “La Grande Divergenza”. Attraverso questo processo il mondo occidentale (segnatamente Europa Occidentale ed Usa) è inconfutabilmente emerso nel corso del XIX sec come la più potente e ricca civiltà mondiale, eclissando l’Oriente asiatico della Cina dei Qing, dell’India dei Moghul, del Giappone dei Tokugawa e dello stesso Impero Ottomano. Questa Grande Divergenza vede l’Europa in rapida ascesa utilizzando un processo di sviluppo che Adam Smith considerava “innaturale” (ossia basato prevalentemente sul commercio estero), mentre per l’Asia, dopo un percorso di sviluppo “naturale”, si avvia un profondo arretramento, a seguito della Guerra dell’Oppio e dell’inizio del periodo di colonizzazioni e guerre. Quindi, mentre per i Paesi europei diventa centrale combattere le guerre per controllare le rotte marittime e commerciali verso l’Oriente, per i governanti cinesi era centrale avere una politica di rapporti di buon vicinato con gli stati confinanti e di sviluppare il mercato interno per uniformare il proprio dominio sotto un’unica economia nazionale (cosa, questa, che li rende impreparati a fronteggiare le invasioni militari e coloniali che stanno per abbattersi sui loro mari e sul loro Paese).È interessante osservare come sin dall’era Ming e nella prima fase della dinastia Qing, i governanti cinesi facessero uso del mercato con l’obiettivo di arricchire la nazione. Chén Hóngmóu (1696-1771), filosofo ed influente ufficiale della dinastia Qing, già nel XVII sec insisteva a lungo sul ruolo dello Stato e sull’utilizzo del mercato come strumento di arricchimento della nazione.(3) Le riforme di Deng Xiaoping prendono le mosse dopo un periodo di caos e turbolenze e puntano ad individuare obiettivi di lavoro concreti capaci di portare il Paese fuori dalla condizione di pesante arretramento che stava vivendo. Infatti quanto il PCC prese il potere, si trovò a governare un paese profondamente arretrato. Compito principale del gruppo dirigente cinese fu quello di ridurre le disuguaglianze interne e, contemporaneamente, quelle tra la Cina ed i Paesi capitalisti più avanzati. Ma la lotta contro queste due disuguaglianze, molto spesso, non può essere fatta contemporaneamente. E se in una prima fase, soprattutto durante la Rivoluzione Culturale, il gruppo dirigente si è concentrato sulla riduzione delle disuguaglianze interne, è con la nuova politica di Riforma ed Apertura che si presta attenzione alla riduzione del divario tra la Cina ed i paesi capitalisti più sviluppati. Per fare questo, si attinge alla tradizione dell’amministrazione e del governo richiamata al punto (2) e si fa ricorso al mercato come elemento di dinamizzazione dell’economia, permettendo anche la nascita di un poderoso settore di economia privata. A bilanciare questo aspetto, rimane comunque il fatto che il potere politico resta saldamente nelle mani del PCC il quale compie una totale espropriazione politica della borghesia, ma non compie una totale espropriazione economica della stessa, al fine di non bloccare lo sviluppo delle forze produttive.Deng pose spesso l’accento sul fatto che il socialismo non significasse “socializzazione della miseria” ed il mercato non fosse prerogativa esclusiva del capitalismo: «pianificazione e forze di mercato non rappresentano l'essenziale differenza che sussiste tra socialismo e capitalismo. Economia pianificata non è la definizione di socialismo, perché c'è una pianificazione anche nel capitalismo; l'economia di mercato si attua anche nel socialismo. Pianificazione e forze di mercato sono entrambe strumenti di controllo dell'attività economica». [Deng Xiaoping, in: John Gittings, The Changing Face of China, Oxford University Press, 2005]Questo approccio ricorda molto quello avuto da Lenin con la NEP (Nuova Politica Economica) che introdusse l’idea della transizione come un lungo periodo che vede la compresenza nell’economia di piano e mercato. In questa nuova fase allo Stato socialista spetta il compito di controllare gli elementi chiave dell’economia, mentre al mercato gli si riconosce una funzione progressiva imprescindibile. Del resto lo stesso Marx dice che, nel passaggio dal capitalismo al socialismo, la proprietà dominante non è più quella capitalistica ma quella socialista, ma ciò non esclude che ci siano forme di proprietà privata. Il discrimine sta nel fatto che non è quella la proprietà che impronta di sé tutta la società.È indubbia l’influenza esercitata dalle riflessioni di Lenin sulla NEP nel pensiero di Deng ma, allo stesso tempo, credo valga la pena considerare l’importanza avuta anche dalla radicata tradizione dell’amministrazione e del governo del Paese, durante la fase di “sviluppo naturale” e prima richiamata nelle considerazioni dell’ufficiale Qing sull’uso del mercato come elemento di arricchimento della nazione. È per questa via che il nuovo corso cinese punta a combattere le due disuguaglianze: quelle interne ed il divario con i paesi capitalisti più sviluppati.(4) A determinare la natura capitalistica di un società non è quindi la presenza o meno del mercato in economia. È nel rapporto tra il potere dello stato e quello del capitale che va indagata la natura del carattere capitalistico dello sviluppo economico su basi di mercato: se lo stato non è subordinato all’interesse di classe dei capitalisti, allora l’economia di mercato mantiene un carattere non capitalistico. Ed è stato proprio il diverso modello di sviluppo economico tra l’Europa (“modello innaturale”) e l’Asia (“modello naturale”) e porre le basi per l’affermazione di differenti sistemi  economici e, nel primo caso, a porre le basi per lo sviluppo di un mercato capitalistico. Ed infatti, mentre in Europa l’identificazione tra interesse di classe ed interesse nazionale è stato molto forte, nella Cina dei Ming e dei Qing si è seguita una strada molto diversa. E così la società occidentale si è sviluppata ed organizzata sulla base dell’interesse immediato del capitalismo ad una accumulazione illimitata di capitale e potenza che l’ha portata a prediligere una continua corsa agli armamenti ed all’espansione militare. Caso emblematico è stata l’Inghilterra divenuta, a seguito delle esigenze del nascente capitalismo uno stato che è diventato il centro di un impero marittimo e territoriale mondiale, alla continua ricerca di mercati da dominare o materie prime di cui appropriarsi.Questo mancato intreccio tra militarismo, industrialismo e capitalismo nella Cina ha posto le basi per un diverso sviluppo economico, pur in presenza di un importante ruolo giocato dal mercato. Quello che è mancato -e tutt’ora manca- in questo Paese, che certo vive profonde contraddizioni e disuguaglianze che dovranno essere corrette in futuro, è una sovrapposizione tra l’interesse privato e quello dello Stato che, grazie al controllo rigido del suo sistema politico riesce ad esercitare un ruolo di guida ed indirizzo dell’economia in funzione di un arricchimento della nazione e quindi del suo sviluppo interno ed in relazione ai paesi capitalistici più avanzati.È in queste considerazioni che, a mio modesto avviso, vanno ricercate le radici culturali del sistema di pensiero che va sotto il nome di “socialismo con caratteristiche cinesi” e che rappresenta oggi un elemento importante di innovazione del marxismo del XX sec.Del resto, contrariamente a quanto pensava Lenin, il Novecento non ha visto la crisi generale e conclusiva del capitalismo con conseguente vittoria del socialismo, ma ha lasciato aperta la strada alla ricerca e costruzione di società “altre” dal capitalismo. La Cina popolare, figlia di questa ricerca, si configura oggi come una società dicotomica (non capitalista/non ancora socialista) in cui la prospettiva socialista può vincere solo se la contraddizione oggi presente fra elementi di socialismo e di capitalismo porta alla vittoria dei primi. Questo risultato, se ci sarà, non potrà che essere il frutto di un lungo processo storico (innescato da appena cinque decenni) che durerà alcuni secoli e pertanto, per cogliere il senso di questa “tappa iniziale della prima fase” di costruzione del socialismo, è necessario collocare l’’esperienza cinese in una fase storica molto ampia.FontiDomenico Losurdo, relazione al Seminario del Dipartimento Esteri del PdCI, Ancona, Giugno 2011Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, 2008Kenneth Pomeranz, The Great Divergence: China, Europe, and the Making of Modern World Economy, Princeton University Press, 2009William T. Rowe, Saving the World: Chen Hongmou and Elite Consciousness in Eighteen-Century China, Stanford University Press, 2001*Sintesi dell’intervento tenuto in occasione del Seminario internazionale: “La Cina nel 21° Secolo: Presente e Futuro”, realizzato al Parlamento Europeo a Bruxelles, il 6 e 7 Giugno 2013, su iniziativa della rete Correspondances Internationales, dalla Fondazione Gabriel Péri e dal Gruppo europeo GUE-NGL, che ha visto la presenza di dirigenti politici ed intellettuali da tutto il mondo e la partecipazione di una delegazione del Centro Studi sulle teorie sociali e filosofiche straniere del Partito Comunista Cinese.

23 marzo 2013

8.10: I salari più alti del mondo?

Dal blog La crescita felice.


8. La schiavitù in fabbrica…ma dove?


Confronto tra gli aumenti salariali di USA e Cina nel periodo precrisi

Forbes rileva che per alcuni tipi di lavoro, in generale di carattere manageriale, sulla base degli stipendi del 2011, alcuni impiegati cinesi guadagnano quanto i loro omologhi americani. Mentre gli stipendi degli Stati Uniti scendono, quelli della Cina sono in aumento.(Rapoza 2012).

Professione
Stipendio in dollari
Ingegnere supervisore

25.000 - 42.000
Amministratore delegato

130.000 - 330.000
Direttore R & D

100.000 - 167.000
Direttore acquisti

67.000 - 150.000
Capo controllo qualità

67.000 - 150.000
Chief Technology Officer

167000 - 330000
Direttore marketing

100.000 - 130.000
PR /  Manager Communicazione

34000 - 67000
Manager Vendite Regionali

67.000 - 100.000
Source: (Hays 2012) Salary Guide – Asia

Secondo l’Emerging consumer survey 2013, indagine condotta dalla Nielsen per la banca svizzera“Credit Suisse” in otto paesi emergenti, evidenzia come il salario medio mensile dei giovani trentenni cinesi sia di circa 1.100 euro, il 15% in più rispetto ai loro genitori. Quello dei trentenni italiani? Per quei pochi che lavorano è di 830 euro. I trentenni in Cina guadagnano più dei cinquantenni, e più dei coetanei italiani. Peraltro Datagiovani t ha calcolato, su base Istat, che la retribuzione media di un under 30 al primo lavoro in Italia è di 823 euro al mese (Trentenni cinesi 2013) .

I salari in Cina sono aumentato costantemente, se si esclude un breve periodo:
Tra il 1979 e il 1998 c'è stato un aumento medio annuo delle retribuzioni dei lavoratori adattate al costo della vita del 4 per cento. Solo nel 1988 e nel 1989 c'è stato un calo a causa del tasso di inflazione eccezionalmente elevato in quel momento. Tra il 1999 e il 2002 (secondo il China Labor Statistical Yearbook 2003 ) i salari sono aumentati ad una media annua di quasi il 12 per cento. Negli ultimi anni, i grandi centri industriali come Shenzhen e Shanghai hanno effettivamente cominciato a sperimentare una carenza di manodopera, in particolare tra i lavoratori qualificati. Di conseguenza, i datori di lavoro offrono salari più alti e migliori benefici per attrarre lavoro. Hong Liang, economista con la società di Wall Street, Goldman Sachs, ha commentato: "Stiamo vedendo la fine del periodo d'oro di manodopera a bassissimo costo in Cina" (New York Times, 3 aprile). (Market Reform. 2006)
Dire che i salari europei in cifre assolute, non in rapporto con il costo della vita, sono più alti di quelli cinesi significa poco. Anche parlare di supersfruttamento del lavoratore è poco significativo:
Che ci sia un alto tasso di "sfruttamento" in Cina, si è d'accordo, date le circostanze storiche, la lotta di classe in tutto il mondo e la necessità di indigenizzare le tecnologie che sono concentrate all'estero, perché senza la tecnologia è impossibile superare la fase di "sfruttamento" del lavoro (il lavoro duro, fisico, non lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo). Da questo a sostenere che il lavoratore cinese è ultrasfruttato c'è una distanza considerevole, perché questo calcolo deve essere riferito a determinazioni multiple che comportano la produzione e il consumo di beni, tra cui: la capacità di consumo permessa dal suo stipendio, la scala di produzione, l'ammontare del credito disponibile per il consumo delle masse, ma anche si deve prendere in considerazione che la legge del valore può essere universale, ma la sua applicazione deve tener conto delle vicissitudini della formazione sociale. Esempio di ciò è il calcolo del PIL, in linea con il potere d'acquisto della popolazione, il PIL della Cina è dietro solo agli Stati Uniti, un dollaro in Cina, non è la stessa cosa di un dollaro negli Stati Uniti o in Europa occidentale. (Jabbour 2007).

Ad esempio bisogna vedere il rapporto tra salari e produttività. Questi seguono differenti trend tra paesi avanzati e quelli in via di sviluppo. Se i salari superano l'aumento della produttività del lavoro allora si potrebbe al limite parlare di aumento del tasso di sfruttamento della forza lavoro, ma sicuramente in Cina non è così. Potrebbe essere il caso dello Sri Lanka o delle Filippine invece. Tra l'altro c'è anche il pericolo che un aumento sproporzionato degli stipendi in rapporto alla  produttività rende possibile l'insorgere di processi inflazionistici che porterebbero a far uscire dalla finestra ciò che si è guadagnato facendolo entrare dalla porta.

Ci si potrebbe invece domandare qual’è il rapporto tra salario medio e PIL pro-capite. In questo senso non c’è alcun dubbio: i salari cinesi sono tra i più alti del mondo. Mentre in Italia (ricordiamoci che sono cifre del 2006 dunque precrisi) sono tra i più bassi d’Europa. In questa tabella [1] la prima cifra è il salario medio in Euro, la seconda in Dollari, la terza il PIL procapite in Dollari (ad inizio 2007) poi la percentuale del salario medio sul PIL procapite.


Paese

Salario medio
(in €)

Salario medio
(in $)
PIL pro-capite
(in $)

% del salario
medio sul PIL
procapite.
Cina
1930.21
2.600
1903
136%
GB
28007
37725.45
31311
120%
Olanda
23289
31370.3
36934
84,94%
Spagna
17425
22521.86
26725
84,27%
Germania
21235
28603.56
35072
81,55%
Francia
19731
26577.67
33807
78,61%
Italia
16242
21877.99
30636
71,41%

Negli ultimi anni tale rapporto è rimasto sostanzialmente costante per i lavoratori cinesi. Mentre la tendenza dell’Italia è a scendere in questa graduatoria. I livelli retributivi dell'Italia «sono piu bassi che negli altri principali paesi dell'Unione europea» ha affermato il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi (Draghi 2007). Il rapporto in ogni caso è sistematicamente a favore dei paesi in via sviluppo sebbene la Cina sia comunque un caso straordinario. Quando si fanno discorsi sui salari da fame nei paesi emergenti bisognerebbe pensarci un attimo.
In ogni caso sarebbe giusto e naturale che tutti i paesi poveri avessero un vantaggio competitivo fino al raggiungimento dei paesi più sviluppati. In questi paesi i lavoratori confrontano il loro stipendio attuale non con quello degli italiani ma con quello che avevano cinque anni fa. Allora tutto torna a posto. Il salario dei lavoratori cinesi è quasi raddoppiato, quello degli italiani è addirittura calato in rapporto al costo della vita. Molto triste per chi, negli anni ’70 aveva gli stipendi più alti d’Europa.
Proprio dalla fine degli anni ’70 inizia il calvario dei salari italiani mentre inizia l’ascesa di quelli cinesi. Questi ultimi alla fine del 2001 erano 16,3 volte quello del 1978. Al netto dell’inflazione un aumento del 5,5% in termini reali l'anno (Labor 2002). Da allora il salario è pressoché decuplicato, il che significa che è aumentato di circa 100 volte rispetto a quello del 1978 e negli ultimi anni è aumentato del 13-14% in termini reali ogni anno.
I salari sono certamente bassi, ma in costante aumento. I nostri messaggi sono al riguardo talvolta contraddittori. Il Financial Times del 5 gennaio di quest’anno riporta una denuncia della federazione che riunisce tutti i sindacati cinesi. In essa si lamenta che alcune multinazionali occidentali rifiutano di fare nascere sindacati cinesi nelle loro imprese in Cina per evitare aumenti salariali. In realtà questi aumenti vi sono, così come alcuni segni di delocalizzazione di produzioni cinesi in altri Paesi asiatici con salari ancora più bassi. Comunque questa non è che una parte, e non la più importante, della realtà cinese. (Ruggiero 2006)
Ma vediamo come si è arrivati l'attuale situazione in cui gli stipendi salgono vertiginosamente. Sebbene in tutti questi anni il mainstream abbia pianto sui poveri operai cinesi sfruttati vedremo che comunque sulla stampa italiana ed internazionale cominciava a fare capolino la notizia dei forti aumenti salariali in Cina. Cominciamo con l'Italia. Nel rilevare che stipendi dei lavoratori cinesi stanno aumentando l'ex corrispondente di Repubblica, dopo avere per anni versato lacrime sui poveri operai-bambini schiavi, scopre che l’aumento dei salari dei cinesi avrà, come sempre, effetti nocivi (of course) per i lavoratori italiani:
Non saranno però i lavoratori americani o europei a trarre un vantaggio dal rincaro della manodopera cinese. Gran parte dei mestieri industriali che si sono trasferiti in Cina non torneranno mai più nei vecchi paesi ricchi: non solo il tessile-abbigliamento o il calzaturiero, ma anche settori tecnologici come i computer e le macchine fax, le stampanti e le fotocopiatrici, i telefonini e l´elettronica di consumo, si sono trasferiti in Asia in pianta stabile. E´ escluso che un cambiamento nei salari cinesi possa far scattare la reindustralizzazione di paesi ricchi che hanno visto fuggire le loro fabbriche in Estremo Oriente. Il differenziale nei costi resterà comunque per molti anni o decenni a favore della Cina, e poi dietro di lei spuntano nuove tigri asiatiche dai costi più bassi, come il Vietnam, pronto a fare concorrenza ai cinesi. Nell’immediato dovremo semplicemente pagare più caro un «made in China» che non ha alternative. Esaurita la disinflazione, Pechino può cominciare a esportarci inflazione anche sui prodotti finiti, dopo aver già spinto al rincaro con la sua vorace domanda il petrolio e tutte le materie prime. Il perdente in questo caso sarebbe il consumatore, italiano o americano. (Rampini 2006).
I cinesi sono degli autentici demoni secondo l’ineffabile Rampini. Se i lavoratori cinesi prendono poco rubano il lavoro a quelli italiani se invece aumentano gli stipendi (prendono troppo o troppo poco mai il giusto) affamano i lavoratori italiani che sono costretti a spendere di più per le merci. In realtà anche l’inflazione in CIna che si è affacciata verso la fine del 2007 e l’inizio del 2008 dipende soprattutto dal rialzo dei prodotti agricoli per le gelate invernali, per le malattie dei suini e la mancanza di programmazione nell’allevamento degli stessi e anche, perché no, dall’aumento dei redditi agricoli. Invece i prodotti industriali sono aumentati di poco per via del recupero di efficienza nelle aziende.

Ma vediamo cosa dice Rampini:
È una buona notizia che molti italiani aspettavano da tempo: di colpo i salari cinesi stanno salendo. Il primo settembre in tutta la provincia del Guangdong - la regione industrializzata che ha per capitale Canton, nel Sud della Cina - per decisione delle autorità il salario minimo legale aumenta del 20%. Anche a Pechino e Tianjin i minimi salgono con percentuali a due cifre. A Shanghai che già aveva i salari più alti della Cina scatta un aumento per legge del 9%. In alcune zone e settori industriali in pieno boom scarseggia la manodopera qualificata e i salari reali salgono ancora di più dei minimi legali. La notizia dovrebbe rallegrarci se abbiamo a cuore la condizione dei lavoratori, i diritti umani, il tenore di vita e la situazione sociale nei paesi emergenti (Rampini 2006).
Mentre è lo stesso Rampini che avverte che le imprese si contendono la manodopera qualificata con aumenti salariali che raggiungono punte del 100% in un anno. Rocca invece ci parla della la mancanza di manodopera non qualificata in alcune parti della provincia del Guangdong.:
Che si tratti di un rifiuto delle condizioni di lavoro e di remunerazione offerte dai «laboratori del
mondo», della conseguenza dei massicci investimenti destinati a far uscire dall'isolamento l'ovest del paese e che offrono nuove opportunità di lavoro, o piuttosto di un semplice effetto demografico causato dalla politica del figlio unico? Un po' di tutto questo, probabilmente. Tuttavia, è chiaro che l'aumento dei salari e dei vantaggi sociali, in particolare a Shanghai e nel Fujian - dove i datori di lavoro non sembrano lamentarsi, o si lamentano meno, di una penuria di manodopera - spingono molti migranti a lasciare il Guangdong per risalire verso il nord. Vi si possono individuare gli effetti di una migliore conoscenza del mercato da parte dei contadini. Allo stesso modo, l'aumento annunciato del 23% del salario minimo nella città di Shenzhen mostra che il livello dei redditi della nuova classe operaia è diventato una delle maggiori preoccupazioni (Rocca 2007).
La mancanza di lavoratori si faceva ormai sentire ed eravamo ancora nel 2005:
... oggi mancano operai specializzati, tecnici, contabili, manager. Ma c'è una grandissima domanda non soddisfatta anche di manodopera non qualificata. Tanto che a febbraio, per attrarre lavoratori da altre regioni e dalla campagna, il governo locale ha aumentato il salario minimo, in alcuni casi cresciuto perfino del 34%, il maggiore incremento degli ultimi 10 anni, raggiungendo tra i 70 e gli 82 dollari al mese. Non è bastato. Le aziende continuano a rubarsi i lavoratori a colpi di aumenti salariali, anche a due cifre. E sono costrette a escogitare nuovi bonus per fidelizzare i dipendenti. Alcuni gruppi importanti per fronteggiare la scarsità di manodopera e le pressioni salariali stanno delocalizzando in altri Paesi più poveri, una scelta che potrebbe mettere in crisi il modello di sviluppo economico di quest'area. Un lavoratore di una fabbrica di scarpe da ginnastica in Cina guadagna infatti il 30% in più che in una fabbrica del Vietnam (dove la Nike ha già aperto stabilimenti) e il 15% in più che in Indonesia. E il Bangladesh è ancora più economico. (Sorpresa 2005)
Il problema sembra inoltre la fidelizzaizone dei lavoratori:
Pochi mesi, alle volte anche poche settimane, bastano agli imprenditori italiani per capire che la maggiore difficoltà è la retention. «Quando si avvia uno stabilimento si necessita di un numero elevato di collaboratori e spesso accade che, aperta la ricerca e individuate le persone, tempo due settimane e queste lavorano già da un'altra parte», racconta Cristina Bombelli, consulente e docente universitaria alla Bicocca di Milano(…)la cultura della fidelizzazione ancora non ha preso piede», osserva Tamagni. Escludendo la parte economica, che è la principale causa di mobilità, un altro fattore per fidelizzare i dipendenti è la location. Il manager cinese adesso vuole scegliere il luogo di lavoro per cui in zone sperdute, dove la vita è difficile, dove c'è molto inquinamento non ci va più a lavorare. «Alla location dovrebbero essere molto attente le aziende che vogliono andare in Cina - consiglia Tamagni -. Non possono pensare di andare anywhere, per evitare che quadri e dirigenti scappino via alla prima migliore occasione». Ultima, ma molto preziosa carta da giocare ai fini della retention è trovare dei leader capaci di creare un legame più con la persona che con l'azienda. (Casadei 2007)
Per altro non aumentavano solo gli stipendi nelle aziende manifatturiere ma anche nel settore che i cinesi ritengono fondamentale dell’istruzione. Gli stipendi degli insegnati sono infatti in netto aumento per la precisione di 14 volte in 20 anni. Nel 2003 la media degli stipendi era aumentata di circa il 10% sull’anno precedente ed era di 23.000 yuan con un aumento di 22.100 sull’anno precedente. (Chinese teachers 2004).
Intanto nel 2008 i costi di produzione hanno continuato a salire: "Nel frattempo è in rialzo anche l' indice dei prezzi alla produzione cinesi: +6,1% a gennaio. A questo rialzo contribuiscono il rincaro energetico e delle materie prime, ma anche le tensioni salariali. Nella zona più industrializzata della Cina, il delta del fiume delle Perle nella provincia del Guangdong, i salari operai nell'industria manifatturiera hanno registrato aumenti del 13% su base annua. La manodopera qualificata ormai scarseggia, formare gli emigrati che arrivano dalle campagne costa tempo e denaro, e quindi il potere contrattuale degli operai specializzati si rafforza. (Rampini 2008).Tra l’altro salari cinesi tendono a livellarsi. Nel 2005 ad esempio i salari erano aumentati del 14%. Ma nelle zone della Cina centrale, dove mediamente gli stipendi sono più bassi del 20% della media nazionale erano aumentati del 18%, mentre nelle regioni dell’est dove gli stipendi erano maggiori del 22% della media nazionale l’aumento era del 12,3%. Un imprenditore di una ditta straniera di progettazione architettonica e design si lamentava del costante aumento degli stipendi dovuti al fatto che i competitori cinesi strappavano i loro architetti con alti stipendi aumentati in tre anni di due volte e mezzo. (Fu Jing 2006). Nel Guangdong la città di Dongguan, il maggior centro manufatturiero cinese, gli stipendi sono raddoppiati tra il 2001 e il 2006 secondo l’azienda di ricerca economica CEIC Data di New York. (Hamlin 2007).

In particolare dopo il 2004 il livello dei salari nelle aziende manifatturiere cinesi hanno avuto una impennata. Secondo la Economist Intelligence Unit di Londra, il costo del lavoro nel 2006 aveva raggiunto $1.36 l’ora, 72% più alto che nel 2001 e già si diceva che nel 2010 sarebbe raddoppiato. Naturalmente non è quello che costano i migliori lavoratori per le aziende che producono per l'esportazione. Questi sono localazzzati nelle grandi città dove i lavoratori costavano già molto di più.
Inoltre, le spese sociali infrastrutturali nella Cina socialista, in termini di salute, istruzione, alloggio, ecc hanno contribuito enormemente ad aumentare la produttività del lavoro. La Cina ha un grande forza lavoro, ben istruita e in buona salute. Non è tanto il basso costo dei salari che attira investimenti stranieri, ma è fondamentalmente la capacità di più elevati livelli di produttività del lavoro (Yechury 2003).

Ad esempio per la casa scrive Jabbour: "Conosco la Cina, ci sono stato due volte e il primo viaggio che ho fatto nel 2004 sono stato in grado di visitare almeno 30 residenze di lavoratori dell'industria, sia statali che privati​​, e in tutte le case che ho visto apparecchiature come frigorifero, televisione, frullatore, DVD, ventilatore , macchina da cucire ecc. E dati i tassi di interesse attraenti sui prestiti, frutto della politica di accumulo di riserve in valuta estera, per ogni lavoratore industriale in Cina è possibile acquistare la propria casa , tramite carta di credito dello Stato, con solo il 4,7% del proprio stipendio. Quella realtà è lo stessa di un lavoratore brasiliano o latinoamericano? (Jabbour 2007)."

Scrive un ottimo conoscitore della Cina Peter Franssen: "Niente di meglio che partire da dati reali, che non contesta nessun serio istituto internazionale. I dati sono questi: il reddito dei lavoratori e dei contadini in Cina è cresciuta a un ritmo sostenuto nel corso degli ultimi quindici anni. Nelle città, le entrate nette nel 2003 tenendo presente l'aumento del costo della vita, sono state 2,6 volte superiori a quelle del 1990. In campagna, 1,8 volte più elevate. Nel 2004, questa tendenza continuata. Tenendo conto dell'aumento dei prezzi nei negozi, i redditi in città sono aumentati dell'8% netto. L'anno scorso, in campagna, questo aumento netto è stato del 7%. Delle cifre incredibili. Soprattutto se confrontato con affermazioni come "La Cina è il capitalismo selvaggio e le persone non guadagnano nulla." Naturalmente la distribuzione della ricchezza è ancora diseguale cosa che non deve sorprendere in un paese di 1,3 miliardi di persone " 310 volte più grande di Belgio, e ancora molto povero). Per aumentare il livello di vita di tutti, il governo cinese ha introdotto un salario minimo. Le autorità provinciali possono aumentarlo. Prendiamo, per esempio, nella provincia di Guangdong (sud-est), che ha 90 milioni di abitanti, più della Germania. La provincia ha un ruolo pionieristico in quanto, qui, la modernizzazione è andata più lontano rispetto alla maggior parte altre province. Beh, Guangdong, lo scorso dicembre, il governo provinciale ha aumentato il salario minimo del 8,6%. E' il sesto aumento dopo l'introduzione del salario minimo nel 1994. Nel mese di novembre, il governo provinciale del Guangdong ha inoltre deciso che il lavoro straordinario Sabato e Domenica deve essere pagato al 200% e nei giorni festivi al 400%." (Franssen 2005). Le "disposizioni in materia di lavoro straordinario sono severe. Lo straordinario in genere non può essere superiore a un'ora al giorno o tre ore in "circostanze speciali" ." (Economist Intelligent Unit 2011).

Il giornalista Dexter Roberts raccontava già nel 2006 le peripezie di un imprenditore cinese, Yongjin. La carenze di manodopera costringe l'azienda a incrementare i salari del 40%,in un anno, ma non si riesce a trovare abbastanza lavoratori. Nella città di Suzhou, l'Emerson Climate Technologies Co. un produttore di compressori per l'aria condizionata ha visto un turnover raggiungere il 20% annuo, ed il general manager dice che farà tutto quello che può fare per tenersi i suoi 800 dipendenti affinché non saltino sulla nave della Samsung, della Siemens, della Nokia, e di altre multinazionali. "Si è arrivati ​​al punto che si aumentano i salari solo scambiandoci la gente", dice Warth. (Roberts 2006). Il giornalista americano oltre alle solite lagne sull'inflazione che sarà pagata dagli occidentali rileva: rileva. "Questi stipendi più alti stanno formando una classe di consumatori in Cina che le multinazionali vogliono raggiungere." Che poi è la ragione reale per la quale le multinazionali rimangono in Cina. (Roberts 2006). Nel 2005 il turnover nelle multinazionali in Cina era in media del 14%, rispetto al 11,3% nel 2004 e 8,3% nel 2001. Un rapporto del 2006 dalla Camera di commercio americana in Cina scopriva che il costo del lavoro raggiungeva il 48% dei produttori degli Stati Uniti. "La Cina corre il rischio di perdere il suo vantaggio" di manodopera a basso costo, dice Teresa Woodland, l'autorice del rapporto.(Roberts 2006).
In realtà ciò che si paventava ossia l'arresto dello sviluppo della Cina per via degli aumenti salariali non è successo e la Cina continua ad aumentare gli stipendi dei lavoratori. Ora sappiamo che degli aumenti salariali se ne parlava già da molto tempo sebbene la maggior parte della gente in Occidente sia assolutamente convinta che i cinesi lavorino 25 ore al giono e otto giorni la settimana per la classica scodella di riso. Ma 30-40 anni fa avevano la stessa convinzione per quanto riguarda Giappone, Corea, Taiwn ecc. Veniamo ai giorni nostri. Ecco un articolo recente dalla stampa cinese: "Li Qiang, un ragazzo di 22 anni, lavoratore migrante proveninete dall'est della Cina, provincia di Anhui, ha deciso di tornare a Pechino dalla sua città natale a marzo, ma solo dopo che il suo capo ha promesso di aumentare la sua paga quotidiana da 200 yuan ($ 32) a 250 yuan. Li, un arredatore, è arrivato a Pechino nel 2006, seguendo le orme di un suo compaesano. Il suo reddito mensile, ha detto, è aumentato di dieci volte, da meno di 800 yuan a circa 8, 000 yuan, negli ultimi sei anni. "Voglio allo stesso tempo tornare alla mia città natale e costruire una casa una volta che ho risparmiato i soldi" ha detto Li , aggiungendo che non ha un senso di appartenenza a Pechino." (Hu Yuanyuan 2012). 

Note

[1] Nostra elaborazione su tabella del Corriere della Sera del 29-03-2007: http://www.corriere.it/Media/Foto/2007/03/29/tabelle/tab9--600x304.jpg. Il rovescio della medaglia: costi del lavoro sotto la media Eurozona, In Italia salari tra i più bassi d'Europa, Corriere della Sera, 30 marzo 2007. Da notare i salari italiani sono i più bassi dì’Europa davanti solo al Portogallo. I salari europei erano aumentati tra 2000 e il 2005 del 18% contro la media italiana del 13,5. I salari cinesi l’anno dopo questa rilevazione nel 2007 erano aumentati del 18,9% in un solo anno. Per lo stipendio medio cinese vedi (Fu Jing 2006). Ho però adeguto lo stipendio di 2.300$ del 2005 agli aumenti del 2006.

Bibliografia

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