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26 febbraio 2014

Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi, ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Bill Clinton

Da Signoraggio.it 

Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran Mustafi?, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Miloševi?, ucciso in carcere, a Radovan Karadži? e al Generale Ratko Mladi?, ancora oggi detenuti all'Aja?
Lo storico russo Boris Yousef,  in un suo saggio del 1994, scrisse quella che ritengo una sacrosanta verità: «Le guerre sono un po' come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale. Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare danni talvolta permanenti e imprevedibili».
Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che, formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e pianificato da alcune potenze occidentali (con in testa l'Austria e la Germania), da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano.
La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l'obiettivo geo-strategico primario di una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi le sue spoglie.
Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose con forza soltanto Slobodan Miloševi?, divenuto Presidente della Repubblica Socialista di Serbia, e che toccò il culmine con la creazione in Croazia, nel Maggio del 1989, dell'Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli Ustascia di Ante Paveli?, guidato dal controverso ex Generale di Tito Franjo Tu?man.
Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due repubbliche ribelli e all'allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente.
Come ho scritto poc'anzi, ritengo che la saggia affermazione di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare 'naturalmente' manu militari nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le pressioni e le intromissioni della sedicente 'Comunità Internazionale', delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta, dall'alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di ridisegnare la cartina geografica dell'area sulla base delle convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale del territorio.
Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei, complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tu?man costruì il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi che dal Sud America gettavano l'ancora nel porto di Zara, secondo voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica Democratica Tedesca siano prontamente finiti nelle mani di Zagabria.
Si tratta di vicende che conosco molto bene, perché ho trascorso nei Balcani buona parte degli anni '90, prevalentemente a Belgrado e a Skopje. Parlo bene tutte le lingue dell'area, compresi i relativi dialetti, e ho avuto a lungo contatti con l'amministrazione di Slobodan Miloševi?, che ho avuto l'onore di incontrare in più di un'occasione. Sono stato, fra l'altro, l'unico esponente politico italiano ad essere presente ai suoi funerali, in una fredda giornata di Marzo del 2006.
Sono stato quindi un diretto testimone dei principali eventi che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika Krajina, sotto la spinta dell'occupazione croata delle loro case, avvenuta con l'appoggio dell'esercito americano.
Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia, i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che cambiava nel giro di poche ore il potere d'acquisto di una banconota. Ho vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto - a ragione - alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell'operazione di marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui tavoli di Washington e di Langley che impose a tutta l'opinione pubblica la favoletta dei Serbi 'cattivi' aguzzini di poveri e innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all'inevitabile criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo sui crimini e sulle nefandezze delle altre.
La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon. In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta, necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità, soprattutto dettate dal risveglio di un mai sopito odio etnico. Ma mai nessun conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile massiccio impiego di 'false flag', azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall'intelligence, per scatenare le reazioni dell'avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il concetto di 'false flag' in numerosi miei articoli, denunciando l'escalation del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra.
Fino ad oggi la più nota 'false flag' della guerra civile jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che determinò l'intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni serbo-bosniache sulle colline della città. Venne poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco di Alija Izetbegovi? a uccidere decine di suoi cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi.
E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale 'false flag' del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l'esercito serbo-bosniaco comandato dal Generale Ratko Mladi?, che da allora venne accusato di 'crimi di guerra' e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell'Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di 'false flag'.
I giornali italiani, che all'epoca scrissero titoli a caratteri cubitali per dipingere come un 'macellaio' il Generale Mladi? e come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadži?, anch'egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita, diretto dall'amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci.
Ibran Mustafi?, veterano di guerra e politico bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di coscienza, ha rilasciato ai media una sconcertante confessione: almeno mille civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito all'occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà».
Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran Mustafi? ha pubblicato un libro, Caos pianificato, nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai separatisti musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e - questo è molto significativo - anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni Unite.
Mustafi? racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell'amministrazione di Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser Ori?. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Ori? e le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia, sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono fuggiti in direzione di Tuzla ( governata dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi», svela Mustafi?. E, ben prima del massacro dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini che Mustafi? descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla.
«Lì - egli scrive - il mio parente Mirsad Mustafi? mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c'erano i nomi del suo compagno di scuola Branko Simi? e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ili?, dell’autista di Zvornik Mijo Raki?, dell’infermiera Rada Milanovi?. Inoltre, nelle battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di 3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi».
Mustafi? ci riferisce a riguardo una terribile confessione del famigerato Naser Ori?, confessione che non mi sento qui di riportare per l'inaudita credezza con cui questo criminale di guerra descrive i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di Mustafi?, anch'esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male, ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunovi? ha dilaniato il petto dell’infermiera Rada Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L'intera pista era inondata di sangue».
Da quanto ci racconta Mustafi?, gli elenchi dei 'bosniaci non affidabili' erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al Presidente Alija Izetbegovi?, e l'esistenza di questi elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte ho sentito l’ex capo della polizia Meholji? menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice Mustafi?, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafi?, l'elenco venne redatto dalla mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della città sin dal 1993. I 'padroni della vita e della morte nella zona', come lui li definisce nel suo libro. E, senza esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Ori?, assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica(clamorosamente assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia dell'umanità».
Ma l'aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni di Mustafi?  è l'ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegovi? , e in particolare tra Izetbegovi? e il presidente USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafi? afferma con totale convinzione.
«Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegovi? e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafi?. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di 'false flag'), nelle quali i miliziani albanesi dell'UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l'esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia.
Come sottolinea sempre Mustafi?, riguardo a Srebrenica ci sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da tempo emigrati e morti all'estero. E un discorso simile riguarda le persone torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani - sostiene Mustafi? - hanno deciso di dichiararsi vittime perché non avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato l'occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti invalidi di guerra di Srebrenica?».
Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto difficile  - sostiene nel suo libro - perché i fatti di Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il burattinaio capo di esse è stato Amor Masovi?, che con la fortuna fatta sopra il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di Izetbegovi? che, a partire dall'estate del 1992, hanno lavorato per realizzare il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime della guerra».
Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del 1995, la famigerata Operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l'uso di micidiali bombe all'uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il comando dell'esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale serbo-bosnica Banja Luka e che costrinse i Serbi ad un cessate il fuoco e all'accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba). Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri combattimenti.    
Alija Izetbegovi?, fautore del distacco della Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30% della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell'autoproclamato nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5 Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihi?. È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della 'comunità internazionale' la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all'epoca di Tito, (in particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e ostili allo Stato.
Nella sua celebre Dichiarazione Islamica, pubblicata nel 1970, dichiarava: «non ci sarà mai pace né coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non islamiche» e che «il movimento islamico può e deve impadronirsi del potere politico perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica Bosnia-Erzegovina, luogo dove storicamente hanno sempre convissuto in pace diverse culture e diverse religioni, in una satrapia fondamentalista, con l'appoggio ed i finanziamenti dell'Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e con l'importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di immani massacri.
Slobodan Miloševi?, accusato di 'crimini contro l'umanità' (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all'Aja. Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella sua cella l'11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che avrebbero scatenato le sue dichiarazioni.
Radovan Karadži?, l'ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladi?, comandante in capo dell'esercito bosniaco, sono stati anch'essi arrestati e si trovano in cella all'Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di 'crimini contro l'umanità', fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica.
Adesso che su Srebrenica è finalmente venuta fuori la verità, dovrebbe essere facile per loro arrivare ad un'assoluzione, a meno che qualcuno non abbia deciso che debbano fare la fine di Miloševi?.
Ma chi restituirà a loro e al defunto Presidente Jugoslavo la dignità e l'onorabilità? Tutte le grandi potenze occidentali, dagli Stati Uniti all'Unione Europea, dovrebbero ammettere di aver sbagliato, ma dubito sinceramente che lo faranno.
Nicola Bizzi

18 maggio 2011

50 giorni


Tanto, così tanto ci mise il vituperato "regime" cinese a ricorrere alle vie di fatto, nel 1989, dopo aver tentato in tutte le vie "diplomatiche" per far cessare l'occupazione di piazza Tienanmen. Se confrontiamo con le repentine (dalle 24 alle 48 ore al massimo) reazioni delle "democratiche" elite politiche di Tunisia, Egitto etc... si ha il senso forse di quello che fu, qualcosa di molto diverso da come ci è stato raccontato.
Nella "moderna", occidentale, civile, "democratica" Spagna siamo al terzo giorno. Vediamo quanto riescono a durare.

13 ottobre 2010

COLOMBO: LA SCOPERTA DELL’ IRREALTA’


DI GIANLUCA FREDA
blogghete.blog.dada.net/

La parola scritta è il carcere in cui avvizzisce e muore lentamente ciò che resta della civiltà occidentale. I giornalisti sono i secondini delle nostre celle; gli “esperti” di scienza e cultura i guardiani che ci sorvegliano col mitra in spalla durante l’ora d’aria; gli intellettuali – i più viscidi e odiosi di tutti – i nostri kapò, prigionieri come noi che in cambio di una sigaretta e del diritto di portarsi qualche puttana in cella si incaricano di tenerci in riga e di denunciare alle guardie ogni conversazione sospetta.


Cito qualche esempio tratto dalle prime pagine di quel gulag del pensiero che è il quotidiano Repubblica. In data odierna, dopo la morte di altri quattro alpini italiani in Afghanistan, ferve il dibattito sul tema: dobbiamo dotare oppure no i nostri aerei di ordigni da bombardamento per combattere i talebani?

E’ successo semplicemente che, dopo l’ennesima strage di nostri connazionali sacrificati alla tutela degli interessi USA (paese che ci occupa e ci umilia da 65 anni), i secondini di De Benedetti sono prontamente intervenuti per ripristinare l’ordine e scongiurare sul nascere riunioni e discussioni sediziose. In un paese libero il dibattito avrebbe avuto ad oggetto il tema: perché non ritiriamo immediatamente i nostri soldati dall’Afghanistan, visto che sono lì a farsi ammazzare per la salvaguardia di interessi che non sono nostri, ma dei nostri aguzzini statunitensi? E magari: quale maggior tutela offrirebbero eventuali bombe sugli aerei ai nostri militari, i quali hanno sempre trovato la morte in attacchi a sorpresa, a causa di autobombe ed ordigni esplosivi la cui deflagrazione nessun ufficiale dell’aeronautica avrebbe mai potuto prevedere o scongiurare? Per evitare che la pubblica opinione si soffermasse su questi quesiti, che avrebbero potuto mettere a rischio il sereno svolgimento della vita carceraria, gli sgherri di Repubblica sono prontamente intervenuti a crearne di fittizi, per soffocare ogni scintilla di pensiero e sostituirla con un’alluvione di chiacchiere stampate, senza referente concreto. Se la lingua parlata – il verbo - ha il potere di descrivere e spesso creare il mondo, vincolando il pensiero alle cose, la parola scritta ha il potere di annichilire e sterilizzare questa capacità creatrice, annullando ogni legame tra il significante e la realtà. La parola scritta, quando è gestita dagli aguzzini, ha il potere di cancellare il mondo, di abbattere l’impalcatura logica del nostro rapporto con l’esteriore. Come una scarica taser d’inaudita violenza, essa dissolve le connessioni nervose tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, spezzando in due entità separate l’essenziale unità di mente e materia.

Altro esempio: torna alla ribalta la vicenda di Sakineh. Secondo indiscrezioni (sulla cui attendibilità è comunque opportuno nutrire qualche dubbio) in Iran sarebbero stati arrestati o fermati il figlio della nota pregiudicata, Sajiad Qaderzadeh, e il sedicente avvocato della donna, Javid Houstan Kian. Qui la domanda dovrebbe essere: come mai le autorità iraniane sono state così tolleranti da attendere tanti mesi prima di schiaffare in galera questi due bei tomi? Il primo è un traditore che sta sfruttando la vicenda criminale di sua madre per fomentare una campagna propagandistica internazionale contro il proprio paese; campagna che potrebbe preludere ad un’aggressione militare con centinaia di migliaia di vittime civili. Il secondo è un falso avvocato, amico dello stesso Sajiad, mai incaricato da nessuno di provvedere alla difesa processuale della donna e affiliato ai Mujahidin del Popolo, gruppo terrorista antigovernativo finanziato da USA e Israele. In qualunque paese occidentale dotato d’istinto di autoconservazione, due elementi del genere sarebbero stati da tempo affidati alle patrie galere, con buona pace dei paladini dei diritti umani. La domanda pertinente avrebbe dovuto essere: come mai in Iran le autorità governative e i servizi segreti sono così incredibilmente rispettosi nei confronti di chi si pone al servizio di potenze nemiche, mettendo a rischio la sicurezza nazionale? Invece ogni possibilità di comprensione della realtà sociale iraniana viene azzerata dall’intervento dei giannizzeri della stampa, che seppelliscono ogni ponderata riflessione sotto un bombardamento di fregnacce. Si parla ancora di lapidazione, di pene per adulterio, tutte cose che non esistono in Iran, ma solo nell’universo autistico dei pennivendoli repubblicani; un universo di parole scritte che si sostituisce a quello reale come i baccelloni de “L’invasione degli ultracorpi” si sostituivano agli umani, affogando la vita vera in un’inondazione di nonsense tipografico.

Ancora: leggo a mezza pagina del sito web di Repubblica un titolo che mi fa ben sperare. “Il fango spacciato per giornalismo”. Finalmente, mi dico. Si saranno decisi a vergognarsi e a fare pubblica ammenda per gli schifosi attacchi del loro giornale al lavoro di ricerca svolto da studiosi come Claudio Moffa! Vana speranza. Repubblica, giornale realmente negazionista (in quanto nega totalmente la realtà che abbiamo sotto gli occhi per sostituirla con fanfaluche stampate), sta in realtà prendendosela con i dossier predisposti dai concorrenti contro Fini e la Marcegaglia; i quali dossier, per quanto squallidamente denigratorio sia l’intento che li anima, hanno almeno il merito e il coraggio di attaccare personaggi influenti sulla base di riscontri concreti, non un inerme docente universitario sulla base del nulla.

Se su queste “notizie” fornite da Repubblica fosse possibile un dibattito pubblico, una verifica collettiva, uno scambio di punti di vista condotto tra esseri umani che vivono a contatto con i fenomeni che descrivono, si riuscirebbe facilmente a comprendere la distanza che separa le versioni stampate dell’Afghanistan, dell’Iran, della storia delle deportazioni naziste, dalla loro concreta essenza. La parola orale è deittica, è strettamente intrecciata con la realtà a cui si riferisce, non può mai separarsene completamente, l’uno dei due termini implica o presuppone o genera l’altro. Ma con la parola scritta, il mondo reale e quello della sua descrizione tendono a divenire due enti senza più alcun punto di contatto. La scrittura, nata per rendere eterno l’uomo, ha finito per rimpiazzarlo. Nel bellissimo romanzo di Sebastiano Vassalli Un infinito numero, il liberto Timodemo si reca a visitare il tempio ormai in rovina del dio etrusco Vertunno. Sulle pareti, ricolme di scritte e disegni osceni, legge frasi come “Tizia, fututa (fottuta); Caia, fututa; Sempronia, fututa...”. “Benvenuto nell’epoca della scrittura!”, gli dice il sacerdote Aisna. “L’uomo che ha scritto quei nomi sul muro, e che è morto già da una ventina d’anni, non fotteva per fottere: fotteva per scrivere...”.  

Questa tremenda attitudine a negare l’esistenza di una sostanza della realtà che possa non consistere semplicemente in un accessorio della parola scritta, pur avendo in Repubblica uno dei suoi più vistosi rappresentanti contemporanei, non è certo nata con Repubblica. Essa è antica quanto la storia dell’occidente. Nasce probabilmente con l’invenzione della scrittura, esplode con lo sviluppo delle attività mercantili al tramonto del medioevo e trova uno dei suoi più illustri rappresentanti in quel Cristoforo Colombo del quale si commemora oggi la scoperta che cambiò la storia del mondo. Potremmo anzi dire che essa rappresentò l’ultimo rantolo della storia del mondo, prima che gli uomini iniziassero a chiamare “storia” la recezione passiva di enunciati eteronomi, anziché la produzione diretta di narrazioni del passato mediate dal sentire collettivo. Si trattò per l’occidente di una svolta epocale: tutta la narrazione su cui si fonda la vita dei popoli europei, da questo momento in poi, non sarà più prodotta e gestita nel nostro continente dagli stessi protagonisti della vita sociale, ma recepita dall’esterno, attraverso i testi, le relazioni e le cronache di autori che descrivevano alle attonite popolazioni d’Europa vicende di terre lontane e sconosciute. L’avventura di Colombo è l’emblema del trionfo del segno, slegato dal suo referente, su una realtà fenomenica che va progressivamente eclissandosi per lasciare campo libero alla sua rappresentazione astratta. Fu proprio questa eclisse del contatto tra idea e mondo a consentire ai colonizzatori europei di perpetrare il più spaventoso genocidio di ogni tempo, quello dei nativi americani, senza cessare di rappresentarsi a se stessi e ai contemporanei come portatori di civiltà, di giustizia, di evangelizzazione cristiana. Gli altri, le culture indigene, non esistono se non in funzione della raffigurazione astratta che si dà di esse, sulla base di assiomi e dogmi che pretendono di far coincidere la percezione europea dell’esistente con la complessità socio-culturale del nuovo mondo.

Colombo incarna meglio di qualunque altro personaggio storico questa crisi in cui la realtà si lascia definitivamente soppiantare dal nome. Colombo è letteralmente ossessionato dai nomi. Dal suo, innanzitutto, che cambiò più volte nel corso della sua vita. Un nome per cui provava una tale venerazione da non apporlo neppure come firma sulle pagine dei suoi diari di bordo, sostituendolo con un’elaboratissimo crittogramma (che impose poi anche ai suoi eredi), così complicato che ancora oggi il suo significato resta un enigma per gli studiosi .




Scrive di lui Bartolomé de Las Casas, che fu suo grande ammiratore: “Ma quell’uomo illustre, rinunciando al nome consacrato dall’uso, volle chiamarsi Colón, ripristinando il vocabolo antico, non tanto per questa ragione, ma in quanto mosso, dobbiamo credere, dalla volontà divina che lo aveva prescelto per realizzare ciò che il suo nome e cognome significavano. [...] Per questo egli era chiamato Cristóbal, cioè Christum ferens, che vuol dire portatore di Cristo, e così firmò molto spesso; perché, in verità, egli fu il primo a schiudere le porte del mare Oceano per farvi passare il nostro Salvatore Gesù Cristo, fino a quelle terre lontane e a quei regni fino ad allora sconosciuti. [...] Il suo nome fu Colón, che significa ripopolatore; un nome che ben si conviene a chi, con i suoi sforzi, ha permesso che fossero scoperti quei popoli, quelle innumerevoli anime che, grazie alla predicazione del Vangelo, [...] sono andate e andranno ogni giorno a ripopolare la città gloriosa del Cielo”. (Historia, I, 2).  


Colombo è insomma convinto che il suo destino di evangelizzatore di popoli selvaggi (Cristóbal) e di colonizzatore (Colón) siano il portato di una verità inscritta nel suo nome, prima ancora che nelle sue azioni. Dinanzi all’ermeneutica, la realtà deve farsi da parte. Il nome si appropria di una valenza che gli consente non più di creare, ma di essere, autonomamente e irrefutabilmente, l’unica realtà possibile.

Colombo assegna d’autorità un nome alle isole che tocca nel corso del suo viaggio. Sa benissimo che quelle isole hanno già un nome nel linguaggio delle popolazioni native, ma i nomi degli altri non gli interessano. Non è soltanto una questione di “presa di possesso”. La realtà deve essere ricostruita a immagine e somiglianza della concezione cristiana del mondo, senza che l’ermeneutica altrui possa minimamente interferire con l’universo virtuale che si va edificando. “Alla prima [isola] da me incontrata”, scrive Colombo nella Lettera a Santángel del marzo 1493, “ho dato il nome di San Salvador, in onore dell’Alta Maestà che mi ha meravigliosamente concesso tutto questo; gli indiani chiamano quest’isola Guanahani. La seconda l’ho chiamata Santa María de la Concepción, la terza Fernandina, la quarta Isabela e la quinta Juana; in questo modo ho dato a ciascuna di esse un nuovo nome”. Nell’ordine, i luoghi progressivamente visitati vengono rinominati in onore di Cristo, della Vergine e dei loro paladini sulla terra, i sovrani di Spagna.    

I diari di Colombo contengono frequenti riferimenti agli ambienti e ai paesaggi che egli va via via visitando. Solo che non si tratta di descrizioni. Colombo aveva letto l’Imago mundi di Pierre d’Ailly ed era perciò convinto – secondo la credenza medievale, ben esemplificata dalla struttura della Commedia dantesca – che il Paradiso Terrestre dovesse trovarsi in una zona temperata oltre l’equatore, in cima alla montagna del Purgatorio. Egli pertanto non prova nemmeno a descrivere i luoghi che concretamente vede dinanzi a sé, ma li reinventa completamente, costruendo un universo di parole che ha lo scopo di far prevalere la sua concezione mistica del mondo su ciò che va concretamente osservando. Tornando dalle Azzorre, annota sul suo diario di bordo, in data 21 febbraio 1493: “Il paradiso terrestre si trova all’estremità dell’Oriente, che è una regione davvero molto temperata”. E nella Lettera ai sovrani del 31 agosto 1498, non trovando ancora traccia della montagna del Purgatorio che aveva così attivamente ricercato, scrive: “Trovai che il mondo non era rotondo così come viene descritto, ma aveva la forma di una pera, tutta rotondeggiante, salvo là dove si trova il picciòlo, che è il punto più elevato; oppure aveva la forma di una palla rotonda, su un punto della quale fosse posata una mammella femminile; la parte dove si trovava la mammella era la più elevata e la più vicina al cielo, ed era situata sotto la linea equinoziale in questo mare Oceano, all’estremità dell’Oriente [...]. Non ritengo che il paradiso terrestre abbia la forma di una montagna scoscesa, come ce lo descrivono gli scritti ad esso dedicati, ma che si trovi invece su quella sommità, nel punto da me indicato che corrisponde al picciòlo di una pera, cui si giunge salendo per un lungo pendìo”. La sua narrazione non tiene conto della realtà, ma edifica una realtà alternativa in grado di coincidere con la mitologia cristiana. I luoghi che Colombo attraversa sono sempre “bellissimi”, “dolci”, ricchi di uccellini cinguettanti, di alberi frondosi e di valli amene, nonché di oro e di altri minerali preziosi (di cui Colombo, fino a quel momento, non aveva trovato traccia), come si addice ad ambienti situati in prossimità del Paradiso Terrestre. Il 16 ottobre 1492 annota nel Giornale: “Qui e in tutta l’isola tutto è verde, e la vegetazione è come in Andalusia in aprile. Il canto degli uccellini è così dolce che davvero non si vorrebbe mai lasciare questo posto; stormi di pappagalli oscurano il cielo, e ci sono uccelli grandi e piccoli, di specie varie, e così diversi dai nostri che è davvero una meraviglia”. E il 19 ottobre: “Quando arrivai a questo capo, giunse dalla terra un profumo di fiori o d’alberi così delizioso e dolce che davvero era la cosa più piacevole del mondo”. L’attenzione che Colombo rivolge alla natura è immensa, tanto quanto è superficiale il suo interesse verso le lingue, gli usi e i costumi delle popolazioni indigene che incontra nelle sue esplorazioni. Ciò in conformità ad una tradizione iconografica del Paradiso Terrestre in cui erano soprattutto le bellezze naturali ad essere poste in risalto.

Delle popolazioni che vivono in quei luoghi, Colombo sa dire soltanto che anch’esse sono “dolci” e “generose”, come si addice agli abitanti del paradiso. Non cesseranno del tutto di esserlo neppure quando i religiosi che accompagnavano Colombo nel suo secondo viaggio faranno bruciare su un pubblico rogo alcuni indigeni che avevano osato rovesciare a terra alcune immagini sacre e urinarci sopra. Neppure quando Colombo inizierà a progettare di costringere gli “indiani” a cedere con la forza le ricchezze che non avevano intenzione di consegnare spontaneamente.

Colombo sottolinea spesso la circostanza della nudità degli indigeni, poiché essa è una prova ulteriore della prossimità del Paradiso Terrestre, in cui le anime, secondo la tradizione, abitano in condizioni di perfetta nudità spirituale. “Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge” (4 novembre 1492). “Sono il miglior popolo del mondo e soprattutto il più dolce”, scrive Colombo il 16 dicembre 1492; e “Amano il loro prossimo come se stessi” (25 dicembre 1492). Siamo alla genesi del “bipensiero” cui Orwell dedicherà le sue riflessioni quasi 500 anni più tardi. Vi è già nel pensiero dell’occidente una realtà solida e inattaccabile, quella costruita sulla carta attraverso i segni della scrittura; la realtà empirica è secondaria o irrilevante. In questa realtà “accessoria” si può distruggere, uccidere, depredare, condannare decine di uomini al rogo o a pene crudeli, senza che questo possa scalfire la moralità dei predatori o la gentilezza delle vittime. Colombo farà condannare molti indigeni sorpresi a rubare al taglio del naso e delle orecchie, senza per questo smettere di citare la loro “perfetta generosità” e il loro “altruismo” nelle sue lettere ai sovrani. La scrittura diventa con Colombo una realtà abitabile, un rifugio in cui è possibile cancellare, annullare e disconoscere le atrocità perpetrate sul piano materiale, continuando a sentirsi puri mentre si calpesta il sangue delle vittime.

Colombo non accetta che i suoni pronunciati dagli indigeni con cui ha l’occasione di parlare possano essere una lingua. Sa benissimo che le loro espressioni sono significanti che fanno riferimento a significati di qualche tipo e anzi chiede spesso ai suoi uomini di interpretare le parole degli indigeni per avere informazioni più dettagliate sulla geografia dei luoghi. Ma che un insieme di suoni possa essere strutturato secondo regole complesse senza per questo dare origine ad un sistema di scrittura, è per lui inconcepibile. Una lingua, per essere tale, deve poter essere scritta o avere delle regole scritte. Il 12 ottobre 1492, in una lettera scritta ai sovrani spagnoli dopo il primo contatto con gli indigeni, Colombo afferma di voler inviare in Spagna sei di questi uomini “affinché possano imparare a parlare”. Si tratta di un’affermazione così assurda che molti storici la interpretano nel senso: “affinché possano imparare la nostra lingua”. Ma Colombo aveva scritto proprio ciò che intendeva dire. I suoni emessi dagli indigeni non gli appaiono come “parole” più di quanto possa essere “parola” l’abbaiare di un cane. Un sistema di segni e di riferimenti non irregimentato in una normativa morfologica di qualche tipo, possibilmente scritta, non è per lui assimilabile a una lingua, per quanto precisi possano essere i suoi rapporti con la realtà circostante.

Colombo non accetta neppure che i nomi utilizzati dagli indigeni per riferirsi alle loro autorità possano avere referenti diversi da quelli esistenti nella sua lingua. Quando viene a sapere che i nativi utilizzano la parola “cacicco” per definire il loro capo, egli non si chiede neanche per un momento quali siano le prerogative specifiche di potere che caratterizzano questa figura. La sua unica preoccupazione è di capire se questo nome corrisponda ad un re o a un governatore. L’idea che le istituzioni siano strutture convenzionali pertinenti alle singole culture non gli sfiora neanche lontanamente il pensiero. Non può esistere altra realtà istituzionale al di fuori delle cariche designate per iscritto nei mille e mille documenti spagnoli che egli ha avuto modo di visionare nel corso della sua vita. Così, uno dei suoi secondi scrive sul giornale di bordo questa annotazione che è quasi comica nella desolazione intellettuale di cui offre involontaria testimonianza: “Sino ad allora l’Ammiraglio non era stato capace di capire se con questa parola [“cacicco”] intendessero re o governatore. Essi usano anche un’altra parola per dire ‘grande’, cioè nitayno; ma non capì se in tal modo chiamassero un hidalgo o un governatore o un giudice”. Hidalgo, governatore, re e giudice sono parole che, in quanto tali, esauriscono di per sé stesse tutte le realtà possibili. Per Colombo, non è neppure concepibile un’autorità di governo che non rientri in questa tassonomia.

Senza una buona dose di disprezzo per il nodo che vincola la realtà del mondo alla sua rappresentazione nominale, probabilmente il viaggio di Colombo non sarebbe neppure stato compiuto. Alla fine del 15° secolo, si sapeva benissimo che la Terra era sferica e si supponeva già da tempo che esistesse pertanto una rotta che permettesse di arrivare in Asia dirigendosi verso ovest, anziché verso est. Si reputava però – non a torto, vista l’ancora carente tecnologia navale dell’epoca – che la distanza da coprire fosse troppo ampia perché l’impresa risultasse redditizia, per non dire realizzabile. Colombo non era d’accordo. Per progettare il suo viaggio, si basò sugli studi dell’astronomo arabo al-Farghani, il quale era riuscito a misurare la circonferenza terrestre con una certa precisione. Valutando le distanze così ricostruite, decise che il tragitto da percorrere non era così ampio da mettere a rischio il successo dell’operazione. Il problema è che al-Farghani aveva misurato la circonferenza terrestre in miglia arabe, che erano superiori di un terzo a quelle italiane. Colombo tradusse disinvoltamente le cifre fornite dallo studioso arabo in miglia nautiche italiane, senza minimamente pensare al fatto che le unità di misura hanno carattere convenzionale e sono il prodotto di una rappresentazione numerica della realtà che varia da cultura a cultura. Per lui non c’è differenza tra il mondo e la sua rappresentazione grafica o numerica. L’idea espressa dalla scrittura è realtà empirica ed è inconcepibile che la realtà empirica possa avere valore soggettivo. Sono le cose materiali che, opponendo a volte un’irragionevole recalcitranza ad essere ricondotte alla loro proiezione ideologica, devono essere costrette con la forza ad uniformarsi a quanto previsto nei testi delle “auctoritates”.

Così, quando gli indigeni delle isole caraibiche gli indicheranno con il nome “caribe” le tribù antropofaghe che vivevano nell’interno, Colombo non vorrà saperne di accettare una realtà così cruda. E’ inconcepibile che nei pressi del Paradiso Terrestre possano svolgersi pratiche così abominevoli; ed è inconcepibile che nell’impero del Gran Khan (nelle cui prossimità Colombo era convinto di essere giunto) tali pratiche possano essere consentite. Egli ribattezzerà dunque quelle popolazioni con il nome “canibe”, intendendo “sudditi del Gran Can”; da cui è ironicamente derivato il nostro termine “cannibali”, segno che anche la realtà virtuale della scrittura, in alcune circostanze, è costretta a soccombere all’evidenza.

Il momento in cui l’evidenza inizia ad aprirsi il varco nella teoria delineata dalla scrittura è la fase più drammatica. Per il pensiero occidentale, di cui Colombo rappresenta l’alfa e al tempo stesso l’omega, la realtà dei fatti non è un flusso d’informazioni a cui uniformare, per adattamenti successivi, la propria teoria. Essa è invece il nemico, perennemente in agguato per fare scempio della teoria, il che rappresenta un sacrilegio, derivando la teoria direttamente dalla parola divina. Non si creda che l’Illuminismo o il “metodo scientifico” abbiano minimamente scalfito questa impostazione. Essi l’hanno invece rafforzata e messa al sicuro, dissimulandola sotto un travestimento non facile da riconoscere.

Quando Colombo inizia a capire che i nativi rifiutano di uniformarsi all’immagine utilitaristica con cui il colono-evangelizzatore li ha ridefiniti nei suoi diari, per loro iniziano i guai. Dalle descrizioni paradisiache, il pensiero occidentale scivola rapidamente verso il manicheismo. Per contrastare il pericolo rappresentato dall’irrompere della molteplicità infinita di prospettive sul mondo nella monoliticità del dogma, la dottrina dell’occidente ricorre alla sua strategia consueta: cedere terreno solo parzialmente, scindendosi in una duplicità tattica, anziché rassegnarsi all’inevitabile e frammentarsi in innumerevoli punti di vista possibili. Al termine del suo primo viaggio, Colombo lascia tranquillamente sull’isola di Española alcuni dei suoi uomini, in compagnia di quei selvaggi così miti ed altruisti. Ma al suo ritorno l’anno successivo, è costretto ad arrendersi all’evidenza che i selvaggi miti ed altruisti hanno nel frattempo accoppato gran parte della sua ciurma. Da questo momento in poi, l’atteggiamento di Colombo verso i nativi diventa manicheo. Dai suoi scritti successivi desumiamo che esistono due tipi di selvaggi: quelli “buoni”, cioè quelli “già naturalmente predisposti a ricevere l’evangelizzazione cristiana”; e quelli “cattivi”, che vanno resi schiavi o sterminati senza pietà. La colpa di non corrispondere all’immagine virtuosa e astratta che l’Ammiraglio aveva delineato di loro nei suoi resoconti scritti è così terribile che l’unica pena comminabile è la soppressione – non più soltanto ideale, ma fisica - di tutte le caratteristiche che quell’immagine contraddicono. “I trasportatori”, scrive Colombo nella Memoria per Antonio de Torres del 30 gennaio 1494, “potrebbero essere pagati in schiavi cannibali, feroci ma robusti, ben fatti e di buona intelligenza, i quali, strappati alla loro condizione disumana, possono essere – io credo – i migliori schiavi del mondo”. E nelle Istruzioni a Mosen Pedro Margarite del 9 aprile dello stesso anno:  “Non c’è peggior gente dei vigliacchi, che non rischiano mai la vita faccia a faccia; saprete che, se gli indiani trovano uno o due uomini isolati, è molto probabile che li uccidano”.

Fernando, figlio di Colombo, riporta un significativo episodio avvenuto nel 1503, durante il quarto viaggio verso le americhe: “Costruii in quel luogo un villaggio e feci molti doni al quibian – così essi chiamano il signore di questa terra - , ma sapevo bene che la concordia non poteva durare a lungo. In effetti, è gente molto zotica, e i miei uomini sono molto importuni; alla fine, presi possesso delle terre appartenenti a quel quibian. Quando vide le case che avevamo costruito e l’intensità dei nostri traffici, decise di bruciare tutto e ucciderci tutti”. Gli spagnoli, per tutta risposta, rapirono i figli e i familiari del quibian e li imprigionarono sulle navi, pensando di utilizzarli come ostaggi. Durante la notte, alcuni dei prigionieri riuscirono a fuggire; quelli che non avevano potuto seguirli, si diedero la morte, impiccandosi con le funi trovate nella stiva delle navi. In parole povere: la generosità dei selvaggi viene dapprima affermata per iscritto, come realtà apodittica e incontestabile. Tutti coloro che con il proprio comportamento contraddicono questo paradigma, sono da considerarsi “zotici” e fuorilegge, meritevoli pertanto di essere ricondotti con la forza allo stereotipo che hanno osato disattendere.
Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net
Link: http://blogghete.blog.dada.net/archivi/2010-10-12

09 ottobre 2010

Ancora su antisemitismo ed ebreicidio

Alcuni lettori hanno sollecitato un approfondimento del tema. Ecco la replica di Losurdo [SGA].

Si può discutere delle modalità con cui esso viene messo in atto, ma sulla realtà dell’ebreicidio non ci sono dubbi. Come scrivo nell’articolo riportato in questo blog (Condanna dell’ebreicidio e condanna delle infamie coloniali del Terzo Reich.Vera e falsa critica del negazionismo), tale realtà finisce con l’emergere anche dall’esposizione di un campione del negazionismo qual è David Irving. E’ vero, per l’ebreicidio non c’è un ordine scritto, come per il Kommisarbefehl, cioè per l’«ordine commissariale» del Führer che impone l’esecuzione immediata dei quadri comunisti e sovietici fatti prigionieri. Ma non mancano le prese di posizione ufficiale, che accennano in modo trasparente alla necessità dell’ebreicidio. Prima ancora dello scoppio della guerra, il 30 gennaio 1939, Hitler dichiara: «Se l’ebraismo internazionale riuscisse, in Europa o altrove, a precipitare i popoli in una guerra mondiale, il risultato non sarebbe la bolscevizzazione dell’Europa e la vittoria del giudaismo, ma lo sterminio della razza ebraica (Vernichtung der jüdischen Rasse) in Europa». Più tardi, a guerra ormai scatenata, Hitler si è vantato della giustezza della sua «previsione».
Involontariamente, gli stessi negazionisti sono costretti a riconoscere l’essenziale. Così scrivo nell’articolo citato:

“Pur «coperta da eufemismi sottili», l’«intera attività omicida dei nazisti» era comunque chiamata a uccidere «senza distinzioni di classe sociale, di sesso o di età»; le stesse squadre speciali riuscivano a portare a termine il loro compito «soltanto sotto l’effetto dell’alcool». Tali ammissioni sono però gravemente indebolite dalla tesi secondo cui Hitler era forse all’oscuro di tutto! Eppure, è lo stesso Irving ad osservare che il Führer considerava «eccellente» e meritevole della più ampia diffusione il proclama con cui il generale W. von Reichenau chiariva ai suoi soldati un punto essenziale: occorreva esigere «un duro ma giusto tributo dai subumani ebrei»”.

Dunque, l’ebreicidio è fuori discussione. Il problema è di non dimenticare il nesso che, nella politica hitleriana, sussiste tra ebreicidio, liquidazione a tutti i costi del bolscevismo e decimazione e schiavizzazione dei popoli coloniali (a cominciare dai popoli slavi e dell’Unione sovietica). Chi dimentica questo nesso, critica un negazionismo per cadere in un altro. E’ quello che spiego ancora una volta nel mio articolo: Condanna dell’ebreicidio e condanna delle infamie coloniali del Terzo Reich.Vera e falsa critica del negazionismo.

20 agosto 2010

La vita è bella (Lev Davidovič Bronštejn "Trockij" )

« Quali che siano le circostanze della mia morte, io morirò con la incrollabile fede nel futuro comunista. Questa fede nell'uomo e nel suo futuro mi dà, persino ora, una tale forza di resistenza che nessuna religione potrebbe mai darmi... Posso vedere la verde striscia di erba oltre la finestra ed il cielo limpido azzurro oltre il muro, e la luce del sole dappertutto. La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla di ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore. » (Lev Davidovič Bronštejn "Trockij" o "Trotsky" ).

La vita è bella.
La frase del grande rivoluzionario ucraino ha dato l'ispirazione a Roberto Benigni per il titolo del suo film. Curiosamente lo stesso titolo era stato già usato per un film del 1943 di Carlo Ludovico Bragaglia. Curiosamente, perché in quel film recitava Maria Mercader, sorella di quel Ramon Mercader che fu, proprio 70 anni fa, oggi, l'esecutore materiale dell'assassinio di Trotsky.
E per sua disgrazia , essendo Maria Mercader moglie di Vittorio de Sica, anche zio di Christian de Sica. Le disgrazie non vengono mai sole.
Ma la vita è comunque bella.

12 luglio 2010

La vera storia di Madre Teresa







Da tempo alcuni giornalisti di rilievo nella stampa anglosassone, come Christopher Hitchens, hanno cominciato ad occuparsi sistematicamente delle ombre che emergono dietro alla fama della missionaria nota come Madre Teresa di Calcutta. Sono stati raccolti documenti, condotte inchieste, registrate testimonianze, eseguite indagini e più si scava nell'attività realmente svolta da Madre Teresa e più la missionaria appare come un personaggio ambiguo, bigotto, ipocrita, fondamentalista... qualsiasi cosa fosse Madre Teresa non era di certo quello che la maggior parte delle persone oggi crede. La suorina albanese era più interessata a promuovere i suoi squallidi quanto disumani principi dottrinali su sventurati moribondi che finivano nel suo ospizio, destinati a non uscirne più e a morire nella sofferenza, giacchè la missionaria non permetteva l'uso di antidolorifici... il dolore avvicina a Gesù!
E mentre a Calcutta molte organizazioni umanitarie portavano benefici reali alla popolazione, costruendo veri ospedali e operandovi con serietà, Madre Teresa si costruiva una immeritevole fama mondiale con la sua indubbia capacità mediatica e imbonitrice, realizzando documentari ad arte per magnificare le sue presunte opere di bene (come il reso celebre "something Beautiful for God"), rimbalzando da una parte all'altra del mondo per presenziare cerimonie, ricevere premi, fare comizi e partecipare a campagne politiche conservatrici. I fondi raccolti da Madre Teresa sono finiti in larga parte nelle casse del Vaticano, il resto nella costruzione di conventi di missionari in tutto il mondo... altro che carità ai poveri tra i poveri, Madre Teresa fu soprattutto una macchina mangiasoldi, in crisi di fede per di più dato che in alcune lettere confidenziali confessa il suo intimo ateismo.
Ma tutti questi fatti, rigorosamente documentati, non riescono a sfondare la muraglia di santità costruita attorno alla missionaria. Questo ci da la misura di che cosa la stampa di inchiesta deve affrontare, un mostro radicato nelle menti della gran parte della popolazione: la credulità religiosa estesa al culto della personalità.

Fonti:
Le crisi di fede di Madre Teresa, Repubblica
http://www.repubblica.it/2007/08/sezi...

Il libro "la posizione della missionaria"
http://books.google.de/books?id=PTgJI...

lettera di madre teresa in cui crede clemenza alla corte per Charles Keating, affarista condannato per truffa racket e cospirazione. Prima della condanna fece una donazione di 1.250.000 dollari a Madre Teresa
http://howgoodisthat.files.wordpress....

Alcuni capitoli on-line del libro "The Final Verdict"
http://www.meteorbooks.com/index.html

The Guardian. Articolo su una missionaria di madre teresa accusata di torture su bambine
http://www.guardian.co.uk/world/2000/...

The Guardian: Articolo su esorcismo contro il demonio a cui la Chiesa ha sottoposto madre teresa prima che morisse
http://www.guardian.co.uk/world/2001/...

Documentario trasmesso dal britannico channel 4 su madre teresa
http://www.youtube.com/watch?v=9WQ0i3...

Stern: articolo sulla sparizione dei milioni di dollari donati a madre teresa e sul fatto che non sono stati spesi per fare ospedali
http://members.multimania.co.uk/bajuu/

articolo del corriere della sera sul funambolismo economico di madre teresa. tra buisness e carità
http://archiviostorico.corriere.it/19...

Articolo in cui si ricorda come le gerarchie cattoliche abbiano tentato di distruggere le memorie di madre teresa in cui confessava il suo ateismo:
http://www.albanianews.it/cultura/let...

altro articolo di discussione su madre teresa
http://www.thenation.com/doc/20070910...

Intervista al giornalista autore de "la posizione della missionaria"
http://giustizialiberta.blogspot.com/...

Time: altro articolo sull'ateismo di madre teresa
http://www.time.com/time/world/articl...

Articolo del giornalista britannico Christopher Hitchens sul fanatismo, il fondamentalismo e le frodi di madre teresa
http://www.slate.com/id/2090083/

altri articoli
http://www.mukto-mona.com/Articles/mo...
http://www.theage.com.au/articles/200...
http://www.indiastar.com/DhiruShah.htm

20 maggio 2010

Intervista a Domenico Losurdo: la non violenza.


Per visualizzare l'intervista clicca qui.



16 maggio 2010

Odifreddi intervista Hitler

dal blog Notizie dall' Impero

Piergiorgio Odifreddi è un matematico, logico e saggista, i suoi scritti, oltre che di matematica, si occupano di divulgazione scientifica, storia della scienza, filosofia, politica, religione, esegesi (comprensione del significato dei testi), filologia (studio delle parole) e saggistica varia.
Si ispira liberamente all'insegnamento e alle posizioni di Bertrand Russell e Noam Chomsky. In particolare, ha ripetutamente manifestato la sua opposizione alle politiche statunitense e israeliana, vedasi 
Non siamo tutti americani e La dannata Terra Santa.

Come ha accennato in un'intervista, ritiene che il "sedicente" sistema democratico, basato sull'elezione periodica di delegati ai quali viene assegnato un mandato generale in bianco per alcuni anni, sia ormai anacronistico e non adeguato né alla complessità della società moderna, né alla sua velocità di cambiamento.

Di Odifreddi mi piace molto questa sua affermazione:
Se la matematica e la scienza prendessero il posto della religione e della superstizione nelle scuole e nei media, il mondo diventerebbe un luogo più sensato e la vita più degna di essere vissuta. Che ciascuno porti dunque il suo contributo, grande o piccino, affinché questo succeda, per la maggior gloria dello Spirito Umano.

Il suo 
Il matematico impertinente, contiene la controversa Intervista a Hitler che riporto quì sotto. E' sicuramente un testo che fa riflettere sulla realtà in cui viviamo, molto in contrasto con il pensiero dominante nel nostro sedicente "occidente democratico".

Intervista a
ADOLF HITLER

Piergiorgio Odifreddi
Gennaio 2005
Adolf Hitler nacque in Austria il 20 aprile 1889, e dedicò la sua vita alla realizzazione del piano politico esposto nel 1924 nelMein Kampf, "La mia battaglia'', scritto in prigione dopo un fallito tentativo di colpo di stato. Il suo regno di terrore potè iniziare legalmente nel 1933, grazie al 44% dei voti del Partito Nazionalsocialista, e all'8 % del Partito Nazionalista (20,5 milioni in tutto), ottenuti alle elezioni: a dimostrazione del paradosso che un dittatore può anche arrivare al potere democraticamente.
L'espansione del Terzo Reich iniziò nel 1938 con l'annessione dell'Austria, e raggiunse al suo massimo un'estensione da Capo Nord al Sahara, e dalla Normandia al Caspio. La contrazione iniziò nel 1942 con le sconfitte di Stalingrado e di El Alamein, e si concluse il 9 maggio 1945 con l'entrata dei russi a Berlino. Poco prima, il 30 aprile, Hitler si era ucciso con un colpo di pistola nel suo bunker.
Sessant'anni dopo, mentre nel mondo si sta organizzando un Quarto Reich che va dagli Stati Uniti al Mediterraneo, abbiamo parlato del Terzo col sanguinario vegetariano che l'ha comandato per dodici anni.
Fürer, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale il suo nome è diventato sinonimo del male. Cosa ne pensa?
La storia è sempre stata scritta dai vincitori, e il bene è ciò che sta dalla loro parte. Se avessimo vinto noi, sinonimo del male sarebbe diventati i nomi di Churchill o di Roosevelt.
Non crede che ci siano motivazioni oggettive, oltre alla sconfitta? Stalin la guerra l'ha vinta, eppure anche il suo nome è diventato sinonimo del male.
Milioni di persone non l'hanno pensata così, su Stalin, prima e dopo la guerra: quanti russi hanno pianto, quando è morto? Temo che lei non sappia molto nè dello stalinismo, nè del nazismo, a parte ciò che le ammanniscono i Ministeri della Propaganda, del suo paese e di quello che lo comanda.
Ministeri della Propaganda? E quali sarebbero i nostri Goebbels?
Per parlarle in termini che lei può capire, se il nostro era il totalitarismo inumano del 1984 di Orwell, il vostro è oggi il totalitarismo dal volto umano del Mondo nuovo di Huxley. I suoi Ministeri della Propaganda sono dunque il cinema e la televisione: se vuole trovare i nuovi Goebbels, li cerchi fra gli Spielberg e gli Zeffirelli, o fra i Murdoch e i Berlusconi.
Cosa voleva insinuare, fra l'altro, con quel "paese che ci comanda''? Che l'Italia sarebbe una colonia degli Stati Uniti?
E non lo è, forse? Da quando siete stati occupati, nel 1944, non vi siete più liberati. A tutt'oggi ci sono 125 basi e 35.000 truppe statunitensi in Italia: è indipendenza questa? In Germania, poi, stiamo ancora peggio. Quella che voi chiamate liberazione, fu soltanto la sostituzione di un'occupazione militare a un'altra, meno esibita ma non meno effettiva.
Non vorrà negare, però, che il nazismo si è macchiato di crimini contro l'umanità mai visti prima.
Ah, sì? E quali?
Anzitutto, lo sterminio di sei milioni di ebrei.
Non dica cretinate. Il mio modello per la soluzione del problema ebraico è stato il modo in cui gli Stati Uniti avevano risolto l'analogo problema indiano: un genocidio sistematico e scientifico dei diciotto milioni di nativi che vivevano nell'America del Nord. Quanti indiani rimangono negli Stati Uniti, oggi? Qualche centinaio, mantenuti in riserve come i bisonti. E quanti ebrei rimangono invece, al mondo? Milioni, e hanno addirittura uno stato tutto per loro: il quale, tra l'altro, sta mostrando di aver imparato la nostra lezione sul come trattare le minoranze etniche.
Lei è proprio un senza Dio!
Senza il Dio degli ebrei, magari. Ma avevamo il vostro: non è forse stato Elie Wiesel, premio Nobel per la pace nel 1986, a dire che "tutti gli assassini dell'Olocausto erano cristiani, e il sistema nazista non comparve dal nulla, ma ebbe profonde radici in una tradizione inseparabile dal passato dell'Europa cristiana''? Non senza motivo le mie SS portavano scritto Gott mit uns sulla fibbia della cintura.
La Chiesa non la pensa certo così!
Ma se, da quando Rolf Hochhuth ha rotto l'incantesimo con Il vicario nel 1963, non si fa che parlare del silenzio di Pio XII nei confronti di quello che voi chiamate Olocausto! E poi, lei non ha certo letto il mio Mein Kampf, che immagino non sia facile da trovare nelle vostre librerie: se l'avesse fatto, ricorderebbe però che il progetto per il trionfo del nazismo era modellato sulla tenace adesione ai dogmi e sulla fanatica intolleranza che hanno caratterizzato il passato della Chiesa cattolica.
In ogni caso, basterebbe a condannarvi il disprezzo per la vita umana di civili innocenti che avete dimostrato durante la guerra.
Questa la vada a raccontare agli abitanti di Amburgo e di Dresda, sui quali avete riversato le "tempeste di fuoco'' che ne hanno ucciso un milione. O a quelli di Hiroshima e Nagasaki, trecentomila dei quali sono stati inceneriti da due bombe atomiche: nessuna propaganda può cancellare il fatto che i "cattivi'' nazisti non hanno costruito queste armi di distruzione di massa, mentre i "buoni'' Stati Uniti le hanno non solo costruite, ma usate!
Almeno, non vorrà negare la sua aberrante politica eugenetica.
Perchè mai dovrei negarla? Era un mezzo per ottenere la purezza della razza. Ma non capisco cosa ci trovi di aberrante: la mia legge del 1933, per la prevenzione dei difetti ereditari, era esplicitamente basata sul modello statunitense di Harry Laughlin, al quale noi demmo per questo motivo una laurea ad honoremnel 1936 a Heidelberg. Lo sa, lei, che la prima legge per la sterilizzazione di "criminali, idioti, stupratori e imbecilli'' fu promulgata nel 1907 dall'Indiana? Che fu poi imitata da una trentina di stati americani, e dichiarata costituzionale nel 1927 dalla Corta Suprema? Che negli anni '30 furono sterilizzati 60.000 individui negli Stati Uniti, metà dei quali nella sola California? E che negli anni '50, dopo la guerra, furono castrati 50.000 omosessuali?
Non vorrà dire che gli Stati Uniti, il melting pot, sono un paese razzista!
Lei è proprio un ingenuo! Secondo lei, contro cosa manifestava Martin Luther King, ancora negli anni '60? E chi scrisse Il passaggio della Grande Razza nel 1916?
Chi?
Madison Grant, amico di Theodore Roosevelt. Quando il libro fu tradotto in tedesco, gli mandai una lettera entusiasta, di cui lui fu molto compiaciuto. E a proposito di Roosevelt, non dimentichi che Pierre van der Berghe, studioso della razza, l'ha messo insieme a me e a Hendrik Verwoerd, l'artefice dell'apartheidsudafricano, nella Trinità del Razzismo del Novecento.
Di questo passo, arriverà a dire che gli Stati Uniti furono anche un paese nazista!
Gli Stati Uniti non possono aver seguito il nazismo, perchè l'hanno preceduto e ispirato. In fondo, volevamo entrambi una cosa sola: come cantavano le mie SS, Morgen die ganze Welt. Purtroppo il mondo era quasi tutto nelle mani delle potenze coloniali, e bisognava toglierglielo con la forza. Il "male'' di cui ci hanno accusati era tutto qui: voler fare a loro ciò che essi avevano fatto ad altri. Noi abbiamo fallito, ma gli Stati Uniti stanno portando a termine quello che era il nostro vero progetto: il dominio globale (militare, politico ed economico) del pianeta.
E' questa, dunque, l'eredità del nazismo?
L'ha già dichiarato Otto Dietrich zur Linde, il giorno prima della sua esecuzione, nell'intervista rilasciata all'argentino Borges, poi pubblicata col titolo Deutsches Requiem: il nazismo era un'ideologia così ben congegnata, che l'unico modo per sconfiggerla era di abbracciarla. Noi volevamo che la violenza dominasse il mondo, e il nostro scopo è stato pienamente raggiunto. Non abbiamo vissuto e non siamo morti invano.