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15 novembre 2010

E la sinistra conquista anche la Guinea.


Pezzo dopo pezzo , continua la conquista del mondo da parte dei partiti socialisti.
Dopo anni all'opposizione Alpha Condè, leader del Rassemblement du peuple de Guinée ( membro dell'Internazionale Socialista) vince le elezioni presidenziali battendo Cellou Dalein Diallo.
Un altro piccolo, ma significativo tassello. Dopo l'Asia e l'America Latina c'è speranza anche per l'Africa.

07 marzo 2010

La nuova rivoluzione cinese: verde, tecnologica e sociale, con meno speculazione e corruzione


La Cina costruirà un "sistema industriale" e un "modello di consumo" a basse emissioni di carbonio. E' quanto si legge in un rapporto di lavoro del governo di Pechino presentato oggi dal premier cinese Wen Jiabao alla sessione annuale dell'Assemblea nazionale del Popolo, il parlamento della Cina.
«La Cina si impegnerà a sviluppare tecnologie a basso contenuto di carbonio, nonché le risorse energetiche nuove e rinnovabili per rispondere attivamente ai cambiamenti climatici», si legge nel rapporto, distribuito a tutti i media cinesi già prima dell'apertura della sessione plenaria dell'Apn, che presenta anche i Piani per incrementare i pozzi di carbonio forestali cinesi ed ampliare l'estensione delle foreste di almeno 5,92 milioni di ettari nel 2010.
Quest'anno il regime comunista prevede per la Cina una crescita dell'8%, anche se la situazione per lo sviluppo del Paese potrebbe essere migliore di quella del 2009.
Uno degli strumenti scelti proposti dal premier cinese per accelerare lo sviluppo della Cina è un ambizioso Piano di innovazione scientifica e tecnologica, «Nel settore Internet e delle automobili ad energie rinnovabili, per esempio. La crisi finanziaria sta facendo nascere una nuova rivoluzione industriale e tecnologica. Bisognerà cogliere le opportunità, identificare le priorità e tenerci pronti ad apportare il nostro contributo». La Cina dovrà anche «Favorire uno sviluppo sostanziale della produzione di automobili ad energie rinnovabili, e l'integrazione delle reti di telecomunicazione, di Internet e della televisione via cavo. Il Paese deve sforzarsi di sviluppare nuove fonti di energia, nuovi materiali, tecniche di riduzione dei consumi energetici e di protezione dell'ambiente, la biologia, la medicina, la farmacologia, l'informatica e l'industria manifatturiera di alto livello».
Il cambiamento di modello in un Paese ancora in gran parte agricolo e arretrato non potrà che toccare anche le campagne, ma Wen ha assicurato che «La Cina manterrà uno sviluppo stabile dell'agricoltura ed un aumento sostenibile dei redditi degli agricoltori».
Nel 2010 i contadini cinesi dovrebbero ricevere dallo Stato 818,3 miliardi di yuan (119,8 miliardi di dollari) a sostegno della produzione agricola, per lo sviluppo delle regioni rurali e perle famiglie, 93 miliardi di yuan in più del 2009. Il premier cinese ha affermato che «Il governo darà la priorità ai problemi relativi all'agricoltura, alle zone ruralied agli agricoltori», anche attraverso aumenti del prezzo base di riso e grano per incoraggiare la produzione. Il reddito medio procapite nelle zone rurali nel 2009 è stato di 5.135 2009, con un aumento dell'8,5 % sul 2008, molto meno di quanto si guadagna in media in città: 17.175 yuan per abitante.
Per questo la Cina prevede di «Promuovere l'urbanizzazione attraverso lo sviluppo economico e lo spoostamento della popolazione rurale nelle piccolo città - ha detto Wen Jiabao- I lavoratori migranti saranno incoraggiati ad intraprendere gli affari nella loro regione natale. Lavoreremo per permettere ai migranti rurali che rispondono alle condizioni richieste di diventare progressivamente integralmente dei cittadini, assicurando nello stesso tempo condizioni di vita più decenti a coloro che restano in campagna».
Un progetto di ingegneria sociale che si è già frantumato nei milioni di immigrati interni "illegali" in città che sfuggono alla povertà estrema delle campagne ed impoveriscono la risaia ed il granaio che sfama il miliardo e 300 milioni di cinesi, soprattutto quelli già urbanizzati. Per questo Wen ha annunciato che «Il governo si è data come priorità la costruzione di infrastrutture agricole e la messa in opera di impianti destinati a migliorare il livello di vita della popolazione rurale, così come la gestione dei terreni agricoli e la costruzione di infrastrutture rurali».
Tutta questo "armonioso sviluppo" ha due nemici: il prezzo delle abitazioni e la corruzione dilagante.
Wen ha confermato l'impegno a frenare il rialzo eccessivo dei prezzi delle case ed a soddisfare il bisogno di alloggi che sta diventando una vera e propria emergenza sociale. Il premier ha annunciato lotta alla speculazione edilizia e un finanziamento da 63,2 miliardi di yuan (9,25 miliardi di dollari) per costruire nel 2010 case popolari destinate ai bassi redditi (14,7% in più), la costruzione di 3 milioni di alloggi a prezzi accessibili e il ripristino di 2,8 milioni di appartamenti in cattivo stato.
Ma è lo stesso Partito comunista cinese il vero ostacolo a questa nuova rivoluzione verde, tecnologica e sociale. Lo stesso Wen ha detto che «Alcuni funzionari sono staccati dalla realtà delle masse. Sono estremamente formali e burocratici. Alcune aree sono accessibili alla corruzione ed alcuni funzionari accordano poca considerazione all'esercizio delle loro funzioni in maniera conforme alla legge. Il lavoro del governo è considerevolmente al di sotto delle attese dell'opinione pubblica. La trasformazione delle funzioni governative è incompleta; ci sono troppe interferenze governative nella la micro-economia, e l'amministrazione pubblica e i servizi sono relativamente deboli». Poi Wen ha annunciato una specie di rivoluzione democratica: «Chiedo di fare degli sforzi per creare le condizioni che permettano al popolo di criticare e controllare il governo. Lasciamo che i media giochino pienamente il loro ruolo di controllo. Il governo deve assicurare una vita più felice e con più dignità per il popolo e rendere la società più armoniosa. Devono essere fatti sforzi per trasformare le funzioni di governo, rafforzare la riforma del sistema amministrativo e fare un governo al servizio del pubblico».
Sembra che in Cina, dopo 70 anni di comunismo, ci sia bisogno di una svolta popolare, verde e democratica che in altri Paesi chiameremmo "di sinistra".

15 febbraio 2010

Brasile: Lula, un film per chiudere un doppio mandato da record

di Maurizio Stefanini per Limes


RUBRICA ALTREAMERICHE. Nonostante il flop del kolossal sulla sua vita, Lula termina gli otto anni dei suoi due mandati con un indice di popolarità record e con eccezionali dati economici. E' cresciuto il ceto medio brasiliano. Va a Porto Alegre e a Davos, media tra Usa e Venezuela, ma rischia di strafare.


Você sabe quem è esse homem, mas não conhece asua história. “Voi sapete chi è quest’uomo, ma non conoscete la sua storia”. Il trailer comincia dunque con una casa bassa sull’orizzonte allucinato del sertão, mentre echeggia il vagito di un neonato. Si vede poi la testa dell’infante su cui cade un fiotto d’acqua, non è chiaro se per lavarlo o è il battesimo, ma la madre gli dice dunque: “ti chiamerai Luiz Inácio”. E poi vediamo il bimbetto saltellare tra i cactus. La madre con lui al collo e un fazzoletto in testa che viaggia su un camion. Un uomo barcollante che la picchia gridando, col ragazzino che si mette in mezzo. Luiz Inácio che si guadagna i primi soldini vendendo frutta in mezzo alla strada e lustrando scarpe. Una lancia su un fiume. La donna che piange mentre consegnano un diploma. Il giovanotto in tuta da operaio, al tornio. Il giovanotto che corteggia una ragazza. Un matrimonio in cravatta, sotto al riso che cade. Il giovanotto di nuovo in tuta da operaio che perde un dito sotto a una pressa. Un ospedale, con una voce che parla di un “figlio nato morto” e di una donna pure morta di parto. E poi tutta a una serie di assemblee sindacali. Un bacio a un’altra ragazza, stavolta bionda. Comizi e manifestazioni, inframezzati da un poliziotto che minaccia e da spari di lacrimogeni. Il giovanotto cui viene fatta la foto segnaletica degli arrestati. E poi i nomi degli interpreti, seguiti da un’assemblea che acclama il leader che si passa le mani sugli occhi, e si torna al ragazzino che viaggia sul camion.

È Lula, o filho do Brasil: biografia dei primi 35 anni
 di vita del presidente operaio, sugli schermi brasiliani dal primo gennaio di quello che sarà l’ultimo dei suoi otto anni di presidenza. La Costituzione non consente infatti più di due mandati consecutivi, e lui ha rifiutato l’iniziativa che pure era partita per modificarla, in modo da consentirgli una nuova ricandidatura. Lula, o filho do Brasil è un film che parla di poveri e di povertà, ma è la pellicola brasiliana più costosa di tutti i tempi: 17 milioni di reais, quasi 7 milioni di euro. Soldi pubblici nell’anno in cui si voterà per il presidente che di Lula dovrà prendere il posto, e con la candidata del suo partito Dilma Roussef che gli sedeva al fianco alla prima, da cui immaginabili e dure accuse di opposizioni e giornali. “Statua equestre”. “Film governativo”. “Spot a spese del contribuente”… Ma quando allo stesso Lula hanno chiesto che ne pensasse il presidente, pur commosso, non è riuscito a celare una certa perplessità.



In particolare sulla scena madre, quando suo padre ubriaco aggredisce la madre, e il piccolo si erge a difenderla: “non mi ricordo che il mio papà fosse così violento!”. Anche i suoi vecchi compagni di lotta interpellati hanno manifestato un riserbo simile. “Io sono stato in galera con Lula per 31 giorni”, ha ricordato il suo vecchio amico Djalma Bom. “Non è vero che dormivamo per terra, avevamo brande”. Completamente cancellata è la storia di Miriam Cordeiro, con cui Lula ebbe una figlia. Ma poi abbandonò entrambe, e lei andò in tv durante la campagna elettorale del 1989, accusandolo di averle imposto di abortire. Insomma: un santino che ufficialmente il presidente non aveva neanche sollecitato, anche se vari elementi del suo entourage avrebbero lavorato sotto banco. Un critico ha sostenuto che lo schema è chiaramente ispirato al Che Guevara di Steven Soderbergh.

Fábio Barreto, il regista, è però tutt’altro che un militante.
 Figlio di un notissimo produttore, fratello dell’altro regista di Dona Flor e i suoi due mariti, in passato ha diretto opere non esattamente ideologiche: da un clone brasiliano di Desperate Housewives a un film intitolato Lambada. Ha comunque avuto anche una nomination all’Oscar per il miglior film straniero, per un film del 1995 sull’emigrazione italiana di inizio ‘900. Nelle interviste ha spiegato che Lula non gli interessa tanto dal punto di vista ideologico quanto esistenziale. Essendo il primo presidente brasiliano venuto dalla povertà, è anche il primo che non ha complessi di colpa verso i poveri. E dunque, paradossalmente, anche il primo che non ha bisogno di fare il populista. Il film, in realtà, poi è andato male, malgrado le grandi aspettative che aveva creato: addirittura, si era pensato di dover mettere schermi all’aperto. Invece, la prima settimana di programmazione non è andato oltre il primo posto, e poi è scivolato verso il basso. Chi ha provato a indagare sui perché del flop ha concluso che il film è emozionante, gli attori sono bravi, ma non è quello il tipo di Lula che alla gente piace, e che termina gli otto anni dei suoi due mandati con un indice di popolarità record, di oltre l’80%. Ciò, malgrado la catena di scandali che ha falcidiato la dirigenza del suo partito, provocando anche ben due scissioni.

Il Lula che piace, ad esempio, è quello che prova a
 tenere assieme Porto Alegre e Davos. Andando prima a Porto Alegre, dove tornava per la sua decima edizione quel Forum Sociale Mondiale che proprio nella città brasiliana era stato inventato come alternativa da sinistra al “pensiero unico di Davos”, e che era poi migrato in altre sedi.



Una decima edizione in realtà in tono minore, a vedere il modo in cui l’attenzione dei mass-media è ormai precipitata al minimo, e anche la frequenza è ormai in tono minore: il che tra l’altro è quasi un paradosso, a vedere il modo in cui certe critiche del Forum Sociale Mondiale alla globalizzazione dopo la crisi sono ormai diventate quasi la nuova ortodossia di parecchi governanti, da Obama a Tremonti. Ma Lula doveva al Forum Sociale molto, se si pensa al modo in cui l’iniziativa aveva fatto da “vetrina” al suo Partito dei Lavoratori (Pt), e al suo nuovo modo di governare tra comune di Porto Alegre e Stato di Rio Grande do Sul. E anche se nel frattempo il Pt aveva perso entrambe le amministrazioni, andate rispettivamente al centro e al centro-destra, la presenza del “presidente operaio” ha galvanizzato i 15.000 presenti alla cerimonia.

“Lula è un militante del Forum Sociale”, ha proclamato
 il sindaco José Fogaça: che è del centrista Partito del Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb); che alle ultime elezioni ha sconfitto al ballottaggio proprio una candidata del partito di Lula; ma che è comunque alla guida di una città che questo evento ha reso famosa in tutto il mondo, e a cui tiene evidentemente in modo particolare, se si pensa che nella sua attività pre-politica di compositore musicale ne ha scritto l’inno. “Lula, guerreiro, do povo brasileiro!”, cantava la gente a tempo di samba. “Olé, Olé, Lula, Lula!". È vero che era meno gente degli 80.000 dell’edizione del 2003, quando vi era intervenuto per la prima volta da presidente. “Non rinnegherò mai una virgola delle idee che mi hanno portato alla Presidenza”, aveva allora proclamato. Ma poi, a sorpresa, era partito per Davos. Anche stavolta aveva appunto deciso di fare lo stesso. “Sto qui e poi vado a Davos, così come ho fatto nel 2003”, ha annunciato.

Qualcuno lo ha applaudito, qualcuno è rimasto perplesso. “Sono
 convinto che Davos non ha più il glamour di un tempo”, ha aggiunto quasi a mo’ di giustificazione. Malgrado la sua abituale vanteria “mai come con me le banche brasiliane si sono arricchite”, in agenda aveva un discorso sull’”urgenza di riformare il sistema finanziario internazionale”, oltre alla richiesta di concludere il Doha Round del Wto e di riformare l’Onu: due battaglie in cui il leader della sinistra coincideva esattamente con il presidente di un Paese con il doppio interesse geopolitico di trovare sbocchi al suo sempre più prorompente export, e di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.



E a Davos avrebbero dovuto consegnargli un nuovo “Premio allo Statista Globale” inventato apposta per lui dopo 40 anni di storia del Forum Economico: “riconoscimento al presidente Lula da Silva per il modo in cui ha portato il Brasile a compiere le sue mete di sviluppo e progresso sociale in maniera integrata e equilibrata”.

In realtà, poi a Davos non è riuscito ad andarci: colpa
 di una crisi di ipertensione cui non deve essere estranea la sua notoria propensione per i superalcolici e per la carne alla brace, e che l’ha obbligato a un improvviso ricovero subito dopo il discorso di Porto Alegre. Il fatto che il Premio abbiano dovuto darglielo attraverso un rappresentante, però, non vuol dire che non se lo sia meritato. Con lui il Pil brasiliano è cresciuto del 33%. Con lui l’inflazione è calata dal 16 al 5,3%. Con lui il debito pubblico è sceso dal 52,3 al 43%. Con lui il Brasile ha scoperto i giacimenti petroliferi che promettono a breve di farne un Paese esportatore di greggio. Ma spesso i meri dati macroeconomici ingannano, in un’area che come l’America Latina è famosa per economie che vanno bene dove però la gente sta male. O viceversa: dall’Argentina di Perón al Venezuela di Chávez, quelle altre situazioni in cui importanti politiche di redistribuzione vengono fatte al costo di sfasciare l’apparato produttivo in maniera quasi irreparabile.

L’eccezionalità del dato che Lula lascia in eredità
 è invece quella di economia e cittadini che hanno migliorato assieme. La povertà con Lula è caduta dal 26 al 23%. L’indigenza dal 15 all’8%. La partecipazione al reddito del 50% più povero è passata dal 13 al 15%. Quella del 10% più ricco è scesa dal 47 al 43%. La disoccupazione è scesa dal 13 all’8,9%. I salari reali sono aumentati del 15%. Insomma, Lula è riuscito infine a creare quel ceto medio che, come fu individuato fin dal tempo di Aristotele, è la vera base per ogni democrazia. Secondo un recente studio della Fondazione Getulio Vargas, ormai il ceto medio brasiliano sarebbe arrivato alla metà della popolazione, accogliendo nei suoi ranghi oltre 27 milioni di nuovi membri negli ultimi sei anni. Si tratta di 91 milioni di persone, esattamente il 49,22% dei brasiliani, che con redditi compresi tra i 115 e i 4807 reais, tra i 586 e i 2530 dollari, detengono il 46% del reddito nazionale. Nel 2003 non si trattava che di 64,1 milioni di persone, che rappresentavano solo il 37,56% della popolazione e concentravano il 37% del reddito.

Certo, resta un 40% di persone con entrate inferiori ai 1115 reais: 70 milioni di persone. L’indice di diseguaglianza continua a essere dei peggiori del mondo, e anche gli indici di delinquenza sono elevatissimi, Per non parlare di quelli di corruzione. Insomma: molto lavoro è stato fatto, ma molto è ancora da fare.



La convinzione di Lula è però che è ormai terminata l’epoca in cui si faceva l’amara battuta: “il Brasile è il Paese del futuro e lo sarà sempre”. “Il Brasile deve perdere la mania di piccolezza per entrare nella mania di grandezza senza arroganza”, è il nuovo slogan che, passata la crisi di ipertensione, è andato a lanciare durante l’inaugurazione di una fabbrica di semiconduttori per tv e microchip: assolutamente pionieristica per la regione. “Il Brasile non deve niente a nessuno”.

Il miglioramento macroeconomico e microeconomico
 è stato in effetti accompagnato sul fronte geopolitico da una grandeur che ha visto il Brasile fare da arbitro tra gli Usa di George W. Bush e di Barak Obama e il Venezuela di Hugo Chávez. Ottenere Olimpiadi e Mondiali di Calcio. Dare vita a una quantità di importanti intese di Paesi emergenti: dal Bric con Russia, India e Cina; al Basic con Sudafrica, India e Cina; all’Ibsa con India e Sudafrica. Certo, il rischio di strafare è sempre presente. La guida della missione Onu ad Haiti ha portato a un’imbarazzante figura di inefficienza in occasione del terremoto. Il tentativo di fare addirittura da mediatore anche tra Israele e Iran sfocia ora nella rinuncia di Lula a viaggiare in Iran, nel momento in cui l’opposizione scende in piazza e la preoccupazione della comunità internazionale per il programma nucleare di Teheran cresce. Ma si tratta di scivoloni probabilmente inevitabili, nel contesto di una crisi di crescita.

Resta per Lula il problema di non riuscire a comunicare la sua popolarità al Pt, che durante i suoi due mandati ha perso amministrazioni locali in quantità. E meno che mai la popolarità si è finora comunicata alla povera Dilma Roussef: che a lungo nei sondaggi ha arrancato di una ventina di punti sotto il candidato del centro-destra José Serra. C’è da vedere se il recente grave scandalo che ha portato in galera il governatore di Brasilia José Arruda, di Serra alleato, non possa portare a un’inversione di tendenza.

Maurizio Stefanini, giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il FoglioLiberoLiberalL’OccidentaleLimesAgi EnergiaScuola Superiore della Pubblica Amministrazione e Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze.Specialista in politica comparata, processi di transizione alla democrazia, problemi del Terzo Mondo,  in particolare dell’America Latina, e rievocazioni storiche.

28 gennaio 2010

La verità sul caso Rctv in Venezuela

dal blog di Annalisa Melandri




(manifestazione pro-Chávez a Caracas di questi giorni)

La decisione di questi giorni  del governo venezuelano  di sospendere  momentaneamente  le trasmissioni via cavo all’emittente   Rctv International che trasmette da Miami  in Florida, in attesa che si metta in regola con la legge nazionale Ley Resorte, non poteva  non scatenare la solita bagarre mediatica disinformativa su ciò che  realmente accade nel paese e sulle politiche adottate dal presidente Hugo Chávez.

Già nel 2007 la decisione del governo, dettata da esigenze di redistribuzione equa dello spazio radioelettrico disponibile, di non rinnovare il contratto  all’emittente  (che infatti da allora trasmetteva via cavo),  aveva scatenato  violente proteste da parte dell’opposizione, appoggiate da tutto l’apparato mediatico internazionale, soprattutto statunitense ed europeo, che sostiene  e finanzia quegli stessi poteri  che già nell’aprile del  2002 avevano tentato di rovesciare Chávez con un colpo di Stato.  Proprio nel 2002 si resero evidenti tra l’altro, le complicità esistenti tra le oligarchie nazionali imprenditoriali e commerciali, i mezzi di comunicazione privati (tra cui Rctv) e la Cia  (e le sue “agenzie” Ned e Usaid) nella realizzazione del golpe.
 
Marcel Granier, presidente di Radio Caracas Televisión Internacional (Rctv International)  in varie occasioni si è  rifiutato  di trasmettere dalla sua televisione i messaggi presidenziali e non ha rispettato le regole di programmazione soprattutto relativamente  alla  tutela delle fasce protette. Credendo di godere piena libertà e autonomia per il fatto di trasmettere via cavo, Rctv deve adeguarsi adesso su indicazioni della Commissione Nazionale delle Telecomunicazioni (Conatel)   alla normativa vigente per le emittenti nazionali. Secondo Conatel  infatti,  l’emittente e con lei un’altra ventina di televisioni private sarebbero tenute  al rispetto della  normativa nazionale dellaLey Resorte per il fatto  di essere a tutti gli effetti emittenti nazionali, avendo, come nel caso di Rctv, addirittura una programmazione nazionale di molto superiore al 70% del totale.
 
Tra le libertà di cui credeva di godere Rctv,  c’era  evidentemente anche  quella di evocare dai suoi schermi  a una “soluzione militare” in Venezuela,  dichiarazione fatta durante un’intervista dal presidente della Federcámaras (la nostra Confindustria) il 14 gennaio scorso.
 
Il ministro del Potere Popolare per le Opere Pubbliche e presidente di Conatel,   Diosdado Cabello, che per le dichiarazioni del presidente della Federcámaras Noel Alvarez,  ha sporto regolare denuncia,  ha dichiarato che le televisioni potranno riprendere le loro regolari trasmissioni una volta messe in regola con la normativa vigente, che “comprende anche l’obbligo di trasmettere i discorsi e i comunicati ufficiali del presidente”.
 
In Venezuela, come accadde due anni fa, l’opposizione  ha colto in questi giorni l’occasione per mandare in strada decine di giovani delle università private in mobilitazioni di protesta dirette verso la sede della Conatel. Si sono registrati scontri tra opposizione e  militanti  chavisti, due dei quali, un ragazzo di 15 anni , appartenente al Psuv (Partito Socialista Unito del Venezuela) e uno studente universitario di 28 anni hanno perso la vita uccisi a colpi di arma da fuoco  e 9 agenti di polizia sono rimasti feriti.
 
Sull’onda delle dichiarazioni apparse sulla stampa venezuelana, per la maggior parte in mano a grossi gruppi imprenditoriali privati e ostili al governo,  anche in Italia e in Europa (El  País in testa), seguendo il copione di quanto avvenuto nel 2007 in occasione del  mancato rinnovo del contratto a Rctv,  si è parlato di “chiusura di televisioni”,  “censura” e o “il regime”.
 
Mentre Televideo (Rai) riporta  che “Rctv nel  2007 era stata esclusa dalle trasmissioni in chiaro per non aver trasmesso un discorso ufficiale del presidente Chávez”, La Stampa, unisce la disinformazione e l’ignoranza in materia alla malafede. Nella versione online del giornale torinese il titolo dell’articolo senza firma : “Venezuela, scontri per le tv oscurate muore uno studente di 15 anni” e il sottotitolo: “S'è dimesso il vicepresidente, era pure ministro della Difesa” fanno pensare che le due notizie siano in qualche modo collegate.
 
Innanzitutto va ribadito che il ragazzo morto  era un militante del partito governativo chavista Psuv, quindi non un dettaglio trascurabile  e che  è stato ucciso dai manifestanti dell’opposizione. Il titolo de La Stampa invece lascerebbe supporre che sia stato ucciso dalla polizia.   Inoltre  le dimissioni del vicepresidente e ministro della difesa Ramón Carrizales (e quelle di sua moglie che era ministro dell’Ambiente) non sono legate, come lo stesso Carrizales ha dichiarato,  a dissapori con la politica del presidente Chávez. Anche se fonti anonime assicurano che sono dovute alla decisione del presidente di includere tra gli alti vertici delle Forze Armate militari cubani, sicuramente però  nulla hanno a che vedere con la vicenda Rctv e ancora meno con la morte del giovane 15enne come farebbe credere invece l’articolo pubblicato su La Stampa.it.
 
Le altre agenzie di notizie non sono da meno: AGI: “Opposizione in strada, muore un 15enne”; TGCOM: “Venezuela oscurata TV anti – Chávez, Rctv  non ha trasmesso i suoi discorsi”; ANSA: “Venezuela sospesa  tv di opposizione”; Rai News 24: “Chávez mette il bavaglio alle TV”.
 
Rilevando che nessuno fa notare che   per le emittenti televisive esiste in qualsiasi paese al mondo l’obbligo di trasmettere i discorsi o le comunicazioni presidenziali, sappiamo  che a ben vedere in Italia siamo messi molto peggio: esiste infatti una sezione specifica della RAI che si chiama Struttura Rai Quirinale e che si occupa delle informazioni e delle trasmissioni che provengono direttamente dal palazzo del Quirinale e che riguardano il Presidente della Repubblica.
Tale struttura è posta sotto la supervisione del Direttore Generale della RAI.
 
In tale caos disinformativo che diventa quasi  consuetudine quando si tratta di vicende legate al presidente Hugo Chávez,  sorprende questa volta  il silenzio dei due principali quotidiani nazionali, la Repubblica e il Corriere della Sera.
 
La Repubblica, che si è sempre distinta in passato con i suoi articoli a firma Omero Ciai  fortemente critici contro il governo Chávez, soprattutto due anni fa in occasione del mancato rinnovo del contratto a Rctv, adesso stranamente tace.
Nessun articolo  su Chávez “dittatore” o  “populista”, nessun articolo sulla mancanza di libertà in Venezuela, nessun articolo che parli di “censura” o “televisioni oscurate”.
Nemmeno nessun articolo sia sul cartaceo che sulla versione online del  Corriere della Sera.
Il motivo è presto chiarito. Già da oggi infatti  le agenzie battono la notizia  di un mega investimento di Eni in Venezuela. Un accordo “storico” lo ha definito addirittura  Paolo Scaroni, amministratore delegato della ditta italiana.
 
L’Eni investirà in Venezuela almeno 7 miliardi di dollari in progetti che vanno dalle estrazioni nei giacimenti di greggio pesante nella fascia dell’Orinoco, alla costruzione di centrali elettriche, alla costituzione di imprese miste con Pdvsa (la compagnia petrolifera statale venezuelana).
 
Chi ha ancora il coraggio di parlare di libertà di stampa nel nostro paese? Chi crede ancora alle falsità opportunistiche  raccontate da giornalisti come Omero Ciai al soldo di un giornale a sua volta servo del potere? E vogliamo ancora credere che a muovere l’informazione  sia il potere politico? Non è piuttosto ancora una volta  il potere economico, quello delle multinazionali o delle  grandi lobby  a dettare le regole e a pagare gli stipendi ai giornalisti?
 

30 novembre 2009

Uruguay, America latina: Pepe Mujica presidente, “il mondo alla rovescia”



Pepe Mujica, l’ex guerrigliero Tupamaro, per 13 anni prigioniero della dittatura fondomonetarista, per nove anni rinchiuso in un pozzo e torturato continuamente, è il nuovo presidente della Repubblica in Uruguay. Ha ottenuto il 51,9% dei voti, superando il 50.4% con il quale Tabaré Vázquez era stato eletto cinque anni fa. Il suo rivale, Luís Alberto “Cuqui” Lacalle, del Partito Nazionale, si è fermato al 42.9% dei voti.

E’ uno scarto di nove punti, superiore a tutte le aspettative e, con un’affluenza alle urne superiore al 90% in uno dei paesi dal più alto senso civico al mondo, conferma che quella del presunto rifiuto per la figura popolana e popolare e dal passato guerrigliero di Mujica era una menzogna cucinata e venduta a basso costo dal complesso disinformativo-industriale di massa.

Il trionfo di Mujica (nella foto incredibilmente in giacca, ma senza cravatta) è espressione di quello che negli anni del Concilio Vaticano II si sarebbe definito “segno dei tempi”. Come ha detto lo stesso dirigente politico tupamaro, emozionatissimo nel suo primo discorso sotto la pioggia battente a decine di migliaia di orientali che hanno festeggiato con i colori del Frente Amplio, quello che lo porta alla presidenza è proprio “un mondo alla rovescia”.

Un mondo nuovo i contorni del quale non sono ancora del tutto visibili nella prudenza dei grandi dirigenti politici che rappresentano il fiorire dei movimenti sociali, indigeni, popolari del Continente ma che si tratteggia in due grandi temi di fondo: uguaglianza tra i cittadini e unità latinoamericana.

Mujica è stato chiarissimo: il primo valore della sua presidenza sarà il mettere l’uguaglianza tra i cittadini al primo posto e il primo ringraziamento è andato oltre che al popolo orientale "ai fratelli latinoamericani, ai dirigenti politici che li stanno rappresentando e che rappresentano le speranze finora frustrate di un continente che tenta di unirsi con tutte le sue forze”.

Proprio il trionfo di Mujica, la quarta figura che viene dal basso, plebea se preferite, e non espressione delle classi dirigenti, illuminate o meno, a divenire presidente in appena un decennio, testimonia che l’America latina sta riscrivendo la grammatica politica della rappresentanza democratica in questo inizio di XXI secolo in una misura perfino insospettabile e incomprensibile in Europa.

Mujica, nonostante la militanza politica di più di mezzo secolo, è un venditore di fiori recisi nei mercati rionali. E’ uno che quando è diventato deputato per la prima volta e fino a che non ha avuto responsabilità di governo ha accettato dallo Stato solo il salario minimo di un operaio e, siccome questo non è sufficiente per vivere, ha continuato a vendere fiori nei mercati rionali. Per campare. Indecoroso per un parlamentare, ma solo così, solo dal basso, oggi Mujica può permettersi a testa alta di rappresentare il popolo e proporre a questo “un governo onesto”.

Non è un medico, come Tabaré Vázquez o Salvador Allende o Ernesto Guevara, né ha un dottorato in Belgio come l’ecuadoriano Rafael Correa. Non ha studiato dai gesuiti come Fidel Castro né proviene dalla classe dirigente illuminata come Michelle Bachelet in Cile o i coniugi Kirchner in Argentina. Non è, soprattutto, un pollo di batteria, allevato per star bene in società come tanti burocratini dei partiti politici della sinistra europea, che infatti passa di sconfitta in sconfitta e di frammentazione in frammentazione mentre invece in America l’unità delle sinistre è un fatto.

Pepe il venditore di fiori recisi nei mercatini rionali è un uomo del popolo come l’operaio Lula in Brasile, come il militare di umili origini Hugo Chávez in Venezuela e come il sindacalista indigeno Evo Morales in Bolivia. Non a caso sono tre uomini politici che hanno mantenuto un rapporto privilegiato con la loro classe di provenienza, che non hanno tradito e che sono ricompensati con alcuni tra i più alti indici di popolarità al mondo, nonostante siano costantemente vittime di campagne ben orchestrate di diffamazione da parte dei complessi mediatici nazionali e internazionali.

Non è un caso che da questi dirigenti politici venga posto sul piatto dell’agenda politica lo scandaloso problema dell’uguaglianza che trent’anni di retorica neoliberale avevano umiliato, vilipeso e cancellato e che invece è più che mai l’unico motore dell’unico futuro possibile non solo in America latina.

L’America latina integrazionista, dove diventa presidente un ex-guerrigliero venditore di fiori recisi nei mercatini dei quartieri popolari di Montevideo, è davvero “il mondo alla rovescia”, ma è anche la speranza di un “mondo nuovo”, di un nuovo inizio e un futuro migliore in pace e in democrazia. Questa speranza non poteva che venire dal Sud del mondo, da quella “Patria grande latinoamericana” che sta riscrivendo la Storia.


16 maggio 2009

La sinistra dilaga anche in India: la serie positiva continua.


Dopo la vittoria in Usa e Sud Africa (ma anche ad esempio, in Islanda), anche l'India vede un'affermazione netta della sinistra socialista (e una buona affermazione della sinistra comunista con cui formava la scorsa maggioranza di governo.)
L'onda lunga favorelvole è sempre più impietosa e chissà che non riesca a colpire l'Europa già nelle prossime elezioni europee...