Naturalmente come si dice in questi casi, bisogna attendere le motivazioni della sentenza. Ma già dal dispositivo della II sezione della Corte d’appello di Milano nel processo Sme-Ariosto qualcosa si può arguire. Dunque Silvio Berlusconi «non ha commesso il fatto». O, meglio, non ci sono prove sufficienti che lo abbia commesso.Questo vuol dire infatti il comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale. Il fatto però c’è, tant’è che gli altri imputati - gli avvocati Previti e Pacifico, e il giudice Squillante - furono condannati in primo e secondo grado per corruzione (semplice per i due legali, giudiziaria per l’ex magistrato), salvo poi salvarsi in corner grazie alla sentenza della Cassazione che l’anno scorso, smentendo se stessa, decise di spedire il processo a Perugia perché ricominciasse da capo. Anzi, non ricominciasse affatto perché, mentre le carte viaggiavano dal Palazzaccio verso Perugia, è scattata la prescrizione. Qual è dunque il fatto? Il bonifico bancario di 434.404 dollari (500 milioni di lire tondi tondi) che il 5 marzo 1991 partì dal conto svizzero Ferrido della All Iberian (cassaforte estera di casa Fininvest, alimentata dalla Silvio Berlusconi Finanziaria) e in pochi minuti transitò sul conto svizzero Mercier di Previti e di lì al conto svizzero Rowena di Squillante. Un bonifico molto imbarazzante per Berlusconi, che di Squillante era amico (si telefonavano per gli auguri di Capodanno, Squillante lo inquisì e lo interrogò e poi lo prosciolse nel 1985 in un processo per antenne abusive, poi il Cavaliere tentò di nominarlo ministro della Giustizia e gli offrì pure un collegio sicuro al Senato). Tant’è che l’allora premier tentò di sbarazzarsi delle prove giunte per rogatoria dalla Svizzera (legge sulle rogatorie, 2001), poi del giudice Brambilla che lo stava giudicando in primo grado (trasferito nel gennaio 2002 dall’apposito ministro Castelli), poi direttamente del processo (lodo Maccanico-Schifani del 2003 sull’impunità per le alte cariche dello Stato). Fu tutto vano. Ottenuto lo stralcio che separava il suo processo da quello a carico dei coimputati, Berlusconi fu poi processato da un altro collegio e ritenuto colpevole per quel fatto. Ma si salvò per la prescrizione, grazie alla generosa concessione (per la settima volta) delle attenuanti generiche. Contro quel grazioso omaggio, la Procura ricorse in appello affinché, spogliato delle attenuanti, il Cavaliere fosse condannato. A quel punto l’imputato, tramite il suo onorevole avvocato Pecorella, varò una legge che aboliva i processi d’appello dopo i proscioglimenti di primo grado: per esempio, il suo. La legge fu bocciata da Ciampi in quanto incostituzionale. Lui allora prorogò la legislatura per farla riapprovare tale e quale. Poi la Consulta la cancellò in quanto incostituzionale, e l’appello ripartì. Ieri s’è concluso con questa bella sentenza. Insomma la condotta berlusconiana non somigliava proprio a quella di un imputato innocente. «Mai visto un innocente darsi tanto da fare per farla franca», commentò efficacemente Daniele Luttazzi. Tant’è che ieri, alla notizia dell’assoluzione (per quanto dubitativa e ancora soggetta a un possibile annullamento in Cassazione), il più sorpreso era proprio lui, il Cavaliere. Era innocente o quasi, ma non lo sapeva. O forse non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi.In attesa delle motivazioni, che si annunciano avvincenti, la questione è molto semplice. Cesare Previti è stato definitivamente condannato a 6 anni per aver corrotto un giudice, Vittorio Metta, in cambio della sentenza Imi-Sir del 1990 (tra l’altro, la sentenza che lo dichiara pure interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, è del 4 maggio 2006, ma a un anno di distanza l’onorevole pregiudicato interdetto è ancora deputato a spese nostre). Due mesi fa la Corte d’appello di Milano l’ha condannato a un altro anno e 8 mesi per aver corrotto lo stesso giudice Metta in cambio della sentenza che, due mesi dopo di quella Imi-Sir, toglieva la Mondadori a De Benedetti per regalarla a Berlusconi (che, processato come mandante di quella mazzetta, è uscito da quel processo grazie alle attenuanti generiche e alla conseguente prescrizione). Restava da definire il ruolo di Berlusconi in quel versamento estero su estero a Squillante, risalente a un mese dopo la sentenza Mondadori: marzo 1991. Tre tangenti giudiziarie in 5 mesi, tra la fine del 1990 e l’inizio del ’91. Se Previti, com’è irrevocabilmente accertato, pagò Metta per conto della famiglia Rovelli per vincere la causa (altrimenti persa) dell’Imi-Sir; se Previti pagò Metta per conto di Berlusconi per vincere la causa (altrimenti persa) del lodo Mondadori; ecco, se è vero tutto questo, per conto di chi Previti pagava Squillante? E perché Squillante, nel 1988, al termine della causa Sme vinta da Berlusconi e Barilla e persa da De Benedetti, ricevette 100 milioni estero su estero tramite Previti e Pacifico da Barilla, cioè dal socio di Berlusconi che non conosceva né Pacifico, né Previti, né Squillante? Questi erano i termini della questione che ieri i giudici dovevano risolvere. Hanno stabilito che, per i 100 milioni di Barilla a Squillante, «il fatto non sussiste»: sarà stato un omaggio a un giudice che stava particolarmente simpatico al re della pasta (che però non lo conosceva). Quanto ai 500 milioni della Fininvest a Squillante, Previti avrà fatto tutto da solo. Pur non essendo coinvolto personalmente in alcun processo (all’epoca, almeno), pagava il capo dell’ufficio Istruzione di Roma con soldi di Berlusconi, ma all’insaputa di Berlusconi, che non gli ha mai chiesto conto dei suoi quattrini (ma adesso lo farà, oh se lo farà: andrà da Previti, presso la comunità di recupero per tossicodipendenti dove sta scontando la pena, lo prenderà per il bavero e lo strapazzerà a dovere, per avergli causato tanti guai con la giustizia). O almeno non c’è la prova, nemmeno logica, che Berlusconi lo sapesse. Squillante, quando gli telefonava per gli auguri di Capodanno o negoziava il suo seggio al Senato, non gli parlò mai di quei generosi bonifici in Svizzera. Che so, per ringraziarlo. Invece niente, nemmeno una parola gentile. Che ingrato.
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