RUBRICA ALTREAMERICHE. Nonostante il flop del kolossal sulla sua vita, Lula termina gli otto anni dei suoi due mandati con un indice di popolarità record e con eccezionali dati economici. E' cresciuto il ceto medio brasiliano. Va a Porto Alegre e a Davos, media tra Usa e Venezuela, ma rischia di strafare.
Você sabe quem è esse homem, mas não conhece asua história. “Voi sapete chi è quest’uomo, ma non conoscete la sua storia”. Il trailer comincia dunque con una casa bassa sull’orizzonte allucinato del sertão, mentre echeggia il vagito di un neonato. Si vede poi la testa dell’infante su cui cade un fiotto d’acqua, non è chiaro se per lavarlo o è il battesimo, ma la madre gli dice dunque: “ti chiamerai Luiz Inácio”. E poi vediamo il bimbetto saltellare tra i cactus. La madre con lui al collo e un fazzoletto in testa che viaggia su un camion. Un uomo barcollante che la picchia gridando, col ragazzino che si mette in mezzo. Luiz Inácio che si guadagna i primi soldini vendendo frutta in mezzo alla strada e lustrando scarpe. Una lancia su un fiume. La donna che piange mentre consegnano un diploma. Il giovanotto in tuta da operaio, al tornio. Il giovanotto che corteggia una ragazza. Un matrimonio in cravatta, sotto al riso che cade. Il giovanotto di nuovo in tuta da operaio che perde un dito sotto a una pressa. Un ospedale, con una voce che parla di un “figlio nato morto” e di una donna pure morta di parto. E poi tutta a una serie di assemblee sindacali. Un bacio a un’altra ragazza, stavolta bionda. Comizi e manifestazioni, inframezzati da un poliziotto che minaccia e da spari di lacrimogeni. Il giovanotto cui viene fatta la foto segnaletica degli arrestati. E poi i nomi degli interpreti, seguiti da un’assemblea che acclama il leader che si passa le mani sugli occhi, e si torna al ragazzino che viaggia sul camion.
È Lula, o filho do Brasil: biografia dei primi 35 anni di vita del presidente operaio, sugli schermi brasiliani dal primo gennaio di quello che sarà l’ultimo dei suoi otto anni di presidenza. La Costituzione non consente infatti più di due mandati consecutivi, e lui ha rifiutato l’iniziativa che pure era partita per modificarla, in modo da consentirgli una nuova ricandidatura. Lula, o filho do Brasil è un film che parla di poveri e di povertà, ma è la pellicola brasiliana più costosa di tutti i tempi: 17 milioni di reais, quasi 7 milioni di euro. Soldi pubblici nell’anno in cui si voterà per il presidente che di Lula dovrà prendere il posto, e con la candidata del suo partito Dilma Roussef che gli sedeva al fianco alla prima, da cui immaginabili e dure accuse di opposizioni e giornali. “Statua equestre”. “Film governativo”. “Spot a spese del contribuente”… Ma quando allo stesso Lula hanno chiesto che ne pensasse il presidente, pur commosso, non è riuscito a celare una certa perplessità.
In particolare sulla scena madre, quando suo padre ubriaco aggredisce la madre, e il piccolo si erge a difenderla: “non mi ricordo che il mio papà fosse così violento!”. Anche i suoi vecchi compagni di lotta interpellati hanno manifestato un riserbo simile. “Io sono stato in galera con Lula per 31 giorni”, ha ricordato il suo vecchio amico Djalma Bom. “Non è vero che dormivamo per terra, avevamo brande”. Completamente cancellata è la storia di Miriam Cordeiro, con cui Lula ebbe una figlia. Ma poi abbandonò entrambe, e lei andò in tv durante la campagna elettorale del 1989, accusandolo di averle imposto di abortire. Insomma: un santino che ufficialmente il presidente non aveva neanche sollecitato, anche se vari elementi del suo entourage avrebbero lavorato sotto banco. Un critico ha sostenuto che lo schema è chiaramente ispirato al Che Guevara di Steven Soderbergh.
Fábio Barreto, il regista, è però tutt’altro che un militante. Figlio di un notissimo produttore, fratello dell’altro regista di Dona Flor e i suoi due mariti, in passato ha diretto opere non esattamente ideologiche: da un clone brasiliano di Desperate Housewives a un film intitolato Lambada. Ha comunque avuto anche una nomination all’Oscar per il miglior film straniero, per un film del 1995 sull’emigrazione italiana di inizio ‘900. Nelle interviste ha spiegato che Lula non gli interessa tanto dal punto di vista ideologico quanto esistenziale. Essendo il primo presidente brasiliano venuto dalla povertà, è anche il primo che non ha complessi di colpa verso i poveri. E dunque, paradossalmente, anche il primo che non ha bisogno di fare il populista. Il film, in realtà, poi è andato male, malgrado le grandi aspettative che aveva creato: addirittura, si era pensato di dover mettere schermi all’aperto. Invece, la prima settimana di programmazione non è andato oltre il primo posto, e poi è scivolato verso il basso. Chi ha provato a indagare sui perché del flop ha concluso che il film è emozionante, gli attori sono bravi, ma non è quello il tipo di Lula che alla gente piace, e che termina gli otto anni dei suoi due mandati con un indice di popolarità record, di oltre l’80%. Ciò, malgrado la catena di scandali che ha falcidiato la dirigenza del suo partito, provocando anche ben due scissioni.
Il Lula che piace, ad esempio, è quello che prova a tenere assieme Porto Alegre e Davos. Andando prima a Porto Alegre, dove tornava per la sua decima edizione quel Forum Sociale Mondiale che proprio nella città brasiliana era stato inventato come alternativa da sinistra al “pensiero unico di Davos”, e che era poi migrato in altre sedi.
Una decima edizione in realtà in tono minore, a vedere il modo in cui l’attenzione dei mass-media è ormai precipitata al minimo, e anche la frequenza è ormai in tono minore: il che tra l’altro è quasi un paradosso, a vedere il modo in cui certe critiche del Forum Sociale Mondiale alla globalizzazione dopo la crisi sono ormai diventate quasi la nuova ortodossia di parecchi governanti, da Obama a Tremonti. Ma Lula doveva al Forum Sociale molto, se si pensa al modo in cui l’iniziativa aveva fatto da “vetrina” al suo Partito dei Lavoratori (Pt), e al suo nuovo modo di governare tra comune di Porto Alegre e Stato di Rio Grande do Sul. E anche se nel frattempo il Pt aveva perso entrambe le amministrazioni, andate rispettivamente al centro e al centro-destra, la presenza del “presidente operaio” ha galvanizzato i 15.000 presenti alla cerimonia.
“Lula è un militante del Forum Sociale”, ha proclamato il sindaco José Fogaça: che è del centrista Partito del Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb); che alle ultime elezioni ha sconfitto al ballottaggio proprio una candidata del partito di Lula; ma che è comunque alla guida di una città che questo evento ha reso famosa in tutto il mondo, e a cui tiene evidentemente in modo particolare, se si pensa che nella sua attività pre-politica di compositore musicale ne ha scritto l’inno. “Lula, guerreiro, do povo brasileiro!”, cantava la gente a tempo di samba. “Olé, Olé, Lula, Lula!". È vero che era meno gente degli 80.000 dell’edizione del 2003, quando vi era intervenuto per la prima volta da presidente. “Non rinnegherò mai una virgola delle idee che mi hanno portato alla Presidenza”, aveva allora proclamato. Ma poi, a sorpresa, era partito per Davos. Anche stavolta aveva appunto deciso di fare lo stesso. “Sto qui e poi vado a Davos, così come ho fatto nel 2003”, ha annunciato.
Qualcuno lo ha applaudito, qualcuno è rimasto perplesso. “Sono convinto che Davos non ha più il glamour di un tempo”, ha aggiunto quasi a mo’ di giustificazione. Malgrado la sua abituale vanteria “mai come con me le banche brasiliane si sono arricchite”, in agenda aveva un discorso sull’”urgenza di riformare il sistema finanziario internazionale”, oltre alla richiesta di concludere il Doha Round del Wto e di riformare l’Onu: due battaglie in cui il leader della sinistra coincideva esattamente con il presidente di un Paese con il doppio interesse geopolitico di trovare sbocchi al suo sempre più prorompente export, e di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
E a Davos avrebbero dovuto consegnargli un nuovo “Premio allo Statista Globale” inventato apposta per lui dopo 40 anni di storia del Forum Economico: “riconoscimento al presidente Lula da Silva per il modo in cui ha portato il Brasile a compiere le sue mete di sviluppo e progresso sociale in maniera integrata e equilibrata”.
In realtà, poi a Davos non è riuscito ad andarci: colpa di una crisi di ipertensione cui non deve essere estranea la sua notoria propensione per i superalcolici e per la carne alla brace, e che l’ha obbligato a un improvviso ricovero subito dopo il discorso di Porto Alegre. Il fatto che il Premio abbiano dovuto darglielo attraverso un rappresentante, però, non vuol dire che non se lo sia meritato. Con lui il Pil brasiliano è cresciuto del 33%. Con lui l’inflazione è calata dal 16 al 5,3%. Con lui il debito pubblico è sceso dal 52,3 al 43%. Con lui il Brasile ha scoperto i giacimenti petroliferi che promettono a breve di farne un Paese esportatore di greggio. Ma spesso i meri dati macroeconomici ingannano, in un’area che come l’America Latina è famosa per economie che vanno bene dove però la gente sta male. O viceversa: dall’Argentina di Perón al Venezuela di Chávez, quelle altre situazioni in cui importanti politiche di redistribuzione vengono fatte al costo di sfasciare l’apparato produttivo in maniera quasi irreparabile.
L’eccezionalità del dato che Lula lascia in eredità è invece quella di economia e cittadini che hanno migliorato assieme. La povertà con Lula è caduta dal 26 al 23%. L’indigenza dal 15 all’8%. La partecipazione al reddito del 50% più povero è passata dal 13 al 15%. Quella del 10% più ricco è scesa dal 47 al 43%. La disoccupazione è scesa dal 13 all’8,9%. I salari reali sono aumentati del 15%. Insomma, Lula è riuscito infine a creare quel ceto medio che, come fu individuato fin dal tempo di Aristotele, è la vera base per ogni democrazia. Secondo un recente studio della Fondazione Getulio Vargas, ormai il ceto medio brasiliano sarebbe arrivato alla metà della popolazione, accogliendo nei suoi ranghi oltre 27 milioni di nuovi membri negli ultimi sei anni. Si tratta di 91 milioni di persone, esattamente il 49,22% dei brasiliani, che con redditi compresi tra i 115 e i 4807 reais, tra i 586 e i 2530 dollari, detengono il 46% del reddito nazionale. Nel 2003 non si trattava che di 64,1 milioni di persone, che rappresentavano solo il 37,56% della popolazione e concentravano il 37% del reddito.
Certo, resta un 40% di persone con entrate inferiori ai 1115 reais: 70 milioni di persone. L’indice di diseguaglianza continua a essere dei peggiori del mondo, e anche gli indici di delinquenza sono elevatissimi, Per non parlare di quelli di corruzione. Insomma: molto lavoro è stato fatto, ma molto è ancora da fare.
La convinzione di Lula è però che è ormai terminata l’epoca in cui si faceva l’amara battuta: “il Brasile è il Paese del futuro e lo sarà sempre”. “Il Brasile deve perdere la mania di piccolezza per entrare nella mania di grandezza senza arroganza”, è il nuovo slogan che, passata la crisi di ipertensione, è andato a lanciare durante l’inaugurazione di una fabbrica di semiconduttori per tv e microchip: assolutamente pionieristica per la regione. “Il Brasile non deve niente a nessuno”.
Il miglioramento macroeconomico e microeconomico è stato in effetti accompagnato sul fronte geopolitico da una grandeur che ha visto il Brasile fare da arbitro tra gli Usa di George W. Bush e di Barak Obama e il Venezuela di Hugo Chávez. Ottenere Olimpiadi e Mondiali di Calcio. Dare vita a una quantità di importanti intese di Paesi emergenti: dal Bric con Russia, India e Cina; al Basic con Sudafrica, India e Cina; all’Ibsa con India e Sudafrica. Certo, il rischio di strafare è sempre presente. La guida della missione Onu ad Haiti ha portato a un’imbarazzante figura di inefficienza in occasione del terremoto. Il tentativo di fare addirittura da mediatore anche tra Israele e Iran sfocia ora nella rinuncia di Lula a viaggiare in Iran, nel momento in cui l’opposizione scende in piazza e la preoccupazione della comunità internazionale per il programma nucleare di Teheran cresce. Ma si tratta di scivoloni probabilmente inevitabili, nel contesto di una crisi di crescita.
Resta per Lula il problema di non riuscire a comunicare la sua popolarità al Pt, che durante i suoi due mandati ha perso amministrazioni locali in quantità. E meno che mai la popolarità si è finora comunicata alla povera Dilma Roussef: che a lungo nei sondaggi ha arrancato di una ventina di punti sotto il candidato del centro-destra José Serra. C’è da vedere se il recente grave scandalo che ha portato in galera il governatore di Brasilia José Arruda, di Serra alleato, non possa portare a un’inversione di tendenza.
Maurizio Stefanini, giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il Foglio, Libero, Liberal, L’Occidentale, Limes, Agi Energia, Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze.Specialista in politica comparata, processi di transizione alla democrazia, problemi del Terzo Mondo, in particolare dell’America Latina, e rievocazioni storiche.
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