25 maggio 2010

L'eterno ritorno di Prodi, l'inaffondabile. E alla fine ne rimarrà solo uno?

dal sito del Messaggero di Roma.


ROMA (24 maggio) - Anche Dante Alighieri, facilitato dal fatto che ai suoi tempi non esistevano i sondaggi, amava la politica dallo sguardo lungo: «Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con veduta corta di una spanna?». E questo era il Paradiso (canto XIX).
Nell’inferno, o purgatorio, italiano, la politica di breve momento, la politica dallo sguardo breve, la politica limitata a pedestre inseguimento del consenso era prassi comune. Non si tratta di vedere se la pop-politica, intesa come banderuola che cambia direzione a seconda degli umori popolari, sia più di destra o più di sinistra. E comunque, ieri, Romano Prodi, nel suo editoriale sul Messaggero, a proposito della manovra economica e anche più in generale, non ha rilasciato pagelle ma condotto un discorso di fondo: chiedendo ai governanti «il coraggio di essere impopolari». Perché i peggiori ministri, e i peggiori statisti, sono sempre stati quelli che hanno cercato la popolarità ad ogni costo». Evitando di prendere decisioni forti, per paura di perdere consensi. Sfuggendo il coraggio di dire la verità, per esempio sullo stato dell’economia o delle finanze, per il timore di un calo nel gradimento personale. Aggirando i veri problemi, che richiederebbero soluzioni profonde e di prospettiva, per il terrore di vedersi criticati sui media.
Il filosofo Biagio De Giovanni è abbastanza d’accordo con Prodi. Osserva: «La politica, senza mediazione dei partiti, finisce naturalmente per assumere un ruolo non più di avanguardia, ma di retroguardia al seguito dei sondaggi. Se mi dicono che una tale scelta conviene, la prendo. Sennò, la annacquo, o la rinvio, o la abolisco». Ormai, incalza De Giovanni, che la politica la conosce da filosofo ma anche da ex esponente di partito e da parlamentare sempre su posizioni riformiste anche quando a sinistra erano tabù, «tutto si va riducendo a un gioco a un gioco a rimpiattino fra capo carismatico e popolo. Senza quelle mediazioni che permettono lo sguardo lungo e le decisioni coraggiose. Una cosa aggiungerei al discorso di Prodi. Chi ancora, praticamente in solitudine, fa avanguardia politica, ovvero non procede a rimorchio, è la Lega».
Detto da un meridionale e meridionalista.... «Il fatto - osserva ancora De Giovanni - è che la Lega inventa dei temi e li fa diventare senso comune. Non ha fatto così, per esempio, con il federalismo? Il Carroccio ha un capo carismatico, perchè Bossi lo è, ma quel carisma è cresciuto sulla base di contenuti, lanciando idee. Una figura simile e un partito così non esistono nè a destra nè a sinistra. Berlusconi è uno che lancia sogni, che poi non realizza. Quelli del Pd sono privi di capacità propositiva, cioè di idee».
Tommaso Padoa Schioppa, che è stato il predecessore di Tremonti, subito dopo la fine della sua esperienza governativa con Prodi andando a cercare le ragioni del grande crollo della finanza ne è venuto fuori con un libro molto intelligente: intitolato, per l’appunto, «La veduta corta». Spiega: «L’emergenza impone decisioni rapide, ma la vera sfida per chi governa sta nell’andare oltre la quotidianità. E’ il progressivo venir meno dello sguardo lungo che mi pare costituisca la radice comune agli errori del mercato, alle deficienze della politica, alle omissioni degli studiosi, dei cronisti e dei commentatori».
E i sondaggi sono una maledizione? Dice il sondaggista Nando Pagnoncelli: «Io sono d’accordissimo con Prodi. La politica che rincorre, invece di anticipare i temi e di avere la forza di concertazione che è l’unica a consentirti scelte impopolari, è figlia anche dell’uso sconsiderato dei sondaggi. Le riforme richiedono la messa in discussione di diritti acquisiti e di interessi costituiti. E questa sfida si può affrontare solo in maniera condivisa e tramite convergenze nobili e alte. Sennò, vincerà sempre l’Italia della conservazione».
Sanità e pensioni: ecco due terreni, per ora intoccabili, di sfida. «Quando la politica se ne occuperà senza tremare o rinviare», dice il politologo e fondatore di Forza Italia, Giuliano Urbani, «significherà che avrà recuperato la sua funzione dirigente». Ed ecco lo storico Franco Cardini: «Quello di Prodi è un paradosso intelligente. Il politico che ha il coraggio di essere impopolare fa bene il suo mestiere dal punto di vista civico. Ma è un autolesionista dal punto di vista politico». Evviva l’autolesionismo a fin di bene? 





dal sito del Corriere della Sera.



IL RILANCIO DI NOMISMA, AFFIDATA A MODIANO

Summit mondiali e proposte
La «tela» di Romano Prodi

E il fedelissimo Rovati: se passa il presidenzialismo il Pd metta in campo lui.

La soluzione di forte profilo per rilanciare Nomisma, affidata a un uomo in grado di far interagire politica ed economia come Pietro Modiano, è solo l’ultimo segnale. La settimana scorsa Romano Prodi aveva portato a Bologna re, capi di Stato e di governo di 53 Paesi africani, più i rappresentanti di Cina, Usa e Ue: era il primo vertice (i prossimi si faranno a Washington e ad Addis Abeba) della nuova Fondazione dei popoli, erede di «Governare per», il pensatoio web creato dal Professore per la campagna elettorale 2006. Che all’epoca fu considerata un mezzo disastro, ma dopo le nette sconfitte successive riluce quasi come un’età dell’oro.
Nessuno dei segni di questi ultimi mesi —il pressing collettivo per il Comune di Bologna, l’editoriale sul Messaggero per proporre la riforma federale del Pd, la lettera al Corriere sulla questione euro — va interpretato come l’avvisaglia del fatidico «ritorno», che sarebbe smentito in primo luogo dall’interessato. Ma è un fatto che il lavoro di Prodi alla costruzione di un profilo internazionale passa anche attraverso il lavoro culturale in Italia. Ed è un fatto che qui l’alter ego del Professore, Silvio Berlusconi, è saldamente al comando: alla testa del governo non c’è un Cameron, un leader di nuova generazione, ma c’è l’avversario naturale che Prodi è stato l’unico a battere (e per tre volte, comprese le Regionali 2005); mentre il Partito democratico e più in generale il centrosinistra non hanno trovato un Miliband, un erede, e neppure risolto la questione della leadership.
«Silvio e Romano sono speculari l’uno all’altro — ragiona Angelo Rovati, che è buon amico di entrambi, e da sempre trait d’union tra Prodi e gli ambienti finanziari milanesi —. Sono gli unici due innovatori degli ultimi quindici anni, i soli a essersi inventati due grandi partiti dal nulla. La differenza è che nel suo campo Silvio lo vogliono tutti, mentre Romano non lo vuole nessuno. Non è compatibile con il loro Dna. Forse il vero errore è stato non fare una lista con il suo nome. Ora qui tornano tutti — prima D’Alema, adesso pure Veltroni — tranne lui. Ci tocca ascoltare lezioni da personaggi che hanno distrutto il partito. Nei giorni drammatici delle dimissioni di Delbono, quando tutta Bologna compresi Roversi Monaco e Guazzaloca guardava a Romano come a una speranza, Bersani non ha certo dato l’impressione di spingerlo in campo, anzi, non so neppure se gliel’abbia chiesto davvero. Quando poi Prodi ha avanzato la sua proposta per un partito federale, con venti segretari regionali che scelgono il leader, si è sentito dare del folle. Per scherzo gli ho detto: "Romano, qui non ti lasciano fare neppure più il consigliere circoscrizionale...". Lui mi ha risposto: "Angelo, credo che tu abbia ragione"».
Eppure Rovati non è persuaso dallo scenario di un Prodi fuori dai giochi. «Facciamo un’ipotesi: passa la riforma presidenzialista; si vota direttamente il capo dello Stato. Quali altri nomi potrebbe mettere in campo il centrosinistra contro Berlusconi, se non quello di Romano Prodi? E, con la crisi finanziaria drammatica che infuria in Europa, ci si può permettere di lasciare una tale risorsa priva di una dimensione operativa? Hanno creduto di essersene liberati. Ora si rendono conto che uno come Prodi non si trova dietro ogni angolo». Di sicuro, il Professore non pensa più a guidare una coalizione in una campagna elettorale. All’ultima assemblea del Pd non si è fatto vedere. La stessa nomina di Modiano a Nomisma, da Prodi ovviamente approvata, è stata gestita di persona dai due ultimi presidenti, Paolo De Castro e Gualtiero Tamburini. La famiglia, a cominciare dalla moglie Flavia, molto influente sulla vita del marito, lo protegge da un’esposizione eccessiva. Ma a Bologna non è un mistero che Giulio Tremonti, da sempre estimatore di Prodi, gli abbia parlato in via riservata più volte, di finanza pubblica e crisi internazionale. Che il nome del Professore circoli per il Fondo monetario o per la segreteria dell’Onu certo non gli fa dispiacere, anche se per queste cose occorrerebbe il sostegno dell’esecutivo del proprio paese. Viceversa, non ha fatto certo piacere a Prodi il modo risentito con cui è stata accolta la sua proposta di riforma del Pd.
Ragiona Filippo Andreatta, il quarantenne più vicino al Professore: «La crisi è sociale, non politica. Quindi non c’è bisogno di fare politica attiva per esserci. E Prodi c’è. È ancora in grado di dare un grande contributo al Paese. Il suo bagaglio di contatti e di esperienza è una ricchezza per l’Italia e per il centrosinistra; anche perché la sua credibilità è rimasta intatta pure nella sconfitta. Prodi è tornato a casa sul serio, non è rimasto attaccato alla poltrona, e questo gli dà un’autorevolezza di segno diverso rispetto ai tanti che hanno perso ma sono rimasti lì. Personaggi, da D’Alema a Veltroni, che hanno sempre guardato Prodi dall’alto in basso, in virtù di una presunta superiorità tecnica. Ma è proprio la politica professionale, in cui cambiano i partiti ma non i leader dei partiti, ad allontanare l’elettorato. Prodi in questo è come Berlusconi: se la gioca tutta, se perde va a casa; e queste cose i cittadini le sentono. Romano è stato coerente, ha dimostrato di non essere un uomo per tutte le stagioni. Ora si prepara una stagione difficile». Qualcuno comincia a pensare che potrebbe essere, in forme diverse dal passato, una stagione da Prodi.
dal sito Libertiamo.


L’apparizione di Romano Prodi in una puntata di Otto e Mezzo dedicata alla crisi è stata particolarmente interessante perché l’ex presidente del consiglio ha avuto modo di ribadire alcuni punti fermi della propria visione. Al di là delle ricette programmatiche che ha espresso su varie questioni, quello che in generale colpisce nelle sue parole è l’impostazione filosofica e culturale che c’è dietro.

E’ stato particolarmente significativo il passaggio cui Prodi ha fatto un ritratto della cultura a suo parere “dominante” in Italia nella quale  “vengono mandati messaggi secondo cui il nemico è il fisco, il nemico è lo Stato, il nemico è qualsiasi struttura pubblica”.
Per il Professore è incivile un paese dove il cittadino è educato “fin da bambino (sic) al fatto che lo Stato è colui che lo strangola”.
Infine, secondo Prodi, è “volgare” l’espressione secondo cui i politici “
mettono le mani nelle tasche dei cittadini”, perché “ogni cittadino deve sentire il dovere di contribuire al paese in cui vive” e “nessun paese può reggersi se prevalgono certi valori morale ostili allo Stato”.
La presa di posizione di Romano Prodi ha in sé un certo carattere culturalmente autoritario, nel momento in cui nega legittimità a qualsiasi forma di dissenso nei confronti del concetto di supremazia statale.
Nella sua visione mettere in discussione la sacralità del Leviatano è di per sé sintomo di degradazione morale o ancor più di intima perversione. L’uomo retto non può che riconoscere la sua sottomissione all’autorità pubblica ed il fatto che è parte di una società organica alla quale ha il dovere di contribuire.
Si tratta di una concezione che si situa evidentemente agli antipodi rispetto a quel pensiero liberale, libertario e giusnaturalista che invece mette al centro l’individuo e si pone l’obiettivo di affermare il carattere pattizio, negoziale e consensuale alle relazioni politiche. Da un punto di vista liberale il governo deve essere considerato come uno strumento; le sue prerogative devono restare limitate ed in linea di principio revocabili. Di certo non può essere considerato come il titolare del reddito dei suoi cittadini. In un certo senso va riconosciuto a Prodi di aver parlato “fuori dai denti” e di avere individuato, a modo suo, gli effettivi termini della contrapposizione politica tra diritti individuali ed autorità statale, tra produzione economica ed esproprio politico.
Va detto, peraltro, che il ritratto che l’ex premier fa della cultura italiana è ai limiti del surreale, quasi che gli opinion-makers siano improvvisamente diventati dei Thomas Jefferson e che i bambini delle scuole elementari si formino sulle Cato’s Letters.
In realtà, checché ne dica Prodi, il sentimento più diffuso nell’Italia non è l’antistatalismo radicale e quello che cerca la gente non è la difesa “egoistica” dei frutti del proprio lavoro.
Se davvero fosse questo l’orientamento fondamentale della nostra società, vivremmo probabilmente in un paese più libero e più sano.
Al contrario il sentimento più diffuso in Italia è semmai desiderio di essere sollevati dalla responsabilità del proprio futuro, quello di vivere il più possibile a spese degli altri. E’ l’ Italian Dream dello stipendio assicurato e servizi gratuiti, del diritto di consumare senza necessità di produrre. Non ha certo niente a che fare con l’individualismo liberista che Prodi stigmatizza. Semmai è il risultato dell’aspirazione (di per sé legittima) dei singoli a massimizzare il proprio interesse applicata ad un contesto socialista, che pertanto genera dinamiche da tragedy of the commons. Ciascuno cerca di prendere il più possibile e il prima possibile di quello che è pubblico e al diavolo tutti gli altri! Vi contribuisce, certo, il sapiente occultamento, da parte dei politici, dei veri costi dello Stato (si pensi al sostituto d’imposta e alla centralizzazione) che genera quella generalizzata illusione della gratuità dei servizi pubblici che è così importante per garantire il consenso popolare allo statalismo.
La cultura italiana è questa. E’ la cultura del debito pubblico, dell’assistenzialismo, della rendita, delle protezioni. E’ la cultura dell’orientamento al presente, del “meglio l’uovo oggi che la gallina domani”. E non è un caso che qualsiasi governo di centrosinistra o di centrodestra debba fare i conti con questa cultura ed agire di conseguenza.
Rivendicazioni antistataliste sono senz’altro presenti nel nostro paese e sono indubbiamente più forti di qualche anno fa, ma sono tuttora largamente minoritarie. Molto più forti sono invece altri tipi di richiami, di tutt’altro segno, al punto che anche il vituperato “berlusconismo” ha preferito modificare la propria fisionomia, ritarandosi oggi – nelle politiche di Tremonti e di Sacconi – verso obiettivi gestionali e per tanti versi “prodiani”.
Il rinnovato successo elettorale del centrodestra in questi ultimi anni si è costruito da un lato sull’impresentabilità del centrosinistra, dall’altro sulla capacità di Berlusconi e dei suoi di rispondere ad esigenze di rassicurazione e di coesione sociale, rubando per molti versi il lavoro alla sinistra.
In questo senso, se in 7 anni di governo Berlusconi tra il 2001 ed il 2010 le tasse non sono scese, è perché il premier sa che il prezzo politico di non abbassarle è minore del prezzo politico da pagare per toccare spese, assistenzialismo e clientele.
E’ perché sa che la cultura italiana di fondo non è reaganiana ma prodiana e che quindi, per governare, il prodismo è più utile del reaganismo.
Marco Faraci.




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