29 luglio 2010

Il grande esperimento cinese





La Cina sta mettendo in gioco la propria ricchezza economica per diventare leader mondiale in campo scientifico. Ma ci riuscirà?
di Horace Freeland Judson | Horace Freeland Judson è autore di cinque libri, incluso The Eighth Day of Creation, una storia della biologia molecolare pubblicata nel 1979 e ancora in ristampa.

La Cina è una catastrofe economica annunciata. La Cina è il paese in procinto di diventare la più grande potenza economica mondiale entro il 2025. Queste due asserzioni sono entrambe vere e forniscono il contesto necessario per comprendere con la giusta prospettiva ciò che i cinesi stanno cercando di realizzare in campo scientifico.
Quando Deng Xiaoping salì al potere nei primi anni 1980 la Cina era un paese del Terzo Mondo: la sua vasta popolazione ristagnava nella povertà, schiacciata dai gravi disastri economici e dalle rigidità strutturali. Deng decretò che la Cina doveva godere dei benefici degli investimenti e della competizione propri del sistema capitalista. Dichiarò inoltre che il fondamento dell’economia così come la grandezza di una nazione è dato dalla scienza e dalla tecnologia. Un quarto di secolo più tardi, il dinamismo dell’economia cinese si è rivelato senza precedenti in settori quali l’acciaio, le automobili, i giocattoli, i prodotti tessili, gli elettrodomestici e così via. Le statistiche ufficiali riportano una crescita annuale del prodotto interno lordo del 7,5 per cento nel 2001, del 8,3 per cento nel 2002, del 9,3 per cento nel 2003, nel 9,5 per cento nel 2004. Alcuni economisti occidentali ritengono che i dati reali siano significativamente più alti. In ogni caso è opinione diffusa che l’economia della Cina molto presto sorpasserà quella degli Stati Uniti.
Eppure i suoi problemi sono di proporzioni altrettanto gigantesche. La Cina ha un 1,3 miliardi di abitanti, con un picco previsto nel 2005 di 1,4 miliardi, di cui 900 milioni sono ancora contadini e in condizioni di estrema povertà. La corruzione è diffusa nelle amministrazioni provinciali, nelle industrie statali, all’interno del Partito Comunista. Il sistema bancario viene dato per vicino al collasso. Il malcontento sociale sta per esplodere. Il governo ha ammesso decine di migliaia di proteste all’anno. La povertà non è circoscritta alla campagna. Nelle strade principali e negli scintillanti centri commerciali di Pechino, in estate, giovani donne snelle passeggiano indossando abiti corti e trasparenti e scarpe alla moda; ma ad uno o due isolati di distanza ci sono vecchi vicoli – a Pechino chiamati hutong – lungo i quali sono allineati degli edifici bassi e fatiscenti, file di angusti negozi somiglianti a delle caverne affacciati sulle strade, senza una luce accesa, dove uomini e donne di mezza età e vecchi stanno seduti sulle scalette a fumare, sfaccendati e imbronciati.
L’inquinamento è dilagante, il degrado ambientale devastante. Durante la maggior parte della stagione estiva a Pechino, Shanghai e altre città lo smog riduce la visibilità a meno di mezzo miglio. Quando si guida lungo una delle autostrade sopraelevate che attraversano Shanghai, le torri di uffici e di appartamenti emergono in modo spettrale dalla foschia per poi dissolversi nuovamente. Si dice che il 75 per cento dei laghi della Cina siano inquinati, i tratti più bassi dei maggiori fiumi siano in secca per molti giorni dell’anno. Ma il problema più discusso è l’energia. La Cina è già seconda, dopo gli Stati Uniti, per quanto riguarda il consumo di energia. Le scorte nazionali di petrolio o di gas naturale sono insufficienti. La Cina ha carbone in abbondanza e ne è il principale consumatore al mondo dal momento che estrae e brucia un quarto dell’intera produzione mondiale, con costi drammatici: qualcosa come 6.000 operai sono rimasti uccisi sottoterra soltanto nel 2004.
Anche gli occidentali colti e aggiornati trasferiscono i propri pregiudizi ideologici nella loro visione della Cina. Il più comune è che la crescita economica richiede un capitalismo di tipo liberista, idealmente sul modello di quello anglo americano, che porterà inevitabilmente a delle riforme democratiche. Ma il capitalismo cinese non assomiglia al modello occidentale, né si avvicinerà necessariamente a esso. Il modello cinese è sotto il controllo dello stato, spesso discontinuo, indubbiamente, eppure sempre minaccioso. L’industria siderurgica, l’industria automobilistica e le altre sono state fondate partendo dai vertici. Gli obbiettivi vengono tuttora definiti dall’alto in piani quinquennali e in dettaglio. Gli uomini al vertice rappresentano la nuova generazione: intelligenti, determinati, relativamente giovani. Non c’è dubbio che abbiano imparato dalla storia, ma non quelle lezioni che, secondo gli osservatori occidentali, avrebbero dovuto imparare. Hu Jintao è il leader supremo. Lui e i suoi colleghi hanno attaccato ciò che definiscono «neoliberalismo», specificatamente le politiche del laissez-faire. Non riconoscono alcuna correlazione fra la crescita economica e lo sviluppo di una democrazia. Quello che era sembrato come un graduale allentamento dei controlli sul giornalismo televisivo e sulla carta stampata, ha fatto improvvisamente marcia indietro.
Tutto questo rappresenta un quadro molto schematico del dinamismo economico e dei limiti ambientali, politici ed economici che oggi caratterizzano la scienza cinese. Sulla scia di Deng, il governo cinese ha fatto degli investimenti consistenti per elevare la ricerca scientifica ai livelli occidentali di qualità, originalità e produttività. Roy Schwarz è un osservatore di lunga esperienza. Fin dal 1997 è stato presidente del China Medical Board di New York che sostiene la ricerca e l’educazione medica in Cina. Schwarz ha visitato la Cina circa 50 volte, per un soggiorno complessivo nel paese di un anno e mezzo. «Nel quadro generale di 13 istituzioni, probabilmente sostengo sei delle otto più importanti scuole di medicina», ha detto in un’intervista telefonica. «Inoltre, ho finanziato 150 progetti, alcuni proprio di ricerca scientifica, altri come corsi di formazione in campo scientifico e altri ancora come programmi di studio collegati alla scienza». I cinesi, ha detto, stanno facendo tutto quello che è in loro potere per promuovere la ricerca scientifica. «Intendo la scienza in generale. Dalla scienza spaziale, che già praticano, alla chimica e alla fisica. Ma soprattutto la biologia e la medicina».
Un primo passo è stata la ristrutturazione radicale. Nel 1952 e negli anni a seguire la Cina, seguendo il modello sovietico, aveva costituito un gran numero di università e di scuole distinte, specializzate ciascuna in una singola disciplina. Ma nell’estate del 1998 Jiang Zemin, allora presidente della Cina, e Zhu Rongji, primo ministro, portarono a Pechino i rappresentanti di illustri università americane. Le autorità cinesi realizzarono così che là dove i loro istituti scolastici erano specializzati, quelli americani erano pluridisciplinari. La loro risposta, ha notato Schwarz, fu quella di adottare il modello americano. Il risultato fu una gran numero di fusioni a raffica. Per esempio, la città di Hangzhou aveva quattro università monodisciplinari, fra le quali una di agraria e una di medicina. Nel 1998 vennero improvvisamente accorpate in un’unica università, l’Università di Zhejiang. Zhejiang oggi conta qualcosa come 43.000 studenti, inclusi 5.500 candidati PhD.
«Le loro università hanno due livelli di potere al loro interno. Quello evidente per gli occidentali è costituito dal presidente, dai vicepresidenti e dai presidi di facoltà. Quello non evidente è dato dal segretario del partito e dai vice segretari: per ogni livello sul fronte accademico ne corrisponde uno sul fronte del partito». Come per l’Armata Rossa nell’Unione Sovietica di qualche anno fa? «Si, esattamente. E il secondo è certamente più potente del primo – o quantomeno è stato così fino a oggi. Ma tutto ciò sta rapidamente cambiando» (Forse. Però avevo notato una consuetudine tutt’altro che comune secondo la quale uno scienziato cinese che veniva intervistato aveva almeno un’altra persona al suo fianco: un collega, uno studente, qualcuno presumibilmente in grado di aiutarlo con la traduzione, spesso qualcuno che si occupava di relazioni internazionali. Nathan Sivin, la più importante autorità vivente in storia della scienza cinese, mi ha illuminato con un messaggio di posta elettronica: «Gli addetti dell’ufficio affari esteri di un’unità lavorativa controllano e riportano sempre le informazioni all’Ufficio di Pubblica Sicurezza. In alcune organizzazioni sono piuttosto impazienti e in altre sono collaborativi con gli intellettuali con i quali lavorano, almeno fintanto che qualcosa non viene percepita come una minaccia»).
Le più importanti scuole di medicina erano già, come quelle negli Stati Uniti, degli istituti di ricerca biologica, anche se il loro lavoro era in gran parte sconosciuto in Occidente. Adesso venivano incorporate nelle università. «In qualsiasi altra cultura non sarebbe potuto accadere», afferma Schwarz. «Ma credo che ora le facoltà di medicina stiano scoprendo il vantaggio di far parte di una struttura più grande. Ho visto in azione la cultura di presidenti e segretari di partito non appartenenti al mondo della medicina, quando cercano di comprendere questa bestia rara chiamata centro medico». Secondo l’opinione generale, il migliore di questi è quello presso l’Università di Pechino che nel 2000 ha incorporato l’Università di Medicina di Pechino, ribattezzandola Centro di Scienze della Salute dell’Università di Pechino. Il principale campus dell’Università di Pechino è nei pressi di un vicino sobborgo a Ovest di Pechino; il Centro di Scienze della Salute è distante diverse miglia. Una tale dispersione è l’ovvia conseguenza del processo di fusione. L’Università di Zehjiang ha sei campus.
Questa dispersione potrebbe non durare. È in atto un intenso processo di modernizzazione che attraversa tutto il sistema universitario cinese. «Tutti si stanno dedicando alla costruzione di questi nuovi giganteschi campus», afferma Schwarz, «oggi ne ho visitati cinque». L’accorpamento dei campus, la costruzione di nuovi servizi implementano l’integrazione. Per evitare la resistenza al cambiamento da parte delle facoltà e delle amministrazioni, secondo Schwarz, sono stati stanziati altri 245 milioni di dollari per l’Università di Pechino per i tre anni successivi all’accorpamento; la prima parte di questo finanziamento è stata destinata alla realizzazione di laboratori che competono con i migliori di tutto il mondo e all’acquisto delle migliori strumentazioni. I laboratori che ho visto in nove diversi istituti di ricerca erano spendidi.


Gli obbiettivi e le aree d’intervento della ricerca scientifica cinese sono stati definiti nei minimi particolari in una serie di direttive nazionali. La direttiva principale più recente è denominata Programma di Ricerca di Base Nazionale. All’inizio del 1997 il Ministero della Scienza e della Tecnologia riunì una commissione di valutazione costituita dagli scienziati più autorevoli per avere un parere su quanto la Cina doveva fare per raggiungere una competitività internazionale nel campo delle scienze e, allo stesso tempo, fare fronte alle problematiche interne più gravi. A marzo la commissione presentò le proprie proposte – da cui l’abbreviazione «Programma 97-3» – e a giugno furono approvate sia a livello ministeriale sia ai livelli più alti. Il linguaggio dei contenuti promozionali del programma può essere marxista-trionfalista. Una traduzione inglese cita: «Creeremo un’eccellente sistema di ricerca scientifica, sosterremo con impegno un gruppo di prestigiose squadre di ricerca scientifica, porteremo avanti l’innovazione nel campo della ricerca e scaleremo la vetta della scienza mondiale, promuovendo in questo modo lo straordinario sviluppo della ricerca di base della Cina e le industrie hi-tech». I dettagli, comunque, sono argomentati, concreti e in verità seri.
I finanziamenti, ovviamente, sono lo strumento per dirigere e controllare la scienza e gli scienziati. A dire la verità, un numero di società occidentali hanno predisposto in Cina dei centri per la ricerca tecnologica. Sia IBM sia Microsoft hanno dei laboratori a Pechino; quello di Microsoft è ritenuto decisamente il più innovativo dell’azienda. La Commissione Cinese della Sanità destina ogni anno 10 milioni di dollari alla ricerca e alla formazione medica. Nel 2004 l’Istituto Pasteur, l’istituto di ricerca francese privato, ha cominciato a lavorare con l’Accademia Cinese delle Scienze e con l’amministrazione municipale di Shanghai per costituire e gestire un istituto la cui ricerca si concentri sulla biologia molecolare delle malattie infettive. Due degli uomini più ricchi di Hong Kong stanno finanziando alcuni programmi specialistici. Queste iniziative, per quanto su scala ridotta, godono di indipendenza e visibilità ed esercitano una certa influenza sullo sviluppo della cultura scientifica cinese. Altrimenti quasi tutti i finanziamenti per la scienza provengono, attraverso canali diversi, dal governo.
Zhang Xianeng è direttore generale della ricerca di base presso il Ministero della Scienza e della Tecnologia. Ci siamo incontrati durante la pausa di una conferenza fiume organizzata dal governo presso l’Hotel Montagna Profumata, una sorta di luogo di vacanza moderno e piacevole a due ore da Pechino, situato sui pendii più bassi delle colline da cui prende il nome. Zhang è un biochimico. È magro, sulla cinquantina, ma sembra più giovane di 10 anni, è un uomo riflessivo che parla un inglese eccellente. «In Cina abbiamo tre principali fonti per la ricerca», affermò Zhang. I loro obbiettivi differiscono. «Una è costituita dalla Fondazione Nazionale Cinese di Scienze Naturali. Questa fondazione sostiene la ricerca di base generata dalla curiosità degli stessi scienziati. Il Ministero della Scienza e della Tecnologia costituisce un’altra fonte di finanziamento, in grado di sostenere la domanda nazionale di ricerca» che equivale alla ricerca pianificata dal governo per risolvere le questioni interne più urgenti. «Noi la chiamiamo ricerca strategica». Proseguì: «Il Ministero è un’agenzia del governo. Non solo finanziamo la ricerca di base, ma anche quella applicata».
Attraverso tutto il sistema, la distinzione fra ricerca di base e ricerca applicata è complessa. «La Fondazione di Scienza Naturale aveva un budget l’anno scorso» – 2004 – «di circa due miliardi di yuan», sostiene Zhang. Al cambio di allora, fissato a 8,28 yuan al dollaro, significava circa un quarto di miliardo di dollari. I raffronti sono tuttavia scomodi, perché il costo della ricerca in Cina è notevolmente più basso rispetto a quello degli Stati Uniti. «Dal nostro Ministero», raccontò Zhang, «provengono 10 miliardi», vale a dire 1,2 miliardi di dollari americani, o circa un dollaro per ogni cittadino cinese. «Ma circa il 10 per cento del budget del Ministero è destinato alla ricerca di base, che è circa la metà di quello assegnato alla Fondazione di Scienza Naturale».
La commissione che ha sostenuto il Programma 97-3 si preoccupa tuttora di sottoporre le priorità all’approvazione del Ministero. Anche la ricerca «dettata dalla curiosità», finanziata dalla Fondazione di Scienza Naturale, deve rientrare entro le categorie del programma, in conformità ai piani quinquennali delle organizzazioni di ricerca. I fautori del programma riconoscono, almeno in teoria, la necessità di permettere agli scienziati di impostare la propria ricerca. In conflitto con questo, però, hanno escogitato un sistema di controlli formali. Sono stati costituiti 61 «comitati disciplinari di valutazione» con 753 esperti. Le istituzioni sottopongono le proposte entro il 31 di marzo. Ciascuna di queste viene esaminata da uno dei sette dipartimenti scientifici della fondazione, che vanno dalla matematica, alla fisica fino alla chimica; dalla geologia, all’ingegneria, all’informatica e alle scienze gestionali. Il passo successivo è costituito dal peer review effettuato per corrispondenza e attingendo da un bacino di più di 20.000 esaminatori; è da chiedersi se un tale riesame sia rigoroso e scevro da preconcetti (così com’è altrettanto vero per l’Occidente). I risultati vengono analizzati e i progetti vengono inviati ai comitati di valutazione che sottopongono quelli sopravvissuti al convegno annuale della Fondazione di Scienza Naturale. I finanziamenti durano cinque anni, e lo stato d’avanzamento viene controllato dopo i primi due, un sistema denominato «2 + 3», per evitare il problema che, una volta che un progetto ha vinto il finanziamento, la squadra di ricerca si sieda e «il pensiero si fossilizzi», disse Zhang. «La terza fonte di finanziamento è, ovviamente l’Accademia Cinese delle Scienze (CAS)», affermò Zhang. I migliori scienziati del paese sono accademici e, in questo senso, l’Accademia Cinese è come l’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti o l’Associazione Reale della Gran Bretagna; anche se somiglia molto di più all’Associazione Max Planck in Germania, poiché anche questa dirige direttamente una grande quantità di istituti: i più importanti in città come Pechino o Shangai e altri sparsi in tutto il paese. Questi una volta ammontavano a più di 130, ma anche in questo caso sono stati predisposti degli accorpamenti. Molti di quelli rimasti sono stati ridimensionati attraverso chiusure forzate, in modo da concedere un sostegno più adeguato agli scienziati che restano e che sono in grado di esercitare la pressione necessaria per cercare ulteriori finanziamenti all’esterno. «La CAS è presa d’assalto per i suoi istituti», sosteneva Zhang. «Ma in realtà questi godono di molta libertà. Sia che si tratti di ricerca generata dalla curiosità – circa il 40 per cento del loro budget – sia che si tratti di ricerca strategica di base».

Sin da quando ho preso in considerazione l’idea di andare in Cina mi ha turbato un dubbio profondo, e i nudi fatti della ristrutturazione del mondo scientifico l’hanno portato in primo piano. È possibile costituire un sistema scientifico moderno in grado di sviluppare un originale e importante lavoro secondo gli standard mondiali, organizzandolo partendo dall’alto verso il basso e strutturandolo come un’ industria metallurgica, automobilistica o elettronica? La scienza di qualità della nostra era viene svolta in gruppi all’interno di gruppi: dal laboratorio individuale, all’istituto di ricerca, alla rete nazionale, con le sue associazioni di professionisti, con i controlli, i riconoscimenti, con i livelli multipli di scienziati che valutano altri scienziati, fino alla comunità scientifica mondiale; integrati fra di loro, anche se in modo approssimato, da una condivisione di atteggiamenti e modelli comuni. Le nuove idee, le scoperte nascono dal basso verso l’alto. La cultura scientifica, l’etica scientifica devono essere radicate nell’unità di base: il singolo laboratorio. Dal capo del laboratorio – denominato in Cina così come negli Stati Uniti, il principal investigator o PI – fino ai colleghi più anziani, ai postdoc, ai laureati, ai tecnici di laboratorio, tutto quanto il gruppo promuove e mette in pratica l’etica della scienza. Questo è il luogo dove i giovani scienziati accettano la disciplina, la fanno propria e la rendono parte della propria personalità. Oppure tutto ciò non accade perché ci sono delle istituti sofferenti nel mondo scientifico occidentale, laboratori e grandi istituti dove l’etica vacilla.
La grande questione per la Cina, dunque, è come far attecchire e coltivare la disciplina della scienza, l’etica. Ho sollevato il problema con ogni scienziato con cui ho avuto modo di parlare. Due aspetti mettono in evidenza le difficoltà. L’aspetto del confucianesimo e quello del plagio. Non si tratta di stranezze o di anomalie marginali. Sono aspetti profondamente radicati e interiorizzati.
Howard Termin è stato un genetista molecolare americano che ha condiviso il Premio Nobel in fisiologia o medicina per la scoperta dell’enzima a trascrizione inversa. Era un uomo di una rettitudine ferrea che aveva a lungo riflettuto sui diversi modi di fare scienza. In una conversazione del marzo 1993 mi disse: “Uno dei più grandi punti di forza del mondo scientifico americano...è che anche dal più anziano dei professori, qualora venga sfidato dal più semplice dei tecnici o da un dottorando, ci si aspetta che si rivolga a loro seriamente, prendendo in considerazione le loro critiche. È uno degli aspetti più importanti della scienza in America». Si osservi invece per contrasto il mondo cinese. Armonia, consenso, rispetto per l’autorità e per le opinioni dei più anziani: per migliaia d’anni questo insieme di comportamenti, che in breve può riassumersi nel confucianesimo (anche se una buona parte di queste convenzioni che vengono imputate a Confucio erano già esistenti prima del suo avvento) ha regolato la condotta di ogni individuo cinese. Oggi è in discussione il potere di una gerarchia basata prima di tutto sull’anzianità e poi sulle relazioni. Pare che tale sistema gerarchico tuttora controlli la maggior parte dell’insegnamento scientifico in Cina e permei i rapporti di laboratorio. Clamorosamente portò nel 2003 all’errata identificazione della causa dell’epidemia della sindrome respiratoria acuta, la SARS. I primi casi si manifestarono nel Sud della Cina alla fine del 2002; la malattia si propagò a Pechino e ad altre città e minacciò di diffondersi su tutto il pianeta. Nel febbraio del 2003 un autorevole scienziato di Pechino annunciò di aver trovato la causa: il batterio Clamidia. Uno scienziato più giovane del suo laboratorio sapeva che si trattava di un errore, poiché aveva isolato la vera causa. Per rispetto, o per paura, preferì tacere. Questo è un caso estremo, ma non isolato. Fui messo in guardia sulla questione più volte. Gearld Lazarus è preside emerito della scuola di medicina dell’Università della California, a Davis, e oggi professore presso la scuola di medicina della Johns Hopkins. Sua moglie, Audrey Jakubowsky, è chimica. Hanno vissuto a Pechino per tre anni, dal 1999 al 2001. Lui era visiting professor presso l’Ospedale e l’Università di Medicina Riuniti di Pechino. Per la maggior parte di quel periodo lei collaborò con un giornale scientifico di lingua inglese, il «Chinese Medical Journal», cercando di migliorare l’inglese degli articoli pubblicati e di definire degli standard per la correzione dei testi. Lazarus parlò di resistenze intellettuali incontrate in facoltà e fra gli studenti, dovute, pensava, alla deferenza nei confronti delle opinioni di colleghi più anziani. Jakubowsky fu più precisa. Il sistema basato sull’anzianità – lei lo definì confucianesimo – poteva invalidare il metodo del peer review, perché la contestazione di uno studio poteva apparire come una mancanza di rispetto nei confronti di un collega più anziano.
I cinesi (e altre popolazioni asiatiche, naturalmente) sono noti per la contraffazione di merce griffata: la tutela dei copyright e dei marchi di fabbrica sembrano non avere alcun significato. A quanto pare il plagio è scontato anche in campo scientifico. Gli scienziati americani e gli studiosi che lavorano con i dottorandi cinesi o con i colleghi postdoc sono sorpresi di dover insegnare ai nuovi arrivati che non è possibile appropriarsi del lavoro altrui senza riconoscerlo pubblicamente, per non parlare delle sanzioni cui si incorre qualora si venga scoperti. «I cinesi hanno un serio problema nel rispettare la proprietà intellettuale. Sembrano soffrire di una sorta di amnesia selettiva», sostiene Roy Schwarz. Martha Hill, preside della scuola per infermieri della Johns Hopkins, sostiene la stessa cosa: «Vengono qua, nella maggior parte, senza alcuna consapevolezza della necessità di dare paternità, piena paternità, a qualsiasi materiale estrapolato dal lavoro altrui». Un’altra divisione della Hopkins ha recentemente espulso uno studente laureato cinese per plagio. Sivin ha osservato che un rapporto pubblicato in Cina sul plagio come male diffuso ha messo in guai seri il suo autorevole autore cinese.
Tuttavia, i pregiudizi occidentali ostacolano il processo di comprensione e di efficace reazione. Duplicare l’ultimo album dei Rolling Stones, applicare un’etichetta contraffatta di uno stilista su un paio di jeans sono reati consentiti. Il plagio in campo scientifico non è la stessa cosa. In occidente la scienza è ritenuta generalmente un bene comune: i metodi sono condivisi, i risultati, una volta pubblicati, sono a disposizione di tutti. Nel mondo scientifico la priorità è l’unica forma di proprietà, e fa sì che la paternità diventi una necessità assoluta. I dati che non vengono pubblicati potrebbero essere oggetto di furto, ma di un furto rischioso. Ciò che vale veramente la pena di rubare sono le idee, soprattutto capire che c’è qualcosa di nuovo e come fare per impossessarsene. Questo tipo di furto è la più grande tentazione e la più difficile da individuare. Ma succede e può essere ostacolato soltanto da una cultura scientifica fortemente radicata, dal senso di appartenenza a una comunità, interiorizzati psicologicamente come etica della scienza.
Gli scettici potrebbero supporre che ciò che accade in Cina non è diverso da ciò che si vede in tanti laboratori occidentali, dove il capo si appropria del lavoro dei propri collaboratori pubblicandolo con il proprio nome. Ma la tradizione cinese è fondamentalmente diversa. Si pensi semplicemente che dagli studenti di ogni livello ci si è sempre aspettato che facessero proprio il lavoro altrui. Nei tempi antichi gli studenti corretti ammettevano le appropriazioni, ma si trattava comunque di una prassi facoltativa (come in Occidente prima del XIX secolo). Questa prassi, dunque, risale a molti secoli addietro e oggi sembra ancora saldamente radicata.
Negli ultimi anni il classico ideale occidentale della condivisione della scienza è stato scosso, soprattutto nelle scienze biologiche, dal miraggio di guadagni mediante i brevetti. Molti si scandalizzano per la segretezza che impone la preparazione di una richiesta di brevetto e condannano gli eccessi che, diciamo, hanno portato alla proliferazione di brevetti per ogni singolo frammento di genoma. Comunque, visto nell’ottica giusta, un brevetto è una forma di pubblicazione ed elimina la necessità della segretezza, mantenendo il concetto di priorità, ma reintegrando quello di condivisione.
Qui c’è una curiosa corrispondenza. A un certo punto, in ogni conversazione che avevo con gli scienziati cinesi, sollevavo la questione del plagio. La reazione era sempre la stessa, e, a una prima impressione, sembrava inaspettata – non propriamente evasiva, ma indiretta. Riflettendo sembrava che si cominciasse ad ammettere il problema, è vero, ma, secondo le modalità culturali cinesi, nel senso che i giovani scienziati in formazione potessero essere portati a pensare in modo diverso, cioè a vedere i vantaggi nel fare proprie le regole occidentali. Così i direttori d’istituto e i principal investigators affermano di insegnare che proprietà intellettuale significa, in primo luogo, brevetti. I giovani scienziati cinesi sono esortati a valutare quali dei loro risultati sono brevettabili e a fare la relativa richiesta. All’improvviso, fuori della mischia di idee, di metodi, di dati, di scoperte prima possedute in comune, emerge il concetto di proprietà privata in forma più definita.
In secondo luogo, gli scienziati cinesi sono esortati e guidati a preparare il proprio lavoro e a scriverlo in modo da poter essere pubblicato sulle riviste occidentali, secondo i criteri di peer-review. «Nature», «Science», «Cell» sono le riviste più ambite. Un certo tipo di pubblicazione è enormemente reclamizzato nel Programma 97-3 e il successo di un singolo laboratorio sulle riviste internazionali è decisivo nella fase 2 + 3. Il prestigio nazionale qui è una motivazione chiara e determinante. La conseguenza però sui singoli laboratori e sugli scienziati è quella di costringerli ad assimilare gli standard qualitativi occidentali, di viverli e di imparare a conviverci. È, in breve, un processo di acculturazione.


A partire dai decenni in cui Deg Xiaoping aveva dichiarato che la scienza e la tecnologia erano di cruciale importanza, migliaia di cinesi formati in materie scientifiche sono emigrati all’estero come dottorandi o, più frequentemente, come postdoc. Molti sono andati negli Stati Uniti e alcuni in Europa. Molti sono rimasti accettando dei lavori di ricerca; alcuni sono rientrati. Per la Cina rappresentano un’immensa e inestimabile risorsa, non solo per le loro particolari professionalità e specializzazioni, ma soprattutto per le loro maniere occidentali e per la loro assimilazione dell’etica della scienza moderna. Il governo cinese ha riconosciuto il loro potenziale e sta cercando con urgenza di indurne molti a rientrare.
Qui ci sono tre scienziati cinesi. Ciascuno di loro ha fatto un’esperienza di post dottorato all’estero e poi è rientrato. Ciascuno è a metà della propria carriera, a capo di un laboratorio e lavora intensamente con un team relativamente piccolo. Sono rappresentativi di altrettanti scienziati che ho avuto modo di incontrare.
A Changsha, capitale della provincia dello Hunan, nel centro sud della Cina, dove le estati e il cibo sono infuocati, l’Università Centromeridionale fu costituita nel 2000 attraverso la fusione di una università di tecnologia, una di medicina e, chi l’avrebbe mai detto, l’Università Ferroviaria del Changsha. Oggi il comparto medico è costituito dalla Scuola di Medicina di Xangya. Cao Ya (il suo nome da ragazza si pronuncia Tsow) è vice preside e direttore della scuola di medicina. Ha conseguito un MD e un PhD e ha trascorso 5 anni negli Stati Uniti presso il National Cancer Institute, fuori Washington. È anche vice- sindaco dello Changsha. È una donna forte, schietta, versatile, con un’intelligenza brillante, con senso dello humour ed è incredibilmente preparata. Abbiamo conversato in occasione di un elegante pranzo con una mezza dozzina di suoi colleghi; la mattina successiva ci siamo incontrati nel suo ufficio con un dottorando presente come interprete.
«Il più importante programma scientifico in atto in questo momento in Cina è questo, chiamato programma 97-3», dichiara la professoressa Cao. Un programma di una notevole importanza per raggiungere il progresso scientifico di tutto il mondo. È iniziato nel 1997, a marzo. Questo programma è finalizzato alla ricerca di base in accordo con le esigenze della nazione». Applicazioni tecnologiche o scienza di base? «Entrambi», afferma con un cenno malizioso. Il fine è duplice? «Si», conferma. «Io credo che il programma scientifico prioritario sia un programma di livello mondiale. Non solo per la Cina. Mentre il secondo costituisce il bisogno immediato per lo sviluppo economico e sociale del nostro paese».
Il programma 97-3 concentra la ricerca in 6 aeree: biotecnologia agraria, energia, informatica, risorse naturali e ambiente, popolazione e salute, scienza dei materiali. L’area di competenza di Cao è la popolazione e la salute. In quest’area la ricerca è suddivisa in 20 campi, che Cao è stata in grado di illustrarmi avvalendosi di una esposizione ufficiale di 33 pagine che aveva messo insieme prima della mia visita. L’elenco è vario, i progetti ambiziosi. Eppure anche la più semplice delle ricerche – quella sulle cellule staminali, per esempio – è stata impostata in termini di applicazioni immediate.
La sua settimana lavorativa è divisa a metà fra l’amministrazione della città e la ricerca. «In particolare vorremmo riuscire a scoprire come il virus Epstein-Barr – che causa il cancro – agisce con la cellula ospite». Le domande che il suo gruppo si sta ponendo non sarebbero fuori luogo presso il National Cancer Institute americano. Il suo laboratorio conta circa 20 persone, per lo più candidati PhD, con cinque tecnici. Tutto il suo Istituto di Ricerca sul Cancro ha sei laboratori, 50 facoltà, circa 100 studenti. Sei membri di facoltà fanno parte della schiera di scienziati cinesi rientrati dall’estero. Il Centro è parte della scuola di medicina.
«Per quanto riguarda il mio laboratorio, credo che tutto proceda bene e che stiamo facendo un buon lavoro», afferma. «Inoltre nel mio laboratorio abbiamo davvero un’ottima squadra di lavoro. Si condividono le informazioni, le idee e si scambiano i dati e le opinioni». Durante la sua esperienza al National Cancer Institute è stata profondamente influenzata. Il suo direttore presso la scuola di medicina è uno scienziato: «È un membro dell’Accademia, ha 74 anni». Il rispetto automatico per i più anziani costituisce un problema? «No». Non è d’intralcio alla scienza? Ho provato a riformulare la domanda per due volte. Ma ogni volta è rimasta seduta in silenzio, senza dare alcuna risposta. Le ho chiesto quali fossero secondo lei i problemi. «Credo che la questione più importante sia che dovremmo pubblicare più spesso il nostro lavoro nelle riviste internazionali. In questo modo il mondo intero avrebbe l’opportunità di saperne di più su cosa stiamo facendo in Cina. Ma il problema più grande è il problema della lingua. Gli editori dicono sempre che l’inglese non è quello originario. E aggiungono che avremmo bisogno di una persona di madrelingua che ci aiuti a migliorare la qualità della scrittura». Mi ha dato una bibliografia di tutte le pubblicazioni di biologia di scienziati cinesi che lavorano in Cina dal 2000 all’estate del 2005 su «Science», «Nature» e «Cell». Ammontavano all’incirca a 36. La maggior parte riportava una gran quantità di coautori, anche fino a 30. Del suo laboratorio ha detto: «Quest’anno proviamo a presentare delle buone pubblicazioni sul «Journal of Biological Chemistry» e nei «Proceedings of the National Academy of Sciences» statunitensi.
Nient’altro? «Si, penso che dovremmo rinunciare a tutti i lavori ripetitivi di scarso livello. Non hanno molto senso e non fanno che aumentare la spazzatura».
Yang Ke è vicepresidente esecutivo del Centro di Scienza della Salute dell’Università di Pechino (in inglese preferisce la sequenza occidentale, prima il nome di battesimo). È una donna dotata di un fascino, di una perspicacia e di un acume straordinari, appassionata e idealista della scienza di qualità. Fra tutti gli scienziati che ho incontrato la professoressa Ke ha manifestato la consapevolezza più profonda delle difficoltà e delle pressioni che affrontano gli scienziati cinesi. Come Cao Ya ha lavorato negli Stati Uniti presso il National Cancer Institute dal 1985 al 1988. Con lei, durante l’intervista e a pranzo, c’era il direttore del centro di cooperazione internazionale, Dong Zhe. «Mi aiuterà con l’inglese, se avrò problemi».
Ke ha diretto un laboratorio sin da quando è rientrata dagli Stati Uniti nel 1988; il suo attuale lavoro è indirizzato «per lo più allo studio del cancro dell’esofago e dello stomaco, che ha un’incidenza molto alta in Cina». Il cancro dell’esofago ha una componente genetica comprovata benché non semplice. «Stiamo lavorando su un campione di popolazione ad alta incidenza, in un’area rurale relativamente isolata della provincia dello Hunan». Fu nominata vicepresidente per la ricerca quattro anni fa e fu promossa al suo attuale incarico di presidente due anni dopo. Le promozioni sono arrivate, sebbene «proprio quando cominciavo ad afferrare la vera essenza della scienza e a raccogliere i primi frutti». Questo è ciò che le manca: «Adesso mi dedico molto di meno al lavoro sperimentale, ma continuo a darmi da fare per non rinunciarvi, perché credo di poter essere ancora di aiuto agli studenti», afferma. «Quantomeno credo che i miei studenti stiano acquisendo una buona formazione».
L’immagine della scienza cinese presentata al mondo, sostiene, ha evidenziato un progresso decisamente dinamico: «il fatto è che stiamo procedendo nella giusta direzione, ma abbiamo ancora dei problemi». Mi dice che li avrebbe trattati uno a uno. Ma prima «dovrei dire un’altra cosa, cioè che la mia opinione non è quella ufficiale». In realtà sperava che la sua franchezza non fosse fuori luogo.
«Il primo problema. La Cina ha fatto veramente uno sforzo enorme per potenziare la scienza e la tecnologia. Perché il governo ha compreso che questa è la strada – quantomeno una delle strade, una fra le più importanti - per rendere grande un paese», afferma. «Ma la scienza non è come l’industria siderurgica o quella automobilistica, ha bisogno di tempo». La formazione scientifica è stata finanziata in modo consistente, ma non abbastanza. La formazione scientifica deve cominciare molto presto. I finanziamenti per la ricerca da parte del Ministero, della Fondazione di Scienza Naturale, sono stati aumentati dieci volte tanto o più nell’ultimo decennio. «Ma io credo che le università dovrebbero avere un sostegno maggiore nella ricerca di base per il loro progresso sul campo e per l’influenza sugli studenti. Ritengo che la ricerca di base abbia un forte impatto sul modo di pensare scientifico degli studenti, il che, nella nostra cultura, è relativamente debole».
In secondo luogo, «per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico…per esempio, se abbiamo bisogno di un satellite, è il governo che se ne occupa», afferma. «Il problema è che viene enfatizzata la scienza di base, ma solo da un punto di vista organizzativo» – dall’alto verso il basso – «invece di crearla di volta in volta partendo da un determinato livello scientifico. Anche se molti scienziati stanno diventando sempre più influenti, le persone sono tuttora convinte che possiamo lavorare efficacemente nel modo in cui fanno loro in campo tecnologico. Questo è il problema delle persone: non riescono ad aspettare. Il secondo giorno si aspettano dei risultati. Dicono agli scienziati: “Avete i soldi. Organizzate una squadra! Fatelo in grande! E domani arriverà il Premio Nobel! Proprio così». Eppure, «naturalmente, funziona anche così, perchè i bravi ricercatori in questo modo ottengono più borse di studio. Considerate il progresso che stiamo facendo. Adesso abbiamo delle persone che veramente comprendono la scienza, che conoscono le regole del gioco e che prendono molto sul serio il loro lavoro. Ma io credo che, in prospettiva, agli scienziati della ricerca di base dovrebbe essere concessa più libertà e più tempo per organizzarsi e per produrre».
«A questo punto salto alla terza questione. Oggi, in questa società e in questo momento culturale credo che i cinesi diano molto più peso alla tecnologia che alla scienza. Fin dall’inizio, fin dagli albori della nostra storia, abbiamo sempre avuto una tradizione nella ricerca applicata. Questa è la nostra cultura. Da cinquemila anni.
Inoltre nella nostra società, che si sta sviluppando assai velocemente da un punto di vista economico, la tendenza al cambiamento che si manifesta nel sistema sociale si riverbera nel ribaltamento turbinoso delle convinzioni. Le persone sono più materialiste», afferma. «Ma per quanto riguarda la scienza di base, le persone devono mantenere una mente serena. Sgombra. E concentrata. E…». In cerca di un termine si volge verso Dong Zhe. Lui contrae le labbra e poi dice «capace di tollerare il duro lavoro». E l’incertezza. Lei riprende la parola: «Ma il primo requisito è quello di essere molto interessati. Curiosi, molto curiosi. E di saper tollerare la solitudine. A lungo. E forse senza ottenere nessun risultato».
Ma il problema non riguarda soltanto il singolo. «Riguarda il gruppo», dice Yang Ke. «La collaborazione. Questo è un altro problema, molto complesso. Per prima cosa perchè tutti vogliono avere successo. E ciascuno reputa se stesso essere il migliore. Questa è la tendenza della nostra società. In secondo luogo perché si tratta di un problema, nuovamente, di carattere culturale. I cinesi non vogliono dire cose negative sin dall’inizio. Non vogliono chiarire come dividere un eventuale profitto all’inizio. Così se la ricerca avrà successo, le persone finiranno col litigare».
Dong Zhe interviene. «Ciò che la professoressa Ke sta dicendo riguarda una prerogativa della cultura cinese di voler dimostrare da un lato la propria cortesia, ma, dall’altro lato, senza definire la propria posizione. In alcuni casi non importa. Ma quando si tratta di raccogliere i frutti, allora il problema emerge. Tutti reclamano il proprio contributo».
Questo è un aspetto della cultura cinese che risale a migliaia di anni fa, precisai. Entrambi mormorano parole di consenso. Ke dice: «Le persone rispettano il pensiero scientifico. Ma, nella nostra cultura, la maggior parte non lo comprende realmente. Ho notato, dopo essere stata a contatto con la cultura occidentale, che nella nostra scuola – questa è una famosa scuola di medicina– la maggior parte dei docenti insegnano agli studenti esclusivamente attenendosi al libro di testo».
Dong Zhe incalza: «Ke sta dicendo che la cultura cinese non incoraggia a porsi degli interrogativi con la propria testa, ma impone di seguire ciò che dice la mente più autorevole».
Yang Ke aggiunge: «Ma questo comportamento sta cominciando a cambiare in quanto alcuni cinesi comprendono ciò che veramente è la scienza e si interrogano su come poterla fare. Ma ci vorrà ancora tanto tempo per cambiare la mentalità dell’intero paese». Si rivolge di nuovo a Dong con un’esplosione di cinese fitto fitto, il quale rimane a pensare per un momento e poi dice: «La cultura cinese ha una lunga storia e pertanto deve avere in sé aspetti di verità e di eccellenza. Tuttavia, se affrontiamo la questione della formazione di nuovi scienziati, sembra inevitabile rompere, almeno in minima parte, con la tradizione. Bisogna imparare a essere brillanti e aperti».
Come? «Ci vorrà tempo», dice Ke. «Sarà la globalizzazione che consentirà l’integrazione dei vantaggi della cultura cinese e di quella occidentale. I nostri giovani, ben preparati e molto promettenti, devono anche saper imparare dall’esterno, se vogliono diventare degli scienziati». Così vanno all’estero e poi rientrano? «Esatto». Ma, una volta rientrati, che cosa li tutela dai più anziani? «Un numero sempre maggiore di persone che fanno rientro dall’estero. Per esempio i miei studenti vanno all’estero e poi ritornano, e non dovrebbero avere alcun problema a trattare con me».
Dong precisa: «Credo che la professoressa Ke stia cercando di dire che, a causa della globalizzazione, è in atto un interscambio di culture. Perciò molti ricercatori di punta sono stati formati all’estero». Verso cosa ritornano? «Se si tratta di un singolo, non è possibile cambiare la situazione, ma se rientra un gruppo di persone allora diventano una forza». Ke fa un cenno di assenso e Dong prosegue: «Inoltre introducono nuove idee e applicano i comportamenti degli scienziati, avviando un cambiamento». Dando vita a un nucleo scientifico, aggiungo, perché l’etica deve diffondersi anche tra gli studenti e i tecnici. «Esattamente, proprio così», Ke ammette. «Perciò ci vorranno generazioni e generazioni. Non credo che basti una sola generazione».
«Forse qualche generazione», dice Dong Zhe.
A Shanghai nel 2000 due istituti di quasi mezzo secolo ciascuno sono stati accorpati per costituire l’Istituto di Biochimica e di Biologia cellulare. È uno dei centri più grandi e all’avanguardia di tutta la Cina. Il genetista Li Zaiping è anziano, geniale, affabile. C’incontrammo in una grande sala conferenze, con i suoi colleghi, incluso un importante anziano ricercatore che studiava l’insulina e il vice direttore dell’Istituto, Jing Naihe, più giovane, disinvolto e appassionato. Il professor Jing aveva conseguito il suo PhD in uno degli istituti dei suoi predecessori e si era trasferito in Giappone per il post dottorato. Li confidava su Jing perché facesse la maggior parte della presentazione
In generale l’Istituto si occupa di biologia molecolare, cellulare ed evolutiva e di biochimica, ma i quattro gruppi del laboratorio hanno differenti specializzazioni e affiliazioni alquanto diverse. Il Laboratorio Statale di Biologia Molecolare, per esempio, che si occupa delle interazioni RNA-proteina e della regolazione dell’espressione del gene è ampiamente finanziato e supervisionato dal Ministero della Scienza e della Tecnologia. (key laboratory, laboratorio chiave, come è chiamato, è la traduzione letterale dal cinese che significa molto importante). Gli altri gruppi del laboratorio sono emanazione dell’Accademia Cinese delle Scienze.
Quando io, Li e Jing ci siamo incontrati, l’istituto contava 194 scienziati, di cui 45 principal investigators; un terzo aveva fra i 45 e i 60 anni e un terzo oltre i 60 anni, «ma adesso sono di meno», disse Jing. E i vecchietti? La mia osservazione si rivelò poco garbata e lo scoppio di risa che ne seguì fu alquanto a disagio. Jing si intromise accennando ai suoi colleghi più anziani: «Sono, come potete vedere, anzi credo che sono giovani! Quantomeno da un punto di vista scientifico, giusto?» Raccontai che a Pechino avevo avuto una studentessa dottoranda che mi aiutava la quale, saputa la mia età, disse che mi avrebbe chiamato «Ye ye», espressione infantile cinese che sta per nonno. Questa volta la risata fu fragorosa. Li Zaiping allora disse seriamente: «È difficile ottenere fondi per le persone di una certa età».
«Abbiamo all’incirca un membro dello staff per ogni due dottorandi», Jing disse. «Abbiamo pochissimi postdoc». Perché? «Perché gli studenti validi, dopo aver conseguito il PhD, vanno negli Stati Uniti per fare il loro periodo di postdottorato. Anche se da quest’anno la situazione sta cominciando a cambiare».
L’Istituto si sta attivando per reclutare forze da questo esodo scientifico. Ma come fare per convincere i giovani che hanno conseguito il dottorato e che si trovano in America a tornare indietro? La domanda provocò una discussione generale. Jing affermò: «Dobbiamo dare loro dei finanziamenti e garantire loro la libertà necessaria per svolgere il proprio lavoro. È molto importante. Naturalmente deve trattarsi di persone davvero valide». Il numero e la qualità delle richieste sta migliorando in modo consistente, proseguì. «Diamo loro anche degli stipendi piuttosto buoni. E oggi a Shanghai, come sapete, i prezzi delle case stanno salendo vertiginosamente. Questo fa sì che il reclutamento diventi ancora più difficile. Così cerchiamo di riconoscergli anche un rimborso per la casa».
Ma lei dice che date loro la libertà. «Bene, questa è una buona osservazione. Prima di tutto li finanziamo, diamo loro fondi per fare decollare le loro iniziative. Naturalmente devono inquadrare la loro ricerca all’interno dell’ottica dell’Istituto, ma in seguito sono liberi di scegliere quello che vogliono fare. Ma devono fare una scelta anche in funzione delle borse di studio che possono aggiudicarsi. Così devono regolare la propria ricerca in base all’importanza dei progetti correlati». Le borse di studio provengono dal Programma 97–3 attraverso la Fondazione di Scienza Naturale o l’Accademia Cinese. Per un po’ di tempo l’Accademia ha promosso il reclutamento anche mediante il Progetto dei Cento Talenti. Questo era stato concepito specificatamente per procurare ai giovani scienziati dal potenziale comprovato i fondi per lavorare come principal investigators in modo del tutto indipendente dalle gerarchie dell’Istituto.
Ma come può un nuovo gruppo sviluppare l’etica scientifica, il senso della comunità? «Tutto quello che posso dire…», Jing fece una pausa. «La cosa davvero importante è che oggi il nostro istituto sta gradualmente adottando un sistema come quello degli Stati Uniti. Questo perché molti PI stanno rientrando dagli Stati Uniti. Oggi i PI godono di una libertà piuttosto considerevole, per quanto riguarda i soldi che possono spendere, le persone che possono assumere e gli studenti che possono prendere con sé. È tutto». Tuttavia lui e i suoi colleghi, disse Jing, avevano compreso che un giovane che ha conseguito il dottorato non ha alcuna esperienza come principal investigator. Pertanto di recente si sono uniti a un gruppo di scienziati di circa sette laboratori associati, in varie università americane, che, per brevi periodi, vengono a fare visita ai PI. Inoltre, stanno cercando di studiare un modo «per trovare dei mentori per i nuovi PI. Ma non abbiamo ancora cominciato».


La caratteristica distintiva della scienza cinese di oggi e di domani può essere colta pienamente attraverso il suo stretto rapporto con le peculiari problematiche del paese, che, nella storia mondiale, sono senza precedenti per dimensione e urgenza. Non è affatto scontato che possano essere adeguatamente gestite. Nel frattempo, la Cina sta sopportando degli sforzi intollerabili: sta attraversando una trasformazione non solo economica, ma anche demografica, culturale, sociale, a una velocità folle. La scienza fa parte di questa trasformazione, divisa fra scienza di base e scienza applicata, standard internazionali e priorità domestiche, fra modernità e tradizione, fra una ricerca libera, alimentata dalla curiosità e una realtà politica difficile. Riflettendo sulla situazione della scienza cinese, Zhang Xianeng presso il Ministero della Scienza e della Tecnologia ha detto in modo pacato e semplice: «Dal mio punto di vista, la maggior parte delle vere scoperte sono scaturite dalla ricerca generata dalla curiosità. Ma per quanto riguarda questo paese, abbiamo bisogno di risolvere i nostri problemi». Non è facile promuovere nel contesto cinese i principi etici della ricerca scientifica. Si stanno facendo dei progressi: Yang Ke ha ragione a tale proposito. Ha ragione anche quando sostiene che ci vorrà tempo, forse generazioni.

Nessun commento: