Interessante e stimolante articolo di Giorgio Rimondi su Allaboutjazz Italia. Il tema è ben descritto nel titolo, Del Jazz defunto e della critica asfittica, e per la lettura integrale vi rimando al link. Riporto però alcuni stralci particolarmente significativi:
I lettori meno giovani ricorderanno il tormentone che affatica la ricezione jazzistica fin quasi dalla sua nascita, intendo il fatto per cui, nel corso della sua esistenza, questa musica è stata ripetutamente dichiarata morta. Successe alla metà degli anni quaranta, al tempo in cui i giganti del bebop ne modificarono la sintassi, ai primi sessanta, quando gli uomini del free ruppero gli argini della forma-standard, poi con Bitchess Brew e le prime contaminazioni rock, e ancora con certe esperienze elettroniche, e chissà quante altre volte ancora. Succede poi di regola quando scompare un grande interprete. È stato così con Charlie Parker, John Coltrane e anche Duke Ellington: "Il jazz è morto!" si affrettano a gridare i necrofili. E questa triste passione pare non esaurirsi mai.
Ma in realtà è fin troppo facile rovesciare l'accusa: ogni musica, a iniziare da quella rock, corre questo pericolo, ogni musica può cioè morire ogniqualvolta i suoi interpreti si accomodano negli spazi del previsto e del prevedibile, ogniqualvolta recitano una parte che sanno (e sappiamo) a memoria. Ragione per cui non credo si possa parlare di una musica "morta" da opporre a una musica "viva," ma semmai di musicisti che riescono o non riescono a far vivere la musica che amano. Perché resta fuori di dubbio che la amano.
L'impressione, almeno la mia impressione, è che questa vera o presunta morte non sia e non sia mai stata un problema dei musicisti, ma semmai dei critici. E sarò ancora più esplicito: soprattutto dei critici bianchi. Chi abbia presente come si esprimono i musicisti, da Lester Bowie a Cecil Taylor, da Louis Armstrong a Duke Ellington, faticherà a trovare nelle loro dichiarazioni qualcosa che autorizzi a immaginare la morte del jazz.
Si pensi poi alla critica jazzistica afroarnericana, sia quella più giovane e di cui fanno parte autori come Robert G. O'Meally, Farah Jasmine Griffin, Stanley Crouch, sia quella ormai storica rappresentata da personaggi, pur così lontani fra loro, come Amiri Baraka e Ralph Ellison, A.B. Spellman e Albert Murray. Sia per gli uni che per gli altri la presunta morte del jazz non è in questione per il semplice motivo che il jazz non si evolve affatto in un senso lineare e progressivo, andando cioè da un'"origine" verso una "fine," come troppo spesso siamo portati a credere; anzi, non è nemmeno detto che si evolva. E se la vicenda jazzistica si distende in un arco temporale, questa non autorizza nessuno a pensarla nei termini evolutivi di un "prima" o un "dopo": il tempo jazzistico, anche in senso strettamente musicale, è diverso da quello dell'orologio, è fatto di continui ritorni e riprese, così come la sua vicenda non è "storica" nel senso che noi attribuiamo a questa termine, dove a una causa fa seguito un effetto, ma semmai ricorsiva.
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