"La Cina sta cercando un paese che possa fare da ponte tra noi ed i Paesi dell'Unione Europea", ha dichiarato il ministro del commercio cinese Chen Deming al ministro dell'economia della Bulgaria Traicho Traikov, nel corso dello Shangai Expo a luglio.
Sembra proprio che la Bulgaria possa rappresentare questo tipo di paese: dopo l'accentuarsi della crisi in Europa orientale e le delusioni che i Paesi un tempo inseriti nel blocco sovietico hanno provato nel rapporto con l'Ovest, sembra che l'attenzione verso la Cina stia crescendo e dando buoni frutti alla politica espansiva della Repubblica Popolare, che sembra fra l'altro immune dai problemi finanziari che affiggono l'Occidente.
Grandi aziende cinesi come Huwaei e ZTE stanno aggiornando le reti di telecomunicazione bulgare. Great Wall, un'importante azienda automobilistica cinese, ha appena finito di realizzare una fabbrica di auto del valore di 112 milioni di dollari nel nord-est del Paese. Insigma Technology, un'altra azienda cinese, questa volta del settore impiantistico, ha appena sottoscritto un contratto per la desolforizzazione nel più grande impianto petrolifero della Bulgaria, il Maritsa Est 2.
Ma anche altri Paesi dell'Est europeo stabiliscono legami industriali importanti con la Cina: in Romania, alcune aziende cinesi stanno negoziando la costruzione di due impianti di produzione di energia. In Polonia la Cina ha realizzato in tre anni investimenti per 70 milioni di euro e punta a raggiungere i 500 milioni quest'anno. In Ungheria, il governo sta finanziando corsi di lingua per imprenditori cinesi, per incrementare le relazioni economiche fra i due Paesi.
La miglior conferma della serietà dell'impegno profuso dalla Repubblica Popolare Cinese nell'Europa dell'Est è data dal disagio che la Germania sta dimostrando davanti a questa strategia. Lo scorso mese, il Comitato per le Relazioni Economiche con l'Europa Orientale, espressione degli ambienti industriali tedeschi, ha pubblicato un rapporto nel quale la politica cinese viene giudicata assai più dipendente da interessi geopolitici che da criteri economici. Nello studio si stigmatizza "il dumping dei prezzi, la finanza aggressiva e le generose coperture dei rischi" offerte dal governo di Pechino alle proprie aziende per scalzare le posizioni dei rivali europei in quei mercati, citando il caso di progetti cinesi che in Polonia e in Serbia hanno prevalso sugli occidentali grazie ad offerte al ribasso sostenute da crediti alle imprese cinesi garantiti dallo Stato.
Zhang Zuqian, ricercatore della Chinese Association for European Studies, ricorda però che "l'Occidente ha sempre considerato questa parte dell'Europa come il premio per aver vinto la Guerra Fredda". "Ma - aggiunge - la guerra è finita e non è più una sua riserva di caccia esclusiva. In genere sono le aziende europee carenti sul piano della competitività a lamentarsi dei buoni affari della Cina e ad invocare la teoria della minaccia cinese".
di Andrea Bartoletti
Fonte: Clarissa
Cina: la superpotenza dell'energia (dal blog Campo Antimperialista).
L'articolo che segue - uscito su Asia Times - sviluppa alcune ipotesi sul futuro dei rapporti tra Usa e Cina, visti attraverso le scelte e le esigenze energetiche di Pechino. Non tutte le tesi dell'autore, ad esempio quelle concernenti l'Arabia Saudita, ci paiono convincenti. Tuttavia il tema proposto rimane del massimo interesse. Buona lettura. Se volete sapere da quale parte tira il vento globale (oppure da quale parte splende il sole, o brucia il carbone), guardate la Cina. Queste sono le notizie sul nostro futuro energetico e sulle politiche delle grandi potenze della Terra. Washington sta già guardando - con ansia. Poche volte è capitato che una semplice conferenza stampa abbia detto di più sui cambiamenti di potere su scala globale che si stanno verificando nel nostro pianeta. Il 20 luglio, l’economista capo dell’Agenzia Internazione dell’Energia (IEA), Faith Birol, ha dichiarato al Wall Street Journal che la Cina ha sorpassato gli Stati Uniti diventando il primo consumatore d’energia al mondo. Si può leggere questo sviluppo in diversi modi: come evidenza del continuo sviluppo della potenza industriale cinese, del protrarsi della recessione negli Stati Uniti, della crescente popolarità delle automobili in Cina, e perfino della maggiore efficienza energetica dell’America in confronto alla Cina. Tutte queste osservazioni sono valide, ma non prendono in considerazione il punto centrale: diventando il primo consumatore d’energia del mondo, la Cina sarà sempre di più una figura di grande peso internazionale, facendo da battistrada nel modellare il futuro del pianeta. Poiché le risorse energetiche sono legate a così tanti aspetti dell’economia mondiale, e poiché crescono i dubbi sulla futura disponibilità di petrolio e altri combustibili di vitale importanza, le decisioni prese dalla Cina riguardo il suo pacchetto energetico avranno conseguenze di lunga portata. Nel ruolo di attore principale sul mercato energetico globale, la Cina determinerà in maniera significativa non solo i prezzi che pagheremo tutti per i combustibili importanti, ma anche il tipo di sistemi energetici su cui faremo affidamento. Ancor più importante, saranno le decisioni cinesi in materia d’energia a determinare un’eventuale conflitto con gli Stati Uniti sul greggio importato e se mai il mondo sfuggirà ad un cambiamento climatico catastrofico. Come raggiungere il primato mondiale Non si può apprezzare veramente l’importanza dell’appena raggiunta prominenza energetica se non guardiamo prima da vicino il ruolo dell’energia nella strada verso il primato mondiale dell’America. La regione a nordest dei giovani Stati Uniti era molto ricca di energia idraulica e di giacimenti di carbone e fu d’importanza chiave per la prima industrializzazione così come per la vittoria finale del Nord nella Guerra di Secessione. Tuttavia l’evento chiave che avrebbe fatto degli Stati Uniti il primo attore sulla scena internazionale fu la scoperta del petrolio ad ovest della Pennsylvania, nel 1859. La trivellazione e le esportazioni generarono la prosperità americana agli inizi del XX secolo - un’epoca in cui il Paese era il primo produttore mondiale - nutrendo allo stesso tempo l’ascesa delle sue immense corporazioni. Non bisogna dimenticare che la prima grande azienda multinazionale - la Standard Oil di John D. Rockefeller - venne fondata sullo sfruttamento e l’esportazione del petrolio americano. Le leggi antimonopolio degli Stati Uniti la divideranno nel 1911, ma due delle sue compagnie figlie, la Standard Oil di New York e la Standard Oil del New Jersey si unirono successivamente creando quella che oggi è l’azienda maggiormente quotata e scambiata in borsa, l’ExxonMobil. Un’altra azienda figlia, la Standard Oil della California, divenne la Chevron - oggi, la terza azienda americana più ricca. Il petrolio ebbe anche un ruolo fondamentale nell’ascesa degli Stati Uniti nel ruolo di prima potenza militare al mondo. Questo Paese fornì la maggior parte del petrolio usato dagli alleati nelle due guerre mondiali. Tra le grandi potenze dell’epoca, solo gli Stati Uniti avevano l’autosufficienza petrolifera, il che volle dire che erano in grado di schierare grandi eserciti in Europa e in Asia ed essere in grado di soverchiare le ben equipaggiate (ma affamate di petrolio) armate tedesche e giapponesi. Al di là dei Franklin D. Roosevelt e degli architetti della vittoria americana nella II Guerra Mondiale, oggi in pochi si rendono contro che è stata la maggiore disponibilità di petrolio ad essere decisiva e non la bomba atomica. Avendo creato un’economia e un establishment militare basato sul petrolio, i leader americani si sono sentiti obbligati ad adottare misure sempre più complesse e costose per assicurare ad entrambi un’adeguata fornitura energetica. Dopo la II Guerra Mondiale, con le scorte domestiche che già allora cominciavano a scendere, una serie di presidenti americani modellarono una strategia globale basata sull’assicurare agli Stati Uniti l’accesso al petrolio straniero. Per iniziare, l’Arabia Saudita e gli altri regni del Golfo Persico furono scelti come “stazioni di rifornimento” estere per le raffinerie americane e per le forze armate. Le compagnie del petrolio americane, soprattutto le figlie della Standard Oil, furono complici nello stabilire una presenza massiccia in quelle nazioni. In effetti una buona parte dei pronunciamenti strategici del dopoguerra - la dottrina Truman, la dottrina Eisenhower, la dottrina Nixon e soprattutto la dottrina Carter - furono legati alla protezione di queste “stazioni di rifornimento”. Anche oggi, il petrolio gioca un ruolo fondamentale nei piani globali e nelle mosse di Washington. Il Dipartimento di Stato, ad esempio, mantiene ancora un'ampia, complessa e costosa rete di strutture militari profondamente trincerate nel Golfo Persico per assicurare la “sicurezza” e “garantire” le esportazioni di petrolio dalla regione. Ha esteso inoltre il suo raggio d’azione militare fino a quelle importanti regioni produttrici di greggio come il Caucaso e l’Africa Occidentale. La necessità di mantenere rapporti d’amicizia e anche militari con i fornitori più importanti come il Kuwait, la Nigeria e l’Arabia Saudita continua a dominare la politica estera degli USA. Allo stesso modo, in un mondo sempre più caldo, il crescente interesse americano per un Polo Nord che si sta sciogliendo è alimentato dal desiderio di sfruttare le risorse vergini di idrocarburi presenti nella regione polare. Pianeta carbone? Il fatto che la Cina abbia superato gli Stati Uniti nel ruolo di primo consumatore d’energia è destinato a modificare radicalmente le sue politiche globali, così come il predominio energetico lo fece per l’America. Senza dubbio questo, a sua volta, modificherà il corso dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, senza dimenticare gli avvenimenti mondiali. Tenendo presente l’esperienza americana, cosa ci dobbiamo aspettare dalla Cina? Per iniziare, nessuno tra coloro che leggono le pagine economiche sui giornali dubitano che i leader cinesi considerino che le risorse energetiche siano una delle loro preoccupazioni principali - se non la più importante - per il Paese e hanno impegnato ingenti risorse e pianificazione per assicurarsi le forniture future. Nell’occuparsi di questo, questi leader affrontano due sfide fondamentali: assicurarsi l’energia sufficiente per venire incontro alla domanda sempre crescente e decidere su quali combustibili fare affidamento per soddisfare queste richieste. Le risposte a questi interrogativi da parte della Cina avranno forti conseguenze sulla scena globale. Secondo le più recenti proiezioni fatte dal Dipartimento per l’Energia americano (DoE), il consumo energetico cinese crescerà del 133% tra il 2007 e il 2035 - vale a dire da 78 biliardi di BTU (NdelT: British Thermal Unit, 1 BTU è pari a circa 1,055 kilojoule) per salire fino 182 biliardi di BTU. Pensatelo in questo modo: i 104 biliardi di BTU che dovranno essere aggiunti in qualche modo alla sua fornitura energetica nei prossimi 25 anni sono equivalenti al consumo totale d’energia dell’Europa e del Vicino Oriente nel 2007. Trovare e incanalare così tanto petrolio, gas naturale e altri combustibili fino alla Cina sarà senz’altro la più grande sfida economica e industriale affrontata da Pechino - e in quella sfida sono presenti le possibilità di scontri e conflitti veri. Anche se la maggior parte dei fondi per l’energia vengono spesi internamente, quello che viene speso nell’importazione di combustibili (petrolio, carbone, gas naturale e uranio) e l’attrezzatura energetica (raffinerie, centrali elettriche e reattori nucleari) determineranno in maniera significativa il prezzo mondiale di questi prodotti - un ruolo che, fino ad oggi, è stato assunto dagli Stati Uniti. Tuttavia, è più importante la decisione che prenderà la Cina al momento di scegliere il tipo di fonte energetica sul quale farà affidamento. Se i leader cinesi dovessero seguire le loro propensioni naturali, senza dubbio eviterebbero di fare affidamento sui combustibili importati, sapendo quanto vulnerabile può rendere una nazione l’interruzione delle forniture dall’estero, o nel caso della Cina, pensando ad un ipotetico blocco navale da parte degli Stati Uniti (se mai si dovesse verificare un conflitto prolungato su Taiwan). Li Junfeng, funzionario d’altro rango nel settore energetico, è stato citato recentemente dicendo: “Le fonti d’energia si dovrebbero trovare nel posto dove pianti i piedi” - cioè, da fonti interne. La Cina possiede in abbondanza una fonte energetica: il carbone. Secondo le più recenti proiezioni del Dipartimento per l’Energia americano, il carbone coprirà circa il 62 % del fabbisogno netto d’energia nel 2035, poco al di sotto del livello attuale. Una forte dipendenza dal carbone, tuttavia, inasprirà i problemi d’inquinamento del Paese, trascinando giù l’economia con l’aumento dei costi sanitari. Inoltre, grazie al carbone, ora la Cina è il maggiore produttore al mondo di anidride carbonica, sostanza in grado di modificare il clima. Secondo il Department of Energy, la quota d’emissioni cinesi di anidride carbonica sul totale mondiale salirà dal 19,6 % del 2005, quando si trovava appena sotto gli USA al 21,1 %, per arrivare al 31,4 % nel 2035, quando supererà le emissioni nette di tutti gli altri Paesi. Finché Pechino si rifiuterà di ridurre in maniera significativa la sua dipendenza dal carbone, ignorate la sua retorica a proposito del riscaldamento globale. Sostanzialmente non sarà in grado di fare dei passi veramente credibili nell’affrontare il cambiamento climatico. In questo modo, inoltre, modificherà la faccia del pianeta. Ultimamente i capi della nazione sembra siano diventati più sensibili nei confronti del rischio di un’eccessiva dipendenza dal carbone. C’è una forte enfasi sullo sviluppo delle energie rinnovabili, soprattutto l’eolico e il solare. La Cina è oramai diventata il primo produttore al mondo di turbine a vento e di pannelli solari, e ha iniziato a esportare la sua tecnologia in America. (In effetti, alcuni economisti e sindacati, sostengono che la Cina sussidi in maniera iniqua le esportazioni di prodotti del comparto rinnovabili, in violazione delle regole dell’OMC). La rinnovata attenzione da parte della Cina nei confronti dell’energie rinnovabili sarebbe una buona notizia se ciò causasse una sostanziale riduzione dell’uso di carbone. Allo stesso modo, la spinta del Paese verso l’eccellenza in questa tecnologia potrebbe collocarlo all’avanguardia di una rivoluzione tecnologica, seguendo l’esempio del dominio americano sulla tecnologia del petrolio che portò quel Paese ad occupare un ruolo fondamentale tra le potenze mondiali del XX secolo. Se gli Stati Uniti non riescono a stare al passo della Cina, il suo passo verso il declino come potenza mondiale sarebbe più veloce. Di chi sono i sauditi? La sete d’energia cinese potrebbe portarla abbastanza velocemente verso lo scontro e il conflitto con gli Stati Uniti, soprattutto nella competizione globale per le sempre più scarse fonti di petrolio. Mentre la quantità d’energia richiesta dalla Cina continua a salire, la Cina usa sempre più petrolio, il che potrebbe portarla ad un maggiore coinvolgimento politico, economico e un giorno forse perfino militare nelle regioni produttrici di petrolio - zone a lungo considerate da Washington come una riserva privata d’energia per gli Stati Uniti all’estero. Soltanto nel 1995, la Cina consumava solo approssimativamente 3,4 milioni di barili di petrolio al giorno - un quinto circa del totale usato dagli Stati Uniti, il primo consumatore al mondo, e due terzi della quantità bruciata dal Giappone, allora al secondo posto. Sin da allora la Cina ha pompato 2,9 milioni di barili al giorni dai propri giacimenti quell’anno, essendo la quantità importata di appena 500.000 barili al giorno quando all’epoca gli USA importavano 9,4 milioni di barili e il Giappone 5,3 milioni. Nel 2009, la Cina era al secondo posto con 8,6 milioni di barili al giorno, ancora al di sotto dei 18,7 milioni di barili degli Stati Uniti. Producendo soltanto 2,8 milioni di barili al giorno, tuttavia, la produzione interna non era in grado di star dietro al consumo - lo stesso problema affrontato dagli USA durante la Guerra Fredda. La Cina importava ormai 4,8 milioni di barili al giorni, molti di più del Giappone (il quale in realtà aveva ridotto la sua dipendenza dal petrolio) e quasi la metà del totale importato dagli americani. Nei decenni a venire, è sicuro che queste cifre andranno peggiorando. Secondo il Department of Energy, la Cina sorpasserà gli USA come primo importatore mondiale di petrolio, con circa 10,6 milioni di barili al giorno, intorno al 2030. (Alcuni esperti sono convinti che lo spostamento potrebbe succedere molto prima). Qualsiasi sia l’anno, i leader cinesi sono coinvolti nello stesso “ginepraio” di potere affrontato in passato dalle loro controparti in America, dipendenti come sono da una sostanza vitale che può essere acquistata soltanto da una manciata di produttori poco affidabili presenti aree in perenne crisi e conflitto. Attualmente, la Cina ottiene la maggior parte del proprio fabbisogno di petrolio da Arabia Saudita, Iran, Angola, Oman, Sudan, Kuwait, Russia, Kazakhstan, Libia e Venezuela. Desiderosa di garantire l’affidabilità del flusso di petrolio da questi Paesi, la Cina ha stabilito legami stretti con i loro leader, in alcuni casi fornendo loro cospicui aiuti economici e in campo militare. E’ esattamente la stessa strada intrapresa in passato dagli USA - e con alcuni degli stessi Paesi. Le aziende energetiche di proprietà statale hanno anche fatto “alleanze strategiche” con le loro controparti in questi Paesi e in alcuni casi hanno acquisito il diritto di trivellare aree in cui si trovano importanti giacimenti. Desta particolare attenzione il modo in cui Pechino tenta di ridurre l’influenza americana in Arabia Saudita e presso altri produttori di petrolio del Golfo Persico. Nel 2009, la Cina per la prima volta ha importato più petrolio saudita degli Stati Uniti, un cambiamento geopolitico di grande importanza, conoscendo la storia dei rapporti America - Arabia Saudita. Anche se non è in grado di competere con Washington per quanto riguarda gli aiuti militari, Pechino ha spedito i suoi leader di maggior rilievo a corteggiare Riyadh, promettendo sostegno alle aspirazioni dei sauditi senza far ricorso alla retorica dei diritti umani e pro-democrazia che di solito viene associata alla politica estera americana. Molte di queste affermazioni sembra siano perfino troppo note. Dopo tutto, gli Stati Uniti in passato cercarono di ingraziarsi i sauditi in modo similare quando Washington iniziò a concepire questo regno come la sua pompa di benzina d’oltremare e lo fece diventare un suo protettorato militare. Nel 1945, mentre la II Guerra Mondiale era ancora in corso, il Presidente Roosevelt fece un viaggio speciale per incontrare il Re dell’Arabia Saudita Abdul Aziz e stipulare un accordo petrolifero in cambio di protezione che resta in vigore fino ai nostri giorni. Non sorprende che i leader americani non abbiano visto (o non siano interessati a riconoscere) l’analogia; invece, i funzionari di più alto rango guardano di traverso il modo in cui la Cina si comporta da bracconiere all’interno del territorio americano in Arabia Saudita e altre nazioni petrolifere, giudicando tali mosse antagonistiche. Mentre aumenta la dipendenza cinese da fornitori esteri, è probabile che la Cina galvanizzi i suoi legami con i leader di questi Paesi, creando ulteriori tensioni sulla scena politica internazionale. La riluttanza cinese all’ora di mettere a repentaglio i legami energetici di vitale importanza con l’Iran ha già frustrato gli sforzi americani atti a imporre nuove sanzioni economiche su quella nazione per costringerla ad abbandonare le sue attività di arricchimento dell’uranio. Allo stesso modo, il recente prestito di 20 miliardi di dollari all’industria petrolifera venezuelana ha rafforzato lo status del Presidente Hugo Chavez proprio in questo periodo segnato da un calo della sua popolarità a livello domestico e quindi della sua capacità di contrastare le politiche degli Stati Uniti. I cinesi hanno anche mantenuto legami d’amicizia con il Presidente Omar Hassan Ahmad al-Bashir del Sudan, malgrado gli sforzi degli americani che mirano a dipingerlo come un paria internazionale per via del suo presunto ruolo di organizzatore dei massacri nel Darfur. La diplomazia delle armi in cambio di petrolio in un pianeta pericoloso Gli sforzi dei cinesi tesi a migliorare i propri legami con i fornitori di petrolio stranieri hanno già prodotto tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti. C’è il rischio di un conflitto sino - americano ben più serio ora che stiamo entrando nell’era del “petrolio difficile” e le scorte mondiali di petrolio facilmente raggiungibile vanno ad esaurirsi rapidamente. Secondo fonti del Dipartimento per l’Energia americano, le scorte mondiali di petrolio e altri liquidi petroliferi nel 2035 saranno pari a 110,6 milioni di barili al giorno - precisamente ciò che basta per coprire la domanda mondiale prevista per quell’anno. Molti geologi credono, tuttavia, che la produzione mondiale raggiungerà il picco massimo di produzione ben al di sotto dei 100 milioni di barili al giorno entro il 2015 e comincerà successivamente a diminuire. Inoltre, il petrolio che resta sarà trovato sempre di più in posti di difficile accesso oppure in regioni altamente instabili. Se queste previsioni si riveleranno corrette, gli Stati Uniti e la Cina - i primi due importatori di petrolio al mondo - potrebbero restare intrappolati in una contesa a somma zero tra grandi potenze per l’accesso alle scorte di petrolio esportabile in continuo calo. E’ certamente impossibile predire cosa succederebbe in uno scenario simile, soprattutto da quando le possibilità di un conflitto abbondano. Se entrambi i Paesi continuano sulla strada attuale - armando i propri fornitori preferiti in un tentativo disperato di assicurarsi un vantaggio a lungo termine - gli stati petroliferi fortemente armati potrebbero diventare sempre più paurosi oppure più avidi nei confronti dei loro vicini (anch’essi ben equipaggiati). Con un numero sempre crescente di consiglieri militari e istruttori inviati da Cina e Stati Uniti in quei Paesi, lo scenario potrebbe essere pronto perché entrambe queste nazioni restino coinvolte in guerre locali e conflitti di confini. Né Pechino né Washingotn cercano attivamente questo coinvolgimento, ma la logica della diplomazia delle armi in cambio di petrolio fa di questo un rischio inevitabile. Non è difficile, quindi, immaginare un momento nel futuro in cui gli Stati Uniti e la Cina saranno bloccati in un conflitto mondiale sulle rimanenti scorte di petrolio. E’ un fatto che molti nella Washington ufficiale siano convinti dell’inevitabilità di uno scontro del genere. “Gli interessi a breve termine della Cina l’hanno portata a preparasi per qualsiasi imprevisto nello Stretto di Taiwan...è un importante motore della sua modernizzazione [militare]” come notato dal Dipartimento della Difesa americano nell’edizione 2008 della sua relazione annuale, “Il potere militare della Repubblica Popolare Cinese”. “Tuttavia, un esame delle acquisizioni militari cinesi e del suo pensiero strategico suggerisce che Pechino stia anche sviluppando risorse da usare in altre eventualità, come ad esempio per un conflitto sulle risorse...” Tuttavia, uno scontro sulle scorte mondiali di petrolio non è l’unica strada che potrebbe aprire il nuovo status energetico della Cina. E’ possibile immaginare un futuro in cui Cina e Stati Uniti cooperino nel perseguire alternative al petrolio che potrebbero ovviare alla necessità di convogliare grosse somme di denaro in una corsa al riarmo dell’esercito e della marina. Il Presidente Barack Obama e la sua controparte cinese, Hu Jintao, sembra abbiano intravisto una simile possibilità lo scorso novembre quando si sono accordati durante un vertice a Pechino per collaborare allo sviluppo di mezzi di trasporto e di combustibili alternativi. A questo punto, soltanto una cosa è chiara: quanto maggiore sarà la dipendenza cinese dal petrolio importato, tanto maggiore il rischio di scontri e di attrito con gli Stati Uniti, il quale dipende dagli stessi e sempre più problematici fornitori di risorse energetiche. Quanto maggiore sia la dipendenza dal carbone, tanto minore sarà il nostro benessere in questo pianeta. Quanto maggiore sia l’enfasi sui combustibili alternativi, tanto più probabile sarà il dominio cinese nel XXI secolo. A questo punto resta a noi ignoto il modo in cui la Cina sceglierà di approvvigionarsi d’energia dalle diverse fonti a disposizione. Qualsiasi siano le scelte della Cina, tuttavia, le sue decisioni in materia d’energia scuoteranno il mondo. *Michael T Klare è professore di pace e studi sulla sicurezza mondiale presso il Hampshire College. Inoltre ha recentemente pubblicato Rising Powers, Shrinking Planet. Il suo libro precedente, Blood and Oil, è stato portato sullo schermo come documentario ed è disponibile su www.bloodandoilmovie.com Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di NIKLAUS47 |
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