C’è uno strano misto di disattenzione e compiacenza attorno a quanto sta accadendo a WikiLeaks e ai suoi protagonisti. Julian Assange, il fondatore del sito di leaking digitale, è agli arresti domiciliari da più di 200 giorni. Spiato da diverse telecamere, con un braccialetto elettronico che lo geolocalizza in qualsiasi momento e impossibilitato ad allontanarsi per più di qualche ora dalla residenza di Ellingham Hall che lo ospita, è di fatto fuori dai giochi. Bradley Manning, l’analista dell’intelligence Usa che avrebbe consegnato a WikiLeaks il materiale più scottante (i documenti su Afghanistan e Iraq, il video poi chiamato Collateral Murder e i 250 mila cablo della diplomazia statunitense), dopo svariati mesi in un disumano isolamento a Quantico, in Virginia, è stato trasferito a Fort Leavenworth in condizioni meno restrittive. Ma è pur sempre in carcere nonostante uno stato psico-fisico tutt’altro che rassicurante.
Per nessuno dei due è stata ancora emessa alcuna condanna. Assange attende il verdetto, rimandato di qualche settimana dai giudici dell’Alta corte, che stabilirà il suo dover essere estradato o meno in Svezia per rispondere alle accuse a sfondo sessuale, peraltro alquanto singolari, a lui mosse da due donne. Per Manning, invece, il processo deve ancora iniziare. Si parla di dicembre, di fronte alla Corte marziale. Eppure, come detto, entrambi hanno patito restrizioni della propria libertà non consone a Stati democratici come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Quando si è scoperto che il primo era spiato dall’occhio di più telecamere, giorno e notte, le autorità si sono limitate a commentare che non ne sapevano niente. Silenzio anche quando inchieste giornalistiche e, finalmente, la pubblicazione integrale della chat con l’ex hacker Adrian Lamo (il principale atto d’accusa nei suoi confronti), hanno svelato che il secondo, Manning, non avrebbe dovuto nemmeno essere arruolato a causa della sua fragilità psicologica. Una condizione che emerge con straziante chiarezza dalla sua confessione a Lamo, in particolare dai dettagli che Wired aveva deciso di tralasciare.
Silenzio e disinteresse. Come per il blocco dei finanziamenti a WikiLeaks, che perdura ormai da oltre sei mesi. Per un attimo, dopo la denuncia sul sito dell’organizzazione e il video-parodia di MasterCard in cui Assange quantifica in 15 milioni di dollari il danno subito, era sembrato che le donazioni avrebbero potuto riprendere. Invece niente: tutto bloccato di nuovo. Merito di una decisione stranamente tempestiva e concertata. Tutti i servizi di pagamento di cui WikiLeaks usufruiva si sono infatti resi conto che il sito violava i loro termini di utilizzo proprio in concomitanza con lo scoppio del Cablegate, a dicembre 2010. E tutti lo hanno fatto proprio quando il governo statunitense si è espresso chiaramente per il blocco finanziario. Che importa che il Ku Kux Klan o simili possa ancora oggi tranquillamente usufruire del servizio: l’importante è impedire il funzionamento di WikiLeaks.
Beh, in parte sembra che il progetto sia riuscito. Da mesi l’organizzazione non può ricevere alcun documento tramite il sistema di upload del sito. Dei documenti su Bank of America, ripetutamente annunciati e temuti al punto che la stessa banca aveva cercato di imbastire strategie per oscurare WikiLeaks, Assange si è limitato ad affermare, nel recente incontro con il filosofo sloveno Slavoj Žižek, che sono insorte complicazioni. O meglio, che WikiLeaks «è stata ricattata». Impossibile sapere come e da chi, o anche solo se corrisponda a verità. I cablo continuano a uscire su svariate testate locali, è vero, e la loro eco è ancora forte, ma si tratta di documenti ottenuti prima delle vicende giudiziarie e della tenaglia finanziaria.
Nel frattempo la Corte federale di Alexandria sta raccogliendo testimonianze in vista del processo di Manning. Secondo David House, uno dei principali attivisti e membri del network di supporter del giovane, è in atto un disperato tentativo di collegare la vicenda ad Assange. E qui si entra nel campo delle ipotesi. Che, tuttavia, sono sinistre. Alcuni giornalisti, attivisti e sostenitori di WikiLeaks, oltre che lo stesso Assange, sono certi che il caso svedese sia parte di una manovra richiesta specificamente degli Stati Uniti per tenere sotto controllo Julian nel tempo necessario a costruire una incriminazione per spionaggio nei suoi confronti. Per ora non ci sono elementi che facciano ritenere che le cose stiano a questo modo. Anzi, diversi legali hanno sottolineato che se il fine degli States fosse l’estradizione in suolo americano allora sarebbe stata più semplice una richiesta diretta alla giustizia britannica, senza il passaggio in Svezia.
Eppure non serve sposare la teoria del complotto politico contro Assange per sottolineare che quanto sta accadendo è una vergogna. È una vergogna perché un’organizzazione che ha pubblicato una straordinaria quantità di scoop giornalistici di chiaro rilievo e beneficio pubblico è costretta al silenzio da una commistione di fango, multinazionali consenzienti e diktat governativi. È una vergogna perché quando Barack Obama si è lasciato scappare, a margine di un incontro, che Manning «ha violato la legge», troppo pochi gli hanno ricordato che perfino la giustizia militare prevede (e diverse sentenze lo testimoniano) l’innocenza fino a prova contraria. Ed è una vergogna perché, ancora una volta, per chi si fa veicolo di verità scomode diviene lecito violare i più elementari diritti umani e civili. Nell’indifferenza anche di tanti giornalisti che, invece di denunciare chiaramente tali violazioni, hanno preferito esasperare vizi e storture caratteriali per un pugno di lettori in più. Trasformare una questione di libertà in una di bottega. Fornire un precedente a chi, perfino nel 2011, perfino contro la storia, ritiene che l’opacità debba prevalere sulla trasparenza. E poi, passata la sbornia, sia il caso di dimenticare.
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