18 marzo 2007

L’Asia: uno spazio da circoscrivere


Di Tania Groppi

Se si guarda all’Asia dal punto di vista del diritto, e di quel particolare ramo del diritto che è il diritto costituzionale, non si può che far propria l’affermazione resa una volta da un Ministro dell’industria e del commercio estero giapponese: “Asia is only a geographical word. Asian nations share nothing in common”. Oppure quella, ancora più netta, del geografo Pierre Gourou: “L’Asie n’existe pas”.
Su un territorio vastissimo, su cui vive più del sessanta per cento della popolazione mondiale, che dallo stretto dei Dardanelli si spinge fino a quello di Bering, e dal gelo della Siberia sfiora le coste australiane, non è dato rintracciare né una tradizione giuridica comune, né, più genericamente, una tradizione culturale condivisa. Civil law e common law, diritto islamico ed ebraico, si accompagnano a ebraismo, Islam, scintoismo, buddismo, induismo, confucianesimo, cattolicesimo...Né la storia ha contribuito a stendere, sulle eventuali differenze originarie, un velo di uniformità, diversamente da ciò che, invece, è avvenuto in gran parte dell’Africa, attraverso il colonialismo prima, la decolonizzazione poi, in quanto non tutti gli Stati asiatici sono passati attraverso il dominio coloniale (si pensi al Giappone, alla Cina, alla Tailandia o al Nepal).
Queste differenze si riflettono, prepotentemente, sul diritto costituzionale. Stati democratici si affiancano a Stati marxisti, autoritari, islamici. Costituzioni eterodirette convivono con Costituzioni octroyées o di compromesso; Costituzioni ormai stabilizzate, appartenenti al ciclo costituzionale del secondo dopoguerra, con Costituzioni recenti, riconducibili ai processi di democratizzazione avvenuti alla fine del XX secolo.
Né, a differenza di quanto è accaduto in altre parti del mondo, il diritto internazionale dei diritti umani ha contribuito a introdurre qualche elemento di omogeneità regionale che possa rendere significativa una comparazione, ad esempio, tra Stati che appartengono a una stessa organizzazione sovranazionale o abbiano sottoscritto una medesima convenzione. Come è stato evidenziato, “la tendenza verso la individuazione di standard regionali dei diritti umani, che ha prodotto la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo e la Carta africana dei diritti, ha bypassato l’Asia”.
Non si può, pertanto, che condividere l’affermazione di Amartya Sen, secondo il quale la tentazione di considerare l’Asia una unità rivela in realtà una prospettiva tipicamente eurocentrica. “Infatti l’Oriente, la direzione da cui sorge il sole, è stato il termine usato a lungo per designare l’Asia odierna. Solo una generalizzazione piuttosto audace può sommare tanti popoli in un unico gruppo, visto nella prospettiva di chi abita sulla riva europea del Bosforo”.

Il dibattito sui “valori asiatici”

Tuttavia, è difficile non rilevare che ormai da anni si svolge un prolifico dibattito sulla compatibilità dei diritti umani con non meglio precisati “valori asiatici”.
Il passo è breve. Se ci sono “valori asiatici”, deve pur esistere una nozione di “Asia”, individuabile sulla base di una comunanza di valori, ed è a tale porzione di spazio che anche il costituzionalista dovrebbe rivolgere la propria attenzione, al fine di verificare quale traduzione tali valori abbiano avuto – e se l’abbiano avuta – in termini di diritto positivo, nell’ambito delle Carte costituzionali.
Il dibattito sui “valori asiatici” va però affrontato con cautela. Esso infatti ha costituito uno degli strumenti, se non il principale, attraverso il quale alcuni regimi autoritari hanno cercato di giustificare la violazione sistematica o, comunque, la negazione dei diritti umani.
L’espressione “valori asiatici”, coniata alla fine degli anni ottanta, è stata attribuita all’allora primo ministro di Singapore, Lee Kuan Yew, ed è stata poi adottata, soprattutto nel corso degli anni novanta, da altri leader politici asiatici, con in testa il primo ministro malese Mahathir. La si rintraccia con una frequenza assai minore nel periodo successivo alla crisi economico-finanziaria del 1997, quando sembra perdere gran parte della sua attrattiva; ciò che evidenzia ancor più il legame tra il dibattito sui valori asiatici e quella fase di “sviluppo economico senza democrazia” che ha caratterizzato l’Asia orientale negli anni ottanta e novanta, contribuendo a mettere in crisi un assunto assai diffuso, ovvero l’idea che esista una “corrispondenza strutturale” tra lo sviluppo, sul piano economico, del mercato capitalistico, e l’affermazione, sul piano politico, della democrazia liberale.
Il richiamo ai valori asiatici si sostanzia in una forma di relativismo che porta a mettere in discussione l’universalità dei diritti umani. L’universalismo, si dice, è il risultato di una forma di omogeneizzazione culturale che cela l’egemonia del mondo occidentale. I diritti umani debbono invece essere interpretati e applicati in modo diverso nelle diverse aree del mondo, sulla base dell’epoca, della cultura, della situazione economica. La tradizione asiatica, in particolare, sarebbe incompatibile con i diritti umani di stampo occidentale, fondati sull’individualismo. L’organicismo della tradizione asiatica privilegia i doveri degli individui nei confronti della collettività rispetto ai loro diritti e, se si può parlare di diritti, quelli collettivi rispetto a quelli individuali. In tale gerarchia, diritti collettivi di tipo sociale e culturale, come il diritto della nazione allo sviluppo economico, prevalgono sui diritti privati di libertà e su quelli di partecipazione politica. Senza contare le conseguenze che un ordinamento giuridico di taglio individualistico produrrebbe sulla coesione sociale, sostituendo il conflitto all’orientamento consensuale della cultura indigena.
Vengono elencati quali valori asiatici: “il primato degli interessi collettivi rispetto alla comunità e all’armonia sociale individuale; il rispetto degli anziani, la cura per l’ordine e la stabilità, per l’interesse della famiglia e dei parenti, della nazione e della comunità; il valore della frugalità, della parsimonia e del duro lavoro; la disponibilità a sacrificare se stessi e i propri desideri per la famiglia, il rinvio della gratificazione presente per un beneficio a lungo termine; il valore dell’impegno nell’istruzione”. Oppure: “non credere nell’individualismo occidentale; l’importanza di una famiglia forte; l’enfasi sull’istruzione; le virtù del risparmio e della frugalità; il valore del lavoro duro; il lavoro di squadra a livello nazionale; l’importanza del contratto sociale tra il popolo e lo Stato; l’importanza di un ambiente moralmente integro; la convinzione che la libertà non sia un diritto assoluto”. O, ancora, “la famiglia tradizionale come modello per la società; il rispetto delle gerarchie; il prevalere del comunitarismo sull’individualismo; il consenso in luogo della contestazione; il prevalere degli obblighi sui diritti”.
I critici di tale nozione di “valori asiatici” avanzano numerosi argomenti. Al di là della esatta identificazione dei valori medesimi, il loro fondamento religioso o culturale è del tutto opinabile: i richiami di volta in volta ai principi del confucianesimo, dell’induismo o del buddismo non operano che a un livello elevato di astrazione, considerate le molteplici differenze che separano queste religioni e le loro innumerevoli varianti. Per non dire che, comunque, rimarrebbero tagliate fuori intere aree, quali il mondo islamico (Indonesia e Malaysia comprese) o le cattoliche Filippine. E’ agevole mostrare che i “valori asiatici”, anteponendo la famiglia, la comunità, la società e la nazione all’individuo, danno la precedenza alle esigenze dello sviluppo economico rispetto ai diritti civili e politici: essi sono pertanto funzionali a un sistema di valori che pone lo sviluppo economico sopra tutto il resto e alla giustificazione di un governo burocratico e autoritario.
Il rifiuto del riconoscimento di valori pan-asiatici non può condurre però a negare completamente l’esistenza di alcuni tratti peculiari nel dibattito asiatico sui diritti umani. Tanto più che tale dibattito non si limita a dichiarazioni di leaders politici o ad articoli di dottrina, ma ha trovato una sua formalizzazione in un preciso documento politico: la c.d. “dichiarazione di Bangkok”, adottata nel 1993 dai rappresentanti di trentaquattro paesi in preparazione della Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani. Se, da un lato, tale testo può essere visto come una accettazione dei diritti umani, ivi compresa la loro universalità, dall’altro tuttavia si afferma la necessità di tenere in conto la specificità culturale, riconoscendo che: “anche se i diritti umani hanno carattere universale, debbono essere considerati nel contesto di un processo dinamico e in costante evoluzione di sviluppo normativo, tenendo bene in mente il significato delle specificità nazionali e regionali e i diversi backgrounds storici, culturali e religiosi”. La dichiarazione richiama poi, in più punti, la difesa della sovranità nazionale e il compito centrale che, anche nella difesa dei diritti umani, deve essere riservato agli Stati: affermazioni che mal si conciliano con la possibilità, lasciata intravedere nello stesso documento, di dar vita a un sistema regionale di protezione dei diritti umani.
Non si contano, prima e dopo la dichiarazione di Bangkok, le affermazioni di rappresentanti dei governi di paesi asiatici volte a ribadire la peculiarità dell’approccio asiatico ai diritti umani. Particolarmente significative sono le prese di posizione di alcuni governi asiatici nel corso della Conferenza di Vienna del 1993. La Cina, per esempio, sembra sfidare la stessa universalità dei diritti umani, in nome del relativismo: “il concetto dei diritti umani è un prodotto dello sviluppo storico. E’ strettamente legato alle specifiche condizioni sociali, politiche ed economiche, e alla storia, alla cultura e ai valori specifici di un determinato paese. Fasi diverse dello sviluppo storico comportano esigenze diverse per quanto riguarda i diritti umani. Pertanto non si può e non si deve pensare al principio e al modello dei diritti umani proprio di certi paesi come l’unico appropriato e chiedere che tutti i paesi vi si conformino. Per il folto gruppo dei paesi in via di sviluppo, rafforzare e proteggere i diritti umani significa prima di tutto garantire la piena realizzazione dei diritti alla sussistenza e allo sviluppo”.
Anche l’Indonesia, pur affermando di non voler mettere in discussione l’universalità dei diritti, richiama l’esigenza di far valere le differenze. Il rappresentante del governo indonesiano rileva che, come nei paesi in via di sviluppo si comprende e si valuta la genesi delle concezioni occidentali dei diritti, così l’occidente dovrebbe manifestare una analoga comprensione per l’origine storica e le esperienze dei paesi non occidentali, per i loro valori culturali e sociali e per le loro tradizioni. “Molti paesi in via di sviluppo...hanno maturato una diversa sensibilità basata su esperienze differenti riguardo ai rapporti tra individuo e società, tra un individuo e un altro, nonché riguardo ai diritti della collettività rispetto ai diritti individuali”.
Stati economicamente evoluti, come Singapore, giustificano la loro negazione di alcuni fondamentali diritti “occidentali” sia basandosi sul livello di sviluppo economico raggiunto, in assenza di questi diritti, che ponendosi come modelli per le società asiatiche. Appoggiandosi su ciò, il rappresentante di Singapore può affermare che “lo sviluppo e il buon governo richiedono un bilanciamento tra diritti individuali e diritti della collettività cui l’individuo appartiene, e attraverso la quale gli individui possono realizzare i propri diritti. Il punto di equilibrio varia da paese a paese, nei diversi momenti storici. Ogni paese deve trovare la sua strada. Le questioni sui diritti umani non si prestano a formule generali. Nella fase iniziale dello sviluppo di un paese, una eccessiva enfasi sui diritti individuali rispetto a quelli della collettività ritarderà lo sviluppo. Quando il paese si sviluppa, emergeranno nuovi interessi, e occorrerà trovare un modo per dare loro risposta. Il risultato può essere un sistema politico più debole, più complesso e più differenziato. Ma l’assunto che si debba necessariamente arrivare a una “democrazia”, come alcuni la chiamano, non è garantito dai fatti” .
Il dibattito sui “valori asiatici” ha conosciuto una battuta d’arresto in corrispondenza con la crisi finanziaria che, a partire dal 1997, ha attraversato molti dei paesi della regione, la Tailandia innanzitutto. Ciò nonostante, esso resta un importante punto di riferimento per qualsiasi tentativo di circoscrivere un ambito spaziale nel quale compiere uno studio, sul piano del diritto costituzionale, dei diritti umani nel continente asiatico.

I tentativi di scrivere una Carta asiatica dei diritti e il ruolo dell’ASEAN

Senza ignorare queste premesse, anzi, proprio muovendo da esse, non sono mancati negli anni i tentativi di scrivere una Carta asiatica dei diritti, portati avanti, soprattutto, da organizzazioni non governative di protezione dei diritti umani. Tentativi che si sono scontrati sia con l’opposizione di molti governi che con l’assenza di una organizzazione intergovernativa su base regionale alla quale fare riferimento per l’applicazione di una simile carta .
Sotto quest’ultimo punto di vista, la situazione è diversa a livello subregionale, in quanto nell’Asia del Sud-est esistono già da quasi quarant’anni rilevanti meccanismi di collaborazione intergovernativa, nel campo politico ed economico. Fondata nel 1967, l’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) riunisce, oltre agli Stati fondatori, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Tailandia, altri cinque Stati. Brunei Darussalam è diventato membro l’ 8 gennaio 1984, il Vietnam il 28 luglio 1995, il Laos e il Myanmar il 23 luglio 1997, e la Cambogia il 30 aprile 1999. In totale, i paesi dell’ASEAN hanno una popolazione di circa 515 milioni di abitanti.
E, in effetti, nel 1996, è stato creato un ASEAN Working Group, composto di giuristi, rappresentanti dei governi e delle ONG, di alcuni degli Stati membri dell’ASEAN (Indonesia, Malaysia, Tailandia e Filippine), finalizzato proprio a supportare la creazione di un ASEAN Human Rights Mechanism, nel cui ambito adottare anche una Carta dei diritti, dotata di propri strumenti di garanzia. Nonostante sporadiche dichiarazioni di interesse per l’attività del gruppo espresse nei vertici dei capi di Stato e di governo dell’ASEAN, nessun passo concreto è stato fatto. Varie le ragioni: la natura essenzialmente economica della collaborazione dell’ASEAN; l’ostilità, più o meno esplicita, di molti governi; la decisione di ammettere Vietnam, Cambogia, Birmania e Laos, il cui ingresso non ha certamente favorito il raggiungimento di un consenso sui diritti umani.

Oltre l’ASEAN: l’Asia orientale tra sviluppo economico e valori asiatici

L’area dell’ASEAN può ciò non di meno costituire un primo punto di partenza per andare a verificare la lettura che dei diritti umani è data a livello nazionale.
Tra l’altro, tra i paesi dell’area si situano alcuni dei più accesi sostenitori dei “valori asiatici” (in primo luogo Singapore). Ad essi occorre però aggiungere almeno altri quattro Stati dell’Asia orientale che si sono trovati, a vario titolo, coinvolti nel dibattito sui valori asiatici: Cina, Taiwan, Corea del Sud e Giappone. Se si esclude Taiwan, in ragione del suo complesso statuto internazionale, gli altri tre paesi fanno parte del gruppo noto come “ASEAN + 3”, istituito a seguito della crisi economico-finanziaria del 1997, finalizzato a realizzare, attraverso vertici intergovernativi periodici e la stipulazione di accordi, un quadro di cooperazione regionale in primo luogo di tipo economico, ma che dovrebbe in futuro svilupparsi anche nel settore politico e della sicurezza.
Un ulteriore, importante elemento di omogeneità è costituito da una crescita economica senza precedenti, che ha attraversato, sia pure in misura diversa, tutti gli Stati dell’area: paesi che negli anni 1950 e 1960 erano ancora sottosviluppati o in via di sviluppo, appaiono ormai pienamente lanciati sulla strada dell’industrializzazione. Tale aspetto è stato evidenziato dal 50° anniversario della Conferenza di Bandung: se i paesi in esame, negli anni 1950, potevano essere accomunati a quelli africani, entro la categoria degli Stati nati dalla decolonizzazione, oggi tale operazione non è più possibile, in quanto proprio lo sviluppo economico, spesso accompagnato da forme di gestione del potere non democratiche, ha contribuito a plasmare una identità distinta.
Pur nella consapevolezza della opinabilità di questo tipo di delimitazione, ci pare che tali tre elementi (culturale: partecipazione a dibattito sui valori asiatici; politico: appartenenza al gruppo “ASEAN+3”; economico: sviluppo vertiginoso in tempi rapidi) consentano di individuare un’area sufficientemente omogenea entro la quale la comparazione possa avere un qualche significato.
Che l’incertezza continui ancora a circondare la nozione di Asia orientale, o sud-orientale, i cui confini mutano in funzione del criterio scelto, economico, geografico o politico, è testimoniato da due esempi. Quando l’UNESCO, nel 1999, ha dovuto individuare le aree regionali verso le quali indirizzare risorse per la ricerca e la lotta al sottosviluppo, ha inserito nella categoria “paesi di nuova industrializzazione” Taiwan, la Corea del Sud e Singapore, mentre ha collocato gli altri paesi dell’ASEAN in una categoria dal generico nome di “Sud-est asiatico”; E, ancora, ai fini della definizione dei dispositivi di proprietà intellettuale che proteggono la nuova tecnologia DVD, il Giappone, in qualche modo “deterritorializzato”, è inserito insieme all’Europa, mentre la Cina da sola forma una zona e l’Asia del Sud-est un’altra zona, che raggruppa con i paesi dell’ASEAN anche Taiwan la Corea del sud.
Sul piano giuridico la regione presenta disomogeneità ancora più marcate. Si rintracciano qui almeno tre diversi sistemi giuridici, propri della tradizione legale asiatica, costituiti dal modello indiano (cui possono ricondursi l’esperienza birmana, taliandese, e di una parte dell’Indonesia), dal modello islamico (Malaysia e Indonesia), dal modello cinese (Vietnam, Cina, Taiwan, Laos). Tali modelli si sono poi intersecati con i sistemi giuridici delle potenze coloniali: Paesi Bassi, Regno Unito, Francia, Stati Uniti. A livello di assetti istituzionali, gli ultimi Stati comunisti del pianeta (Cina, Vietnam, Laos), un regime militare (Birmania), un governo di stampo autoritario (Singapore), una monarchia assoluta (Brunei), si affiancano a paesi che hanno vissuto processi di democratizzazione, sia pure in fasi diverse e con esiti differenti (Filippine, Tailandia, Taiwan, Corea del Sud, Indonesia, Malaysia, Cambogia) e a Stati ormai da tempo stabilmente collocati tra le democrazie occidentali (Giappone).
Così, nella seconda ondata di democratizzazione (per seguire la classificazione di Huntington), successiva alla fine della seconda guerra mondiale troviamo le costituzioni eterodirette di Giappone (1947) e Corea del sud (1948), quella di Taiwan (1946, già Costituzione della Repubblica di Cina), e quelle, frutto della decolonizzazione, di Vietnam (1946), Cambogia (1947), Malaysia (1957), Indonesia (1945), Birmania (1947), Filippine (1935), Brunei (1959), Singapore (1963). Peraltro, la seconda ondata di riflusso, negli anni sessanta, ebbe pesanti conseguenze in molti di questi paesi che, uno dopo l’altro, con la sola eccezione del Giappone, caddero in mano a regimi autoritari, compresa Taiwan, ove le forme di dissenso tollerate negli anni cinquanta dal regime, pure illiberale, del Kuomintang, vennero invece duramente represse .
La terza ondata, iniziata alla metà degli anni settanta, ha lentamente investito la regione, a partire dal ritorno alla democrazia delle Filippine (1986), della Corea del Sud (1987) e dell’Indonesia (1999).
Anche se in termini meno rilevanti di quanto non sia avvenuto in altre parti del pianeta, al punto che non è dedicata né all’Asia in generale, né all’Asia orientale in particolare, una specifica attenzione negli studi sulle transizioni costituzionali, alcuni Stati dell’area si sono dotati in questa fase, definita di “intensa produzione costituzionale” su scala planetaria, di nuove Costituzioni (Corea del Sud e Filippine 1987, Laos, 1991, Vietnam, 1992, Cambogia, 1993, Tailandia, 1997). Altri Stati hanno provveduto, in varie tappe, a realizzare revisioni costituzionali di ampia portata (Taiwan, Cina, Indonesia).
Nel complesso, è possibile individuare in tutti questi paesi – con la sola eccezione della Birmania, ove dal 1988 la giunta militare al potere ha sospeso la costituzione e governa per decreto – un testo denominato “Costituzione”, che si colloca al vertice della gerarchia delle fonti, dotato di una supremacy clause e protetto attraverso una procedura aggravata di revisione costituzionale, che contiene ad un tempo le norme fondamentali sulla organizzazione dei poteri e sulla garanzia dei diritti.
Si tratta, tuttavia, di testi che risalgono ad epoche diverse e che corrispondono a regimi politici distinti, ciò che non è privo di influenza sulle tecniche di codificazione, in particolare dei diritti fondamentali.
Possiamo distinguere: a) la Costituzione di uno Stato di democrazia stabilizzata, risalente al ciclo costituzionale del secondo dopoguerra ed elaborata a seguito di un processo di democratizzazione eterodiretto (Giappone); b) le Costituzioni di tre Stati autoritari, risalenti alla fine degli anni cinquanta (Malaysia, Singapore, Brunei); c) le Costituzioni di tre Stati socialisti (Vietnam, Laos, Cina), approvate o revisionate negli anni novanta; d) le Costituzioni adottate o profondamente modificate nel ciclo costituzionale della fine del XX secolo, come conseguenza di processi di democratizzazione (Filippine, Corea del Sud, Cambogia, Tailandia, Indonesia). A queste ultime dedicheremo particolare attenzione, in quanto si tratta delle sole che possano essere comparate con le più recenti tendenze del costituzionalismo.
L’esame delle soluzioni nazionali in materia di diritti umani, sia pure limitata alla lettura dei rispettivi testi costituzionali e con le cautele imposte dall’elevata disomogeneità delle esperienze analizzate, può consentire di verificare se le proclamazioni di principio, espresse nel dibattito sui valori asiatici, si sono tradotte in concrete tecniche di diritto positivo. A questo riguardo, appare particolarmente significativo, proprio perché, al di là delle diverse varianti e sfumature nelle quali si manifesta, il relativismo conduce alla prevalenza dei diritti collettivi sui diritti individuali, soffermarsi sulle tipologie dei diritti garantiti e sulle tecniche di limitazione e di sospensione dei diritti in nome di interessi generali. Altro aspetto da considerare è quello della posizione riconosciuta in tali ordinamenti al diritto internazionale dei diritti umani: infatti la negazione della universalità dei diritti si manifesta attraverso l’accentuazione, di volta in volta, della sovranità nazionale, delle esigenze dello sviluppo economico, di non meglio precisate tradizioni culturali.

I diritti fondamentali nelle Costituzioni dei paesi dell’Asia orientale.
Tecniche di costituzionalizzazione dei diritti

Già un primo, rapido esame delle Costituzioni dei paesi qui considerati mostra che non si tratta di documenti finalizzati primariamente alla protezione dei diritti. E ciò benché tutti i testi – con l’eccezione della Costituzione, concessa dal Sultano in nome e per grazia di Dio, del Brunei, vera e propria monarchia assoluta dei nostri giorni – contengano disposizioni relative ai diritti e libertà, sembrando collocarsi pertanto entro la tendenza alla universalizzazione dei diritti della persona che caratterizza, in modo incessante e crescente, il costituzionalismo alla fine del XX secolo.
Innanzitutto, benché quasi tutte le Costituzioni siano accompagnate da preamboli, ove si ripercorre la storia del paese e del testo costituzionale e si indicano i fondamenti ideologici e le finalità che si intendono perseguire (si vedano ad es. quelli, lunghissimi, della Costituzione della Cina o del Vietnam), ben pochi sono i riferimenti in essi contenuti ai diritti e libertà, con l’eccezione delle Costituzioni prodotte attraverso l’azione di organizzazioni internazionali, come quella della Cambogia o sulle quali più forte è stata l’influenza di Stati esteri, come quella della Corea del Sud del 1987, maturata in un contesto nazionale ma marcata da profonde influenza statunitensi.
La collocazione sistematica della disciplina dei diritti costituisce un ulteriore elemento indicatore. Nella maggior parte dei casi non ce n’è traccia tra i principi fondamentali (che contengono di solito la proclamazione della spettanza della sovranità e la definizione della forma di Stato). Eccezione è costituita dalla Costituzione della Tailandia (il cui art. 4, collocato tra le “previsioni generali” contenute nel capitolo I, stabilisce che “sono protetti la dignità umana, i diritti e la libertà degli individui”).
Non in tutte le Costituzioni la disciplina dei diritti precede quella sull’organizzazione costituzionale. Ciò non avviene nelle Costituzioni di: Cambogia, nella quale il capitolo I è dedicato alla sovranità e il II alla Monarchia; Indonesia, ove i primi nove capitoli regolano l’organizzazione dei poteri, e solo nel X si tratta dei diritti; Tailandia, dove dopo le previsioni generali del capitolo I si incontra il capitolo II sul re, e neppure in quella del Giappone, ove il capitolo I è dedicato all’Imperatore, il II alla rinuncia alla guerra e soltanto il capitolo III ai diritti e doveri. Tuttavia, anche quando esista tale collocazione prioritaria, non pare potersene ricavare alcuna indicazione sulla concezione dei diritti come situazioni giuridiche naturali preesistenti allo Stato, tanto più che in molti casi la formulazione è tale da mettere in primo piano non il diritto dell’individuo, ma il dovere dello Stato (“lo Stato assicura...”).
Ben poche costituzioni contengono un riferimento al carattere inviolabile o fondamentale dei diritti (Giappone: artt. 11 e 9747; Corea del sud, art. 1048).
Quanto alla titolarità dei diritti, si nota la tendenza a trasformare i diritti umani in diritti dei cittadini, secondo una tecnica che procede in senso opposto a quella della universalizzazione. Ciò vale anche per il principio di uguaglianza. Così le Costituzioni di Cambogia (con poche eccezioni, come quella del diritto di proprietà, art.44, relativo a “all person”, anche se solo i cittadini cambogiani possono essere proprietari di terre); Cina, Indonesia Laos, Vietnam e Corea del Sud, mentre la Costituzione di Taiwan si riferisce, genericamente, a “the people”, così come quella del Giappone. Quelle di Malaysia, Singapore e Filippine parlano di solito di “person” e così anche quella della Tailandia, in un capitolo, però, dedicato a “Rights and Liberties of the Thai People”. Alcune Costituzioni, poi, si occupano esplicitamente della posizione giuridica dello straniero.
In alcuni testi (Singapore, artt.126 ss.; Malaysia, art. 14; Filppine, art. IV) è contenuta una minuziosa disciplina dell’acquisto e della perdita della cittadinanza; in altre (Corea del sud, art.2; Giappone, art.10) esiste una riserva di legge al riguardo. In alcuni casi si riscontra un esplicito riferimento alla necessità che siano tutelati anche i cittadini residenti all’estero (Vietnam, art.75; Cambogia art.33; Cina art.50).
Come limite alla universalizzazione può essere letta anche la posizione di chiusura al diritto internazionale, che distingue queste costituzioni da quelle, recenti, dei paesi dell’America latina o dell’Europa centro-orientale. Nell’ambito di Costituzioni che riaffermano in modo netto la sovranità nazionale, si possono richiamare in senso contrario l’art. 31 della Costituzione della Cambogia e l’art. 6 di quella della Corea del sud. Anche la Costituzione del Giappone (art. 98) riconosce la necessità di rispettare fedelmente i trattati conclusi e il diritto internazionale, senza peraltro precisarne la posizione tra le fonti del diritto.
Anche le tendenze, proprie del costituzionalismo più recente, alla specificazione e positivizzazione dei diritti, cioè all’inserimento nel corpo dei documenti costituzionali di ampi cataloghi che enumerano le posizioni giuridiche tutelate, appaiono messe in discussione. I cataloghi dei diritti non possono qualificarsi, come meglio vedremo, come cataloghi “lunghi”, né sotto il profilo del numero delle posizioni giuridiche tutelate, né sotto quello del dettaglio della disciplina in essi contenuta, benché presenti, in alcuni casi, all’interno di costituzioni per altri versi “lunghe” sotto tutti e due i punti di vista (a titolo puramente esemplificativo, si vedano le Costituzioni della Malaysia e Singapore, che contengono solo 7 e 8 articoli sui diritti, su un totale di 163 e 181 articoli rispettivamente). Se si escludono i cataloghi presenti nelle Costituzioni della Tailandia e delle Filippine, che contemplano anche i diritti della terza generazione (ad esempio ambiente, consumatori, mass media, disabili), le Costituzioni si limitano ai diritti della prima e della seconda generazione.
Un notevole grado di dettaglio è riscontrabile, riguardo ai diritti processuali, nelle costituzioni sulle quali maggiore è stata l’influenza statunitense (Giappone, Corea del Sud, Filippine, Taiwan). La sola Costituzione delle Filippine presenta, soprattutto nelle disposizioni sui diritti sociali, un grado di dettaglio paragonabile ad altri testi costituzionali della sua generazione (si veda per tutte, entro l’art. XIV, la parte sull’istruzione, ove sono persino determinati i programmi di studio, oppure, nell’art. XV, le norme sulla gestione degli annunci pubblicitari).
Il carattere circoscritto del catalogo dei diritti non è, nella maggior parte dei casi, ovviato attraverso clausole di apertura. Si possono citare però l’art. 22 della Costituzione di Taiwan, secondo la quale “tutti gli altri diritti e libertà che non sono in contrasto con l’ordine pubblico o il benessere sociale sono garantiti dalla Costituzione”; l’art.37, comma 1, della Costituzione della Corea del sud., secondo il quale “libertà e diritti dei cittadini non possono essere negati sulla base dell’argomento che non sono enumerati nella Costituzione”. Una interessante previsione è contenuta nella Costituzione della Tailandia, che, proprio in riferimento ai diritti fondamentali, non si limita a considerare quelli espressamente riconosciuti dalla Costituzione, ma vi assimila anche quelli riconosciuti “implicitamente” o attraverso decisioni della Corte costituzionale (art. 27).

I contenuti dei Bill of Rights

Entro la categoria dei diritti e delle libertà fondamentali trovano regolamentazione sia le classiche libertà negative, sia le libertà positive.
Queste ultime, che si concretizzano in diritti economici, culturali e sociali, risultano in alcuni casi regolate nello stesso titolo o sezione dei diritti civili e politici, in altri si collocano in una sezione apposita, solitamente dedicata agli obiettivi di politica statale, dal momento che, per loro intrinseca natura, richiedono l’intervento attivo dei poteri pubblici. Pertanto, in tali casi, i diritti sociali figurano a doppio titolo nel testo delle Costituzioni: in primo luogo come diritti (dei minori, degli anziani, degli indigenti, delle donne, di volta in volta); poi, come principi che lo Stato deve seguire nelle proprie politiche (rivolte, di volta in volta, a questa o quella categoria), ovvero disposizioni programmatiche che non hanno altro valore giuridico che quello di indirizzare l’attività dei poteri pubblici (come specifica espressamente l’art. 88 della Costituzione tailandese).
Tutte le Costituzioni affermano il principio di uguaglianza, solitamente limitando il riferimento ai cittadini. Si va dalle formulazioni più stringate, relative alla sola uguaglianza formale (Vietnam, art. 52: Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge; così anche Taiwan, art. 8), a quelle assai più complesse, che comprendono il divieto di non discriminazione (Giappone, art. 14; Cambogia, art. 31) e la possibilità di azioni positive per superare le disuguaglianze e raggiungere l’uguaglianza sostanziale (Tailandia, art. 3058; Cambogia, art. 4659). In alcune Costituzioni (per es. Vietnam art. 63, Taiwan art. 9, comma 5, delle disposizioni addizionali del 1994) una specifica disciplina è dedicata all’uguaglianza uomo-donna, specialmente nel campo del diritto del lavoro.
Solo in pochi testi è espressamente affermato il principio della dignità umana. In particolare, esso compare, oltre che, come principio fondamentale, nel già citato art. 4 della Costituzione della Tailandia, nella Costituzione della Corea del sud (art. 10), proprio all’inizio del Bill of Righs, e figura a più riprese nella Costituzione indonesiana, come modificata dopo il 1999 (ad es. art. 28H, ove si parla di esistenza dignitosa), in quella delle Filippine, ove tra le politiche pubbliche (art. II, sezione 11) si trova l’affermazione secondo la quale lo Stato “dà valore alla dignità della persona umana e garantisce il pieno rispetto dei diritti umani” e in quella della Cambogia (art. 38, comma 2): “La legge protegge la vita, l’onore e la dignità dei cittadini”.
L’elenco dei diritti civili e politici comprende, in modo più o meno più puntuale, i diritti di libertà e sicurezza personale, domicilio, corrispondenza, circolazione, manifestazione del pensiero, informazione, religione, riunione, associazione, elettorato attivo e passivo, petizione, cittadinanza, libertà dalla tortura e dai trattamenti inumani o degradanti, il diritto al giusto processo. I diritti processuali in alcune Costituzioni come quella giapponese o delle Filippine, sono gli unici che trovano una disciplina puntuale, dettagliata, direttamente nel testo della Costituzione. La Costituzione indonesiana prevede altresì (art.28G) il diritto ad ottenere asilo per motivi politici in un altro paese. La Costituzione del Giappone (art.13) e della Corea del sud (art. 10) parlano, sul modello statunitense, di diritto alla ricerca della felicità (un riferimento è contenuto anche nella Costituzione, di ben diversa matrice, del Vietnam, art. 3). Nell’ambito della libertà di associazione, merita ricordare la Costituzione della Corea del sud, che prevede un controllo sul carattere democratico dei partiti politici, e la possibilità che su tale base questi siano sciolti dalla Corte costituzionale (art. 8). Analogo controllo e conseguente, possibile, scioglimento è disciplinato dalla Costituzione della Tailandia (art.47).
In alcuni casi è prevista una religione di Stato (buddismo in Cambogia, art.43; Islam in Indonesia, art. 29, Brunei art.3, Malaysia, art.3), mentre nelle Filippine è affermata espressamente la separazione tra Stato e chiesa (art. II, sezione 6). La Costituzione di Singapore provvede a un regime di separazione tra le confessioni religiose: ogni cittadino deve dichiarare la sua appartenenza e su tale base riceverà l’istruzione religiosa e parteciperà al culto, essendo proibito prendere parte ad attività di confessioni diverse dalla propria (art. 16).
Tra i diritti economici, sociali e culturali si riscontra il diritto al lavoro, quello a un reddito che consenta condizioni di vita umane (Indonesia, art.27), quello di formare una famiglia e di procreare (nell’ambito del matrimonio: Indonesia, art.28B), i diritti dei bambini, in forme più o meno articolate (Indonesia 28B), il diritto di ognuno allo sviluppo individuale e alla soddisfazione dei suoi bisogni essenziali (Indonesia 28C), il diritto dei lavoratori al riposo (Cina, art.43), il diritto all’istruzione, il diritto di sciopero (Cambogia, art.37), il diritto a vivere in una situazione di benessere fisico e psichico, il diritto alla casa, ad un ambiente salubre, alle cure mediche (Indonesia 28H), il diritto dei portatori di handicap all’assistenza sociale, al raggiungimento dell’indipendenza e a portare avanti le proprie carriere (Taiwan, art.9, comma 6, delle disposizioni addizionali del 1994), il diritto alla sicurezza sociale, la libertà di iniziativa economica privata (Vietnam art.57), il diritto di proprietà. Quest’ultimo può essere limitato per legge, in conformità con l’interesse pubblico, a seguito di una compensazione (ad es. Giappone art.29; anche la Costituzione cinese, a seguito della revisione del 2004, prevede un indennizzo in caso di espropriazione, che comunque può essere realizzata solo per motivi di pubblico interesse:art.13). La Costituzione cambogiana contiene un elenco esaustivo di diritti sociali (compreso quello delle casalinghe ad una pari valutazione del proprio lavoro, art.36) con particolare attenzione alla protezione dei minori e delle donne a fronte dello sfruttamento economico e sessuale (artt.46-48).
Il richiamo ai diritti collettivi è assai meno diffuso di quanto il dibattito sui “valori asiatici” potrebbe far pensare.
E’ assente, a differenza di quanto avviene nelle Costituzioni di altre parti del mondo, soprattutto in quelle africane, qualsiasi riferimento al valore della tradizione, a forme di diritto consuetudinario o autoctono, a istituti ancestrali o religiosi. Accanto ai diritti della famiglia, tutelati in tutte le Costituzioni (si veda in particolare l’art.XV della Costituzione delle Filippine), in alcune è contenuta una specifica tutela dei diritti linguistici come diritti collettivi, o dei diritti dei popoli autoctoni. Interessante esempio di compromesso è l’art.28I della costituzione indonesiana, secondo il quale (comma 3) “Le identità culturali e i diritti delle comunità tradizionali sono rispettati in conformità allo sviluppo dei tempi e delle civiltà”.
Infine, la Costituzione tailandese che, come abbiamo già avuto occasione di verificare contiene il catalogo dei diritti più lungo, tutela anche il diritto di resistenza, “nei confronti di atti compiuti per prendere il potere con strumenti che non sono conformi alle regole costituzionali” (art. 65).
Ampio spazio ricevono i doveri del cittadino. In particolare, la disciplina dei diritti non è mai separata da quella dei doveri. Ciò emerge non solo nel titolo del capitolo dedicato ai diritti (ove le due parole sono invariabilmente associate), ma anche nel testo della Costituzione66.
I doveri enunciati sono quelli tradizionali dell’obbedienza alla legge e alla Costituzione, della fedeltà alla patria, del pagamento delle imposte, della difesa, della prestazione del servizio militare. Nella Costituzione cinese tali doveri sono articolati in maniera alquanto esaustiva, prevedendosi altresì il dovere di salvaguardare l’unità del paese e l’unità di tutte le sue nazionalità (art.52), nonché la salvaguardia dell’onore, della sicurezza e degli interessi della patria (art.54). Si rintracciano poi anche doveri come quello di conservare il patrimonio artistico e culturale locale, di proteggere l’ambiente e le risorse naturali (Tailandia art.69, in termini simili Laos, art.17), oppure di promuovere la nazione, la religione, il re ed il regime democratico (Tailandia art.66), nonché quelli di “prendere parte alla ricostruzione nazionale” o “rispettare la proprietà pubblica e privata acquisita legalmente” (Cambogia, artt.49 e 50, dei quali è facile comprendere l’origine storica). La Costituzione della Tailandia (art.51) prevede che il divieto di lavoro forzato possa venir meno, per legge, in caso di imminente calamità naturale o quando il paese sia in stato di guerra, o quando sia dichiarato lo stato di emergenza o la legge marziale. Nella prospettiva socialista, la Costituzione del Vietnam prevede il dovere di ogni cittadino di “aiutare a proteggere i beni pubblici, i legittimi diritti e interessi civici, a mantenere la sicurezza nazionale e l’ordine sociale, e a organizzare la vita pubblica” (art.11). Sono previsti anche i doveri dei genitori nei confronti dei figli (ad esempio quello di “farne dei buoni cittadini”, Vietnam art.64), e dei figli nei confronti dei genitori e dei nonni (rispettarli e prendersene cura: Vietnam, art.64, così anche Cina, art. 49). Nella Costituzione cinese è previsto anche (nello stesso art.49) il dovere per marito e moglie di praticare la pianificazione familiare. E’ sancito altresì il dovere di “osservare tutte le precauzioni per la prevenzione delle epidemie e per l’igiene pubblica” (Vietnam, art.61). In alcuni casi, si assiste alla formulazione in termini di doveri di quelli che sono considerati, secondo il costituzionalismo occidentale, diritti: è questo il caso del diritto di voto (Tailandia, art.68), del diritto all’istruzione (formulato come dovere di ricevere un’istruzione, Tailandia art. 69; Indonesia, art.31.2; Cina art.46) e del diritto al lavoro (frequentemente considerato come diritto-dovere: Giappone art.27; Corea del sud art. 32; Cina art.42).
Quanto alla limitazione dei diritti, sono utilizzate differenti tecniche, che possono essere ricondotte a tutte e tre le categorie individuate dalla dottrina. Nel panorama comparato, le scelte compiute dalle Costituzioni circa la necessità di bilanciare con altri diritti o interessi quelli garantiti sono riconducibili a tre possibilità, che si ripercuotono sensibilmente sul ruolo dei giudici e sulle tecniche di bilanciamento da questi utilizzate. In primo luogo, è possibile, come avviene negli Stati Uniti, che la costituzione ignori la questione, limitandosi semplicemente a indicare i diritti garantiti. La creazione di principi di bilanciamento è lasciata allora pienamente alle corti, il cui compito è quello di interpretare la costituzione. Una seconda possibilità, che si trova ad esempio nella Costituzione italiana o nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, consiste nell’inserimento nel testo costituzionale di disposizioni che contengono limiti relativi a specifici diritti. Un terzo atteggiamento, adottato dalla Carta canadese dei diritti e delle libertà, dal Bill of Rights neozelandese, dalla Costituzione europea, consiste nel fornire un test di bilanciamento generale, per valutare la legittimità delle limitazioni di tutti i diritti garantiti.
In alcune Costituzioni sono previste specifiche clausole di limitazione per i diversi diritti e libertà, ciascuno dei quali trova, pertanto, proprie modalità e ragioni di limitazione. Nella maggior parte dei casi la legge è l’atto deputato a limitare il diritto, nella forma della riserva semplice (così la Costituzione della Cambogia e quella del Vietnam). Quando si tratta di riserva rinforzata, le cause della limitazione sono solitamente riconducibili alla pubblica sicurezza, l’interesse pubblico, la salute pubblica, a seconda del diritto in esame (così, ad es., la Costituzione delle Filippine). In alcuni casi, l’ampiezza delle clausole di limitazione è tale da svuotare completamente il diritto garantito. Un esempio è costituito dalla Costituzione di Singapore, nella quale i pochi diritti garantiti (libertà di espressione, di riunione e di associazione) incontrano limiti penetranti, che il parlamento può disporre con legge; per la libertà di espressione si parla dell’interesse della sicurezza nazionale, le relazioni amichevoli con altri paesi, l’ordine pubblico, il buoncostume o qualsiasi altra limitazione volta a proteggere da offesa il Parlamento e le Corti, la diffamazione o l’incitamento; per la libertà di riunione, di tutte le restrizioni ritenute necessarie ad assicurare la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico; per quella di associazione le limitazioni possono essere poste da qualsiasi legge relativa al lavoro o all’educazione (art.14). Analogo discorso si può fare per la Costituzione della Malaysia. Qui non soltanto le medesime libertà (circolazione, espressione, riunione, associazione: artt. 9 e 10) possono essere limitate dal parlamento con legge per una serie di motivi enumerati (pressoché identici a quelli enunciati nella Costituzione di Singapore), ma, nel momento in cui si prevede, per necessità connesse al carattere federale dello Stato, il judicial review of legislation, è esplicitamente stabilito che nessuna legge possa essere dichiarata incostituzionale sulla base della ragione che limita tali diritti in difformità alle cause di limitazione previste dalla Costituzione (così art.4). Per modificare una legge approvata sulla base della clausola di limitazione, poi, è necessaria una maggioranza dei 2/3 in ciascuna delle due Camere (art.159), cioè una maggioranza identica a quella necessaria per la revisione costituzionale.
In altre Costituzioni esiste una limitation clause generale. Ad esempio, in Indonesia si stabilisce che “nell’esercizio dei diritti e libertà, ciascuno deve accettare le limitazioni stabilite dalla legge, al solo scopo di garantire il rispetto e il riconoscimento dei diritti altrui e di rispondere alle necessità che, in una società democratica, sorgano sulla base della morale, dei valori religiosi, della sicurezza e dell’ordine pubblico” (art.28J). Parallelamente, si afferma che alcuni diritti (il diritto alla vita, la libertà dalla tortura, la libertà di pensiero e di coscienza, di religione, libertà dalla schiavitù, riconoscimento della qualità di persona di fronte alla legge e il diritto di non essere incriminato sulla base di una legge successiva retroattiva) non possono essere limitati in nessuna circostanza (Indonesia, art. 28I). Anche in Corea del sud è prevista una limitation clause generale, in base all’art. 37, comma 268. Analogo tipo di clausola si trova anche nella Costituzione della Tailandia, all’art. 2969. Ciò non impedisce, peraltro, che limiti ulteriori siano previsti per le libertà di circolazione (art.36), comunicazione (art.37), espressione (art.39), delle scienza e della ricerca (art.42), di riunione (art.44), associazione (art.45), di occupazione (art.50).
L’opzione per una limitation clause generale è fatta propria anche dalla Costituzione di Taiwan, secondo la quale nessun diritto può essere limitato se non per legge e nella misura in cui ciò possa essere necessario per “prevenire una violazione delle libertà altrui, prevenire un pericolo immediato, mantenere l’ordine sociale, promuovere il benessere pubblico” (art.23).
Una clausola generale si trova anche nella Costituzione cinese (anche se per alcuni diritti, come la libertà di corrispondenza di cui all’art. 40 sono previsti limiti specifici).
In altre Costituzioni non è contenuto alcun riferimento alla possibilità che i diritti siano limitati, analogamente a quanto avviene, ad esempio, nella Costituzione degli Stati Uniti. E’ questo il caso dell’art. 31 della Costituzione giapponense.

Il sistema delle garanzie

La debolezza della tutela dei diritti nella Costituzioni dei paesi dell’Asia orientale è ulteriormente testimoniata dalle disposizioni in materia di garanzie. Ciò anche in quelle Costituzioni che sembrerebbero più chiaramente improntate alla tutela dei diritti fondamentali.
Le garanzie ordinamentali (o istituzionali), intese come tutte quelle tecniche finalizzate a salvaguardare i diritti ma svincolate da un contenzioso giudiziario, si risolvono essenzialmente nella riserva di legge o nelle consuete affermazioni sulla supremazia della Costituzione (Tailandia art.6; Giappone art. 98; Cambogia art. 131; Singapore art.4; Malaysia art.4; Vietnam art.146) e sul suo carattere vincolante per tutti i poteri pubblici73, nonché, con l’eccezione dei tre stati socialisti dell’area, nella proclamazione del principio del rule of law (Indonesia art.1 sezione 3) e dell’indipendenza della magistratura (Cambogia art. 109, ove si prevede anche, a tal fine, un Consiglio superiore della magistratura; Tailandia art. 249; Corea del sud art. 103, Giappone art. 76), peraltro con minore frequenza di quanto non avvenga in altre parti del mondo: nessun riferimento, ad esempio, è fatto al principio della separazione dei poteri.
Nella Costituzione delle Filippine è previsto anche che le istituzioni scolastiche includano lo studio della Costituzione come parte dei programmi di studio (art.XIV, sezione 3.1) e che i membri delle forze armate si impegnino a tutelare e difendere la Costituzione (art.XVI, sez.5.1). La Costituzione giapponese configura il popolo stesso come garante della Costituzione, stabilendo che “il godimento delle libertà e dei diritti garantiti al popolo dalla presente costituzione sarà conservato dalla continua vigilanza del popolo stesso, che si asterrà da qualsiasi abuso di tali libertà e di tali diritti e ne curerà l’utilizzazione per il pubblico benessere” (art.12).
Sono del tutto assenti altri strumenti qualificabili come garanzie istituzionali e caratteristici del più recente costituzionalismo: le procedure di revisione costituzionale aggravate per la modifica del catalogo dei diritti, i meccanismi preposti a risolvere il problema delle omissioni legislative, la presenza di clausole di apertura all’ordinamento internazionale.
Quanto alla revisione costituzionale, tutti gli Stati dell’area prevedono un solo procedimento con il quale modificare la Costituzione. Nella maggior parte dei casi è sufficiente il voto, a maggioranza qualificata, dell’Assemblea legislativa.
Anche in Malaysia per modificare la Costituzione, che si pone espressamente (art.4) come legge suprema della federazione (con la conseguenza che qualsiasi legge in contrasto con essa è nulla), è necessaria una legge approvata dalla maggioranza dei 2/3 in ciascuna delle due Camere (art.159). Tuttavia, per alcune materie la rigidità è eliminata, e la modifica può essere realizzata con legge ordinaria: si tratta (e ciò risulta ancor più contraddittorio) di materie collegate strettamente alla natura federale dello stato, quali l’ammissione di uno stato alla federazione, l’alterazione dei confini degli stati, il cambiamento della capitale federale, la composizione della seconda camera.
Quando, come a Singapore, è prevista una rigidità variabile, la procedura più rinforzata (che oltre a chiedere la maggioranza dei 2/3 in parlamento chiede anche quella dei 2/3 nel referendum) è riservata però non alle norme sui diritti, ma a quelle sull’organizzazione dello Stato (art.5).
Infine, anche laddove sono previsti limiti materiali alla revisione costituzionale, essi non riguardano i diritti fondamentali (si tratta della forma unitaria dello Stato in Indonesia, art.37, e del sistema di democrazia liberale e pluralistica e della forma di governo della monarchia costituzionale in Cambogia, art.134).
Sempre tra le garanzie, si possono menzionare la previsione contenuta nella Costituzione della Tailandia, finalizzata ad assicurare l’effettività ai principi direttivi delle politiche pubbliche (che contengono la maggior parte di quelli che siamo abituati a considerare diritti sociali, nella forma di norme programmatiche), che dispone la creazione di un organo apposito. La Costituzione di Taiwan, poi, prevede espressamente la responsabilità civile e penale per i funzionari che abbiano arrecato danno ai diritti fondamentali.
Un altro aspetto che distingue le Costituzioni dei paesi dell’Asia orientale dalle più recenti tendenze del costituzionalismo riguarda la disciplina delle situazioni di emergenza.
Di fronte all’emergenza, infatti, la tendenza è sempre più quella della codificazione, ovvero dell’inserimento nelle Costituzioni di norme che, di fronte ad emergenze internazionali o interne consentano, per periodi di tempo limitati, modifiche all’organizzazione dei pubblici poteri e alla disciplina dei diritti80. Nonostante i rischi che tali previsioni comportano, di aprire la strada ad esperienze autoritarie, esse rappresentano un tentativo di riportare il tema dell’emergenza entro la sfera del diritto, sottraendolo a quella del puro fatto, per limitare in qualche modo l’arbitrio dei governi e consentire il controllo giurisdizionale sulle loro decisioni.
Al contrario, assai sintetiche sono le disposizioni presenti nelle Costituzioni dei paesi dell’Asia orientale, che si limitano di solito ad affidare al vertice dell’esecutivo la possibilità di dichiarare lo stato di emergenza, senza disciplinarne le condizioni e senza porre limiti (così Indonesia, art.12, che rimette tale potere al Presidente; nello stesso senso l’art.43 della Costituzione di Taiwan; circa la legge marziale, l’art.222 della Costituzione della Tailandia, che affida tale potere al re; al contrario, in Cambogia la dichiarazione di stato di emergenza e la sua gestione è affidata all’Assemblea legislativa, art.86). La Costituzione della Corea del sud prevede, accanto ai poteri di emergenza del presidente, la proclamazione delle legge marziale da parte di questi.
Le Costituzioni che disciplinano i poteri di emergenza sembrano farlo non tanto al fine di regolamentarli e contenerli, ma per consentire quasi illimitate possibilità di intervento al potere esecutivo. Ciò accade nella Costituzione di Singapore, secondo la quale i (pochi) diritti costituzionalmente garantiti (libertà personale, irretroattività delle leggi penali, uguaglianza, libertà di circolazione, di espressione, riunione, associazione) possono essere derogati da qualsiasi atto che affermi di intervenire per fare fronte a molteplici attività, indicate nella Costituzione stessa. E’ altresì prevista la proclamazione, da parte del primo ministro, dello stato di emergenza, che implica la possibilità di derogare a tutte le previsioni costituzionali, con la sola eccezione di quelle relative alla religione, la cittadinanza o la lingua (art.150). Le misure adottate in nome della lotta alla sovversione o durante lo stato di emergenza possono comportare anche il fermo di polizia per un periodo di tre mesi. Analoga disciplina è contenuta nella costituzione della Malaysia (artt. 149-151).
Penetranti poteri di emergenza sono previsti nella Costituzione di Brunei, nella quale, pur in assenza di diritti costituzionalmente garantiti, si stabilisce che la dichiarazione di stato di emergenza (che può valere per non più di due anni), da parte del sultano, comporti la possibilità per questi di adottare tutte le misure necessarie per il pubblico interesse, compreso l’ordine di carcerazione per chiunque, il controllo e la soppressione di ogni forma di pubblicazione e comunicazione, l’imposizione di lavoro forzato, la creazione di tribunali speciali, la modifica, l’annullamento la sospensione di ogni norma giuridica, la perquisizione, il controllo dei trasporti e della circolazione, l’arresto e la deportazione (art.83).
Quanto alle garanzie giurisdizionali, anch’esse sono riconosciute in modo esplicito in poche Costituzioni. In particolare, sono alquanto ridotte nelle Costituzioni dei tre Stati socialisti dell’area, ove il compito di controllare l’applicazione della Costituzione e delle leggi è affidato ad organi politici, come il Comitato permanente dell’assemblea nazionale (Vietnam art.91; Cina, art.67). L’art. 109 della Costituzione della Cambogia esplicita che “la magistratura garantisce e difende con imparzialità i diritti e le libertà dei cittadini”.
L’affermazione del carattere vincolante della Costituzione per il potere giudiziario ha condotto in alcuni paesi (Giappone, artt.76 e 81; Taiwan artt. 171 e 172) alla instaurazione di un controllo diffuso di legittimità costituzionale (tale forma di controllo si è sviluppata anche nelle Filippine).
In alcuni ordinamenti è prevista la possibilità di sollevare questione di costituzionalità di fronte alla Corte costituzionale. In Tailandia (art.264), la questione in via incidentale può essere sollevata dai giudici comuni anche su istanza di parte e la decisione della Corte costituzionale avrà efficacia inter partes (così anche in Corea del sud, ove anche il controllo di costituzionalità degli atti amministrativi è concentrato, non nelle mani però della corte costituzionale, ma della Corte suprema: art.107). In Cambogia il controllo di costituzionalità è concentrato nel Consiglio costituzionale, cui anche i cittadini possono ricorrere a fronte di leggi incostituzionali, “attraverso i propri rappresentanti (ne occorre almeno 1/10) o il Presidente dell’assemblea parlamentare (art. 121).
In altri ordinamenti, pur esistendo una Corte costituzionale con il compito di controllare la costituzionalità delle leggi, non sono disciplinate direttamente nella Costituzione le vie di accesso (Indonesia, art. 24C).
Nessuna delle Costituzioni dei paesi dell’area prevede un ricorso diretto alla Corte costituzionale per violazione dei diritti fondamentali, né un ricorso specifico per la tutela dei diritti fondamentali di fronte ai giudici comuni.
Soltanto la Tailandia ha introdotto la figura dell’ombudsman, che invece ha avuto largo successo nelle costituzioni più recenti in America latina, Europa centro-orientale e Africa. Gli artt.196 e 197 della Costituzione disciplinano l’ombudsman, essenzialmente come organo deputato alla verifica dell’attività delle amministrazioni pubbliche. Esiste poi (artt.189 e 190) una Human Rights Commission, nominata dal Re su proposta del Senato, al fine di vigilare sul rispetto dei diritti umani, di promuoverne la conoscenza ed il rispetto, e i cui poteri si risolvono nella possibilità di inviare raccomandazioni e rilievi al parlamento, cui viene indirizzato anche un rapporto annuale, Peraltro, è stabilito che, nello svolgimento delle sue funzioni, essa debba avere riguardo anche agli interessi del paese e della collettività. Anche la Costituzione delle Filippine (art.XIII, sections 17 e 18) prevede una Human Rights Commissions, la cui composizione è però rimessa alla legge, con il compito di investigare sulle violazioni dei diritti umani, di provvedere alle misure necessarie per la tutela dei diritti e all’assistenza legale di coloro i cui diritti siano violati, all’ispezione di carceri e prigioni, alla ricerca, educazione, informazione sui diritti umani, al monitoraggio dell’attività del governo filippino nell’adempimento degli obblighi internazionali in materia, alla raccomandazione al parlamento di misure per la promozione dei diritti umani e per il risarcimento alle vittime di violazioni.

Costituzioni senza costituzionalismo

L’esame dei Bill of Rights contenuti nelle Costituzioni dei paesi dell’Asia orientale mostra una serie di elementi comuni, che ci consentono di parlare di una specificità asiatica.
Tale specificità, però, ha ben poco a che vedere con i “valori asiatici”.
Non è dato rinvenire nei testi costituzionali una concezione dei diritti alternativa a quella del costituzionalismo liberale, finalizzata ad affermare principi ed istituti espressione di una diversa tradizione culturale86. Al contrario, si è di fronte a Costituzioni che fanno propri diritti e libertà di origine occidentale, affermatisi in diverse fasi del costituzionalismo e che, in relazione all’epoca storica nella quale sono state adottate o revisionate, presentano molte delle caratteristiche del ciclo costituzionale cui appartengono. Ciò è particolarmente evidente, oltre che per la Costituzione del Giappone, per quelle più recenti, approvate alla fine del XX secolo. Le Costituzioni di Tailandia, Filippine, Cambogia, Corea del sud e, dopo le più recenti revisioni, anche dell’Indonesia, hanno cataloghi dei diritti lunghi e dettagliati, sono ricche di norme programmatiche e di proclamazioni di principio, echeggiando in ciò quelle africane, sudamericane, dell’Europa centro-orientale. Né mancano le influenze derivanti sia dai documenti internazionali in materia di diritti umani, sia dalla circolazione dei modelli, testimoniate da formule come la “ricerca della felicità” o il “contenuto essenziale” dei diritti. Né la presenza di diritti collettivi o lo spazio dedicato ai doveri, pur ampio, sembrano tali da distinguere questi testi da quelli rinvenibili in altre parti del mondo.
Quello che accomuna tutte le Costituzioni esaminate, e tra queste anche le più recenti, è la debolezza della tutela assicurata ai diritti della persona. In ciò esse si allontanano dal costituzionalismo liberale, non solo nella sua versione occidentale, ma anche come recepito in aree diverse da quelle dove si è sviluppato, ad esempio l’Africa, nelle quali problema è se mai quello della effettività dei diritti astrattamente previsti dalle Carte costituzionali, in conseguenza del sottosviluppo economico, dell’instabilità politica, dell’insicurezza sociale, dei conflitti etnici.
Le radici di tale debolezza si rintracciano in Asia negli stessi testi costituzionali e trovano espressione principalmente in due tipi di disposizioni.
Innanzitutto la presenza di clausole che rimettono al legislatore, ovvero alle maggioranze politiche, la limitazione dei diritti, sottraendo tali decisioni al controllo giurisdizionale. Tanto che si tratti di riserve di legge semplici che rinforzate, di clausole di limitazione generali o specifiche, il risultato non cambia: il contenuto dei diritti fondamentali, inseriti in una Costituzione rigida, è privato di significato attraverso questo tipo di previsioni.
Inoltre, deboli sono gli strumenti di garanzia posti a tutela del catalogo dei diritti, sia nella forma delle garanzie istituzionali che giurisdizionali. La revisione della Costituzione, affidata a quorum facili da conseguire da parte delle forze di governo; l’assenza di garanzie dei diritti nelle situazioni di emergenza e, al contrario, la previsione di ipotesi di sospensione; la chiusura al diritto internazionale dei diritti umani; l’assenza di strumenti che rendano effettivi i diritti sociali; la mancanza di ricorsi giurisdizionali a tutela dei diritti fondamentali; la scarsa indipendenza del potere giudiziario da quello politico; la mancata previsione dell’ombudsman o di commissioni di tutela dei diritti umani.
Tutti questi elementi ci mostrano una concezione della Costituzione assai distante da quella sviluppatasi, dalla fine del XVIII secolo, in Europa e in America del nord, come strumento di garanzia dei diritti attraverso la limitazione del potere. Le Costituzioni dei paesi dell’Asia orientale, anche se non possono esimersi dal contenere un catalogo di diritti, ormai indispensabile sia di fronte alla comunità internazionale che per motivi di legittimazione interna del potere, mostrano però di non accettare tale impostazione. I diritti umani, lungi dall’essere configurati come antecedenti allo Stato e come limiti al suo potere, sono ricostruiti invece in termini di derivazione dallo Stato medesimo; non a caso, dal punto di vista dei cittadini, essi si configurano, in alcuni casi, come doveri.
In questa impostazione di fondo, e non nella diretta codificazione dei “valori asiatici”, esse lasciano trasparire una concezione alternativa dei rapporti tra individuo, comunità, Stato, che però non è esplicitata nel testo della Costituzione: quasi a riprova dell’affermazione secondo la quale ciò che è davvero fondamentale non è mai scritto.
Si può parlare di Costituzioni senza costituzionalismo: di testi, cioè, dettati con finalità distinte da quelle che connotano il costituzionalismo occidentale. Si tratta di finalità diverse nei diversi paesi e nei diversi momenti storici, ricostruibili caso per caso con l’ausilio delle storia costituzionale; comunque estranee, almeno fino ad oggi, alla tutela dei diritti.
(fine)


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