30 dicembre 2009

Green Revolution for Dummies

dal blog di Gianluca Freda

Un lettore che si firma Umberto mi scrive nei commenti:

Sei ancora convinto Gianluca che tutto ciò che sta accadendo nell'antica Persia sia opera della Cia e dei disinformatori reazionari oppure siamo in presenza di un regime che opprime,vieta e nega le libertà individuali e fondamentali delle persone? Non e' forse ora di ammettere che in Iran siamo di fronte ad un regime oscurantista, obsoleto e tirannico che vieta le più elementari libertà individuali? Non e' forse ora che anche i più convinti assertori della politica sciita si arrendano di fronte all'evidenza dei fatti?Davvero siete convinti che tutta questa sia disinformazione occidentale e non lo specchio di una civiltà oppressiva, reazionaria, assolutista e fondamentalista? Cosa deve succedere per convincervi che in Iran siamo di fronte ad una e vera dittatura fondamentalista, che reprime i più elementari diritti umani? Rispondimi sinceramente ti prego.

Gentile lettore, poiché mi chiedi una risposta sincera, dirò senza peli sulla lingua che darti una risposta è davvero difficile. Non perché la questione sia difficile in sé, ché anzi è fin troppo facile da capire. Ma perché è un immensa fatica parlare di politica internazionale, sia pure nei suoi più basilari rudimenti, con chi esprime una percezione dei meccanismi di potere che non oserei definire né romanzesca, né fumettistica (esistono romanzi e fumetti di straordinaria complessità, con infinite stratificazioni di significato), ma hollywoodiana, degna di certi blateranti blockbuster americani di propaganda, gonfi di retorica e con Bruce Willis come protagonista. Dai concetti che trapelano nel tuo post direi che fai parte di quella stragrande maggioranza di cittadini del mondo che sono stati appropriatamente condizionati a non distinguere più la realtà delle cose dalle proprie categorie mentali. Non posso fare nulla per te e non mi permetto di spiegarti nulla: i percorsi di decondizionamento, quand’anche io ne conoscessi le tecniche, non sono pane per i miei denti, e comunque richiedono una forte dose di determinazione individuale. Considera dunque la risposta che segue rivolta non a te, ma a quella minoranza di persone per le quali il percorso di decondizionamento è già stato completato; o perlomeno è giunto ad uno di quegli stadi intermedi in cui l’impostazione per dicotomie (“buono-cattivo”, “tirannia-democrazia”, “libertà-schiavitù”, “destra-sinistra”, eccetera) riesce ad essere tenuta a bada quel tanto che basta da non trasformare l’universo in una trattoria di quart’ordine che offre ai suoi avventori la scelta fra due sole pietanze, per di più entrambe immaginarie (“il signore preferisce le scaloppine di araba fenice o il brasato di sarchiapone?”).

Orbene, dalla missiva in esame emerge un’analisi della situazione iraniana che mi permetto di riassumere in questo modo: in Iran c’è un governo di malvagi tiranni, che nega le libertà individuali. Dunque il popolo dell’Iran si è ribellato e grazie alla propria eroica lotta riuscirà ad avere ragione dei propri aguzzini. Fine dell’analisi. Ora, di fronte ad affermazioni di questo tipo, il primo problema è capire da quale pagina iniziare a strappare la sceneggiatura disneyana che nelle menti di molti individui ha preso il posto dell’esame razionale di fatti e circostanze. Cominciamo dai malvagi tiranni, tanto, a questo punto, una pagina vale l’altra.

Per quanto mi sforzi, mi vengono in mente ben poche nazioni al mondo i cui cittadini non parteciperebbero con gioia ad una pubblica impiccagione dei propri governanti. Forse farebbero eccezione giusto la Svizzera, il Lussemburgo e il Principato di Monaco, ma nemmeno su questo metterei la mano sul fuoco. Anzi, mi vengono in mente pochissimi paesi nel cui organismo sociale non siano presenti, in potenza, le condizioni di furore represso che potrebbero portare da un giorno all’altro alle stesse scene di guerriglia urbana che vediamo oggi nelle città dell’Iran. O nel quale, se tali condizioni non sono presenti, non possano comunque essere create con poco sforzo. E questo non certo da oggi e non certo a causa dell’impazzare della crisi, ma in ogni tempo e in ogni condizione storica. L’Italia è pronta da tempo per una guerra civile, che è stata accuratamente gestita e fomentata; lo stesso vale per la stragrande maggioranza dei paesi europei; negli Stati Uniti basterebbe una scintilla qualsiasi per dare fuoco alle polveri dell’insicurezza, dell’invidia, del razzismo, dell’antagonismo congenito, della disuguaglianza sociale, della disoccupazione dilagante; eccetera eccetera, trovatemi un paese (un paese di rilievo nello scacchiere geopolitico) che non sia pronto, almeno in teoria, ad assaltare in letizia la propria sede del Parlamento o il proprio palazzo dell’Esecutivo. Eppure questo accade solo in alcuni paesi e solo in particolari congiunture politiche. Come mai? La risposta del lettore è: perché in questi paesi i crudeli tiranni rendono la vita così impossibile che la gente s’incazza più che altrove. Questa risposta è terribilmente puerile per almeno due ragioni. La prima è la banale considerazione che le grandi rivoluzioni, nella storia, sono sempre state fatte dalle minoranze con la pancia piena, non dalle maggioranze con la pancia vuota. I panciavuota rappresentano al massimo la manovalanza, non certo la direzione operativa delle rivoluzioni. Detto in altro modo: solo se un governo garantisce un tenore di vita decoroso e una ragionevole sicurezza per il futuro, una piccola parte dei suoi cittadini, quella sazia e tranquilla, può dedicarsi alla difesa della libertà di pensiero, della libertà di stampa, della libertà di associazione e di altre prerogative che sono deliziose dopo un lauto pasto, ma risultano poco commestibili per chi ha l’impellente necessità di mettere insieme pranzo e cena. Ne derivano due importanti corollari: il primo è che si abbattono con la forza solo i governi che gesticono la propria nazione con un minimo di decenza, non quelli veramente insostenibili. Nessuno si ribellò alle dragonnades di Luigi XIV o alle deportazioni staliniane, mentre furono i meno spietati Luigi XVI e Nicola II a finire sulla ghigliottina o di fronte a un plotone d’esecuzione improvvisato. Il secondo corollario è che ogni rivoluzione è sempre gestita da una minoranza più facoltosa contro una maggioranza meno facoltosa che la subisce. Succede anche oggi in Iran, dove è la classe media a scendere in strada con gli stracci verdi per abbattere quello stesso governo che la maggioranza dei contadini e del popolo minuto aveva eletto plebiscitariamente pochi mesi fa.

C’è poi la seconda ragione che rende puerile l’idea della ribellione del popolo ai tiranni: un popolo, da solo, non possiede né i mezzi, né le risorse economiche, né le strategie militari, né i contatti politici, né le prerogative culturali per ribellarsi a un bel niente, né in maggioranza né in minoranza. Al massimo riesce ad organizzare manzonianamente qualche disordinato assalto ai forni delle Grucce, per poi ritrovarsi senza più farina per l’inverno a venire. Una rivoluzione, per avere una qualche probabilità di successo, ha bisogno di coordinamento. Servono pianificatori delle operazioni che individuino i bersagli da colpire; servono esperti di propaganda che definiscano un’ideologia e provvedano alla sua diffusione presso il pubblico, stabiliscano le parole d’ordine, individuino i momenti e i luoghi più propizi per dare il via alla rivolta, organizzino eventi-simbolo con cui accendere gli animi delle folle (l’assassinio fasullo di Neda o quello, probabilmente autentico, ma non per questo meno pianificato, del nipote di Mousawi); servono finanziatori che provvedano a fornire le armi e i mezzi di propaganda, a pagare le ricognizioni logistiche preliminari, a “ungere” coloro che devono guardare dall’altra parte e a offrire generose elargizioni a chi deve invece svolgere un ruolo attivo durante le operazioni; servono esperti di psicologia delle folle, assistiti da discrete formazioni militari o paramilitari, che si assicurino di indirizzare gli eventi nella direzione voluta, evitando che la situazione sfugga di mano; infine servono persone con contatti politici e diplomatici di alto livello che mettano a punto la fisionomia della classe politica postrivoluzionaria e ne scelgano i membri, onde scongiurare spiacevoli salti nel buio che non sarebbero graditi a nessuno. A progettare tutti questi interventi provvede un gruppo di persone estremamente ristretto che è più corretto definire “élite” che “minoranza”. Di fronte a qualunque evento rivoluzionario o simil-rivoluzionario, le prime domande che una persona con i piedi per terra dovrebbe porsi sono: da quale élite è stato progettato e gestito? A quale scopo? Sulla base di quali interessi nazionali e/o internazionali? Senza chiedersi questo si finisce per concepire la politica e la storia come narrazioni favolistiche, che hanno più a che fare con l’immaginario cinematografico di massa che non con le effettive meccaniche geostrategiche degli interessi in campo. Chiediamoci dunque: quale ristretto gruppo ha progettato e sta attualmente coordinando l’ennesima rivoluzione colorata di questi anni, quella “verde” iraniana? Il lettore di cui sopra non vuol sentire nominare né la CIA (coacervo di interessi sparsi in cui le mire americane giocano un ruolo di rilievo) né i “disinformatori reazionari” del Mossad (dove prevalgono le prospettive di controllo israeliano sul Medio Oriente). Okay, lo faccio contento e non li nomino. Però ci dica allora lui, se ne è in grado, quali soggetti sono più interessati (e dunque più sospettabili) di questi a dirigere quello che appare a tutti gli effetti come un colpo di stato volto a sovvertire le istituzioni (democraticamente elette o no, poco importa) della Repubblica Islamica. I servizi segreti pakistani? Stephanie di Monaco? Il Dalai Lama? Sono aperto ad ogni ipotesi. Basta che non si tirino fuori le “persone” che si ribellano al “regime oscurantista, obsoleto e tirannico”. Per questo Natale ho già accompagnato le bambine al cinema a vedere il film della Disney e la mia razione di principesse e ranocchi me la sono già sorbita, grazie.

Del resto non è per semplice idiosincrasia o paranoia che i nomi di queste due agenzie vengono evocati a proposito della crisi iraniana. Esiste, prima di tutto, una cosa che si chiama “modus operandi”, a cui ogni buon investigatore fa riferimento quando si tratta di ipotizzare le responsabilità di un crimine. La rivoluzione iraniana somiglia a molte altre “rivoluzioni” già viste in passato per i simboli che utilizza (il colore), per le modalità con cui ha preso avvio (la contestazione di brogli inesistenti, la proclamazione preventiva della vittoria dello sfidante fatta prima degli exit poll allo scopo di invalidare il risultato dello spoglio), per l’escalation di tensione generato attraverso omicidi “mirati” e opportunamente propagandati (quello finto di Neda, con un noto contatto dell’intelligence occidentale, Arash Hejazi, che nel video rovescia in faccia alla ragazza la fialetta di liquido rosso; quello più recente del nipote di Mousawi), per l’utilizzo di social network come Twitter e Facebook a scopo di mobilitazione della massa, per le tattiche di guerriglia utilizzate nelle strade, sempre uguali in ogni paese in cui vi sia da rovesciare un “tiranno”, dall’Europa al Medio Oriente. Di fronte a modalità operative così simili, ipotizzare l’esistenza di una stessa regia dietro i disordini non è semplicemente il vezzo di chi ama accusare dei mali del mondo sempre lo stesso babau: è invece una possibile conclusione logica a cui puntano mille differenti indizi e che solo uno sciocco accecato dall’ideologia rifiuterebbe di prendere in considerazione.

Inoltre, cerchiamo di stare ai fatti e di non farci distrarre dai nostri aneliti ad un mondo perfetto di pace e giustizia: abbiamo un paese che sta sfidando l’intera comunità dei dominanti di questa fase storica per dotarsi di tecnologia nucleare da sfruttare in campo energetico e militare; un paese ricco di petrolio, che ha già attivato una borsa internazionale in cui l’oro nero può essere scambiato in valute diverse dal dollaro; un paese con un’influenza militare e territoriale sulla regione che è cresciuta a dismisura dopo l’invasione americana dell’Iraq, dove gli sciiti filo-iraniani tengono in pugno molte zone cruciali del sud; un paese che aspira ad entrare nello SCO, che ha iniziato a intrattenere rapporti sempre più stretti con grandi potenze emergenti come Cina e Russia, che da esse acquista tecnologia militare all’avanguardia e con esse stringe accordi commerciali ed energetici privilegiati. In sostanza, l’Iran è un paese che sta dirigendosi a tutta velocità verso lo status di grande potenza indipendente sul piano economico, militare, commerciale, politico, diplomatico, minacciando i visibilissimi piani di predominio israelo-americani sulla regione. Usiamo il rasoio di Occam: è più probabile che ad aver progettato la caduta del governo di Ahmadinejad siano i grandi interessi geostrategici dei paesi dominanti – che non sono certo nuovi a questo tipo di operazioni e possiedono le risorse e il know how per portarle a termine – minacciati dalla crescita senza freni dell’Iran, oppure un pugno di scalmanati vestiti di verde, che non sembrano in grado di approntare strategie politiche diverse dall’intonazione di slogan e dall’incendio di autoveicoli in sosta? E’ legittimo porsi questa domanda e cercare di darsi una risposta? O siamo condannati a ragionare in eterno in termini grezzamente e videocraticamente moralistici, dove “libertà” e “oppressione” sono le due uniche categorie di riflessione che ci è consentito utilizzare?

Del resto non c’è bisogno di andare tanto lontano per avere una risposta, se lo stesso Tariq Ali, storico e scrittore che non simpatizza certo per l’establishment iraniano, afferma in un’intervista su Repubblica di ieri: La Cina e la Russia, che hanno contratti importanti con l'Iran, non si taglieranno da sé la gola sotto il profilo economico. La speranza in Occidente è che il regime venga scalzato dall'interno, che si possa trattare con un nuovo governo”. Mi limiterei ad aggiungere che l’Occidente non si è mai limitato a osservare le questioni politiche interne di altri paesi e a sperare che si evolvessero nella direzione desiderata; ha invece sempre contribuito attivamente, attraverso i propri corpi militari e d’intelligence, a rendere concreti i propri desideri con ben note tecniche d’ingerenza negli affari interni e con procedure di regime change progettate all’uopo.

C’è un’altra allusione che trapela dal post: quella che chiunque non simpatizzi per i rivoltosi iraniani sia, per definizione, un simpatizzante e sostenitore del regime di Ahmadinejad, anzi di Ahmadinejad stesso, visto che scindere il ragionamento politico da sentimenti personali come simpatia, antipatia, odio, amore, è qualcosa che la banalizzazione giornalistica che ha ridotto in melassa il cervello di nove decimi dell’umanità non contempla e non riesce neppure a concepire. Tutto viene ridotto alla schematizzazione puerile “amore-odio”, “bello-brutto”, “democrazia-tirannia”, e via riducendo a binomio la complessità dell’universo, proprio come Orwell aveva profetizzato quando descriveva gli effetti devastanti del Newspeak. Più spesso l’accusa è quella di essere disposti ad appoggiare regimi autoritari e brutali sulla base di un antiamericanismo ideologico che preclude ogni contatto con la realtà.

Io non ho certo problemi ad ammettere ed anzi a proclamare il mio antiamericanismo, come del resto faccio spesso. Dico solo che non è ideologico, ma parte proprio dall’analisi di quella stessa realtà che chi muove queste critiche rifiuta di prendere in considerazione. L’Iran è un esempio perfetto e può servire da modello per illustrare quella che è stata la parabola discendente di ogni nazione che si sia svenduta, per grulleria o per forza maggiore, al potere coloniale della potenza unica che ha preso le redini del mondo negli ultimi vent’anni.

L’Iran è oggi un paese in ascesa. Ha un’economia in forte sviluppo, un apparato militare in grado di garantirgli la dovuta protezione, buoni rapporti diplomatici e commerciali con le potenze orientali, un sistema d’istruzione di alto livello, una posizione territoriale invidiabile che promette di consolidarsi nel futuro, possiede risorse energetiche che possono garantirgli la ricchezza. Ha una classe politica che sarà anche corrotta e “oscurantista” (qui bisognerebbe capire quale classe politica non lo è), ma che eventualmente lo è in proprio, non per imposizione di manovratori esterni che dettano direttive e politiche nazionali in nome di interessi contrastanti con quelli della nazione. I manifestanti che vediamo in questi giorni scatenare la violenza nelle strade iraniane rappresentano una miserabile minoranza della popolazione che – consapevolmente o no, poco importa - vorrebbe svendere a una potenza straniera e nemica questa invidiabile posizione geostrategica del paese per averne in cambio le fumose chimere consumistiche martellate nelle loro teste dagli stessi strumenti di propaganda che hanno ridotto un paese un tempo ricco come l’Italia a dibattersi nella melma schiavile in cui oggi la vediamo affondare. Non c’è un solo paese che, caduto dopo il 1989 nelle grinfie coloniali dell’unica superpotenza rimasta, non sia diventato l’ombra di se stesso. Ne sanno qualcosa i paesi dell’est, molti dei quali rimpiangono ormai apertamente il defunto sistema sovietico. Lo sanno ancor meglio paesi come la Georgia o l’Ucraina, che hanno incautamente e giovanilmente appoggiato le loro rivoluzioni colorate per trovarsi oggi a combattere – e ad essere repressi con straordinaria efficacia – contro gli stessi governanti a favore dei quali avevano a suo tempo sventolato le bandierine arcobaleno.

Pertanto, l’essere contrario o favorevole al governo iraniano, contrario o favorevole al popolo vociante, è un problema che non mi pongo nemmeno. Quello che voglio è agevolare, in ogni modo possibile, il declino ormai avanzato del sistema monocentrico che ha caratterizzato nell’ultimo ventennio le dinamiche geopolitiche. E’ più che evidente che ciò che si prospetta all’orizzonte è una fase policentrica, in cui i vecchi equilibri del potere globale saranno scossi dall’ingresso nell’agone politico-economico di nuovi soggetti di rilievo. La Cina, la Russia, l’India, forse lo stesso Iran, potrebbero dare il colpo di grazia a questa tirannia monocratica della quale anche il nostro paese – forse più ancora di altri – è rimasto vittima. E non si esce di certo da questo pantano strillando slogan in piazza, incendiando automobili o invocando gli spiriti delle “libertà democratiche” sulle quali intere generazioni di giovani si sono fottuti il cervello a vantaggio dei produttori di queste “libertà”, i quali sono stati ben lieti di fornirgliele nella loro versione fornita di copyright, in confezione regalo, tutto compreso, prendere o lasciare. Se ne può forse uscire agendo d’astuzia: evitando di farsi infinocchiare ancora dalle vecchie parole d’ordine, appoggiando tutto ciò che può contribuire a demolire – sebbene a volte con modalità dolorose – le sbarre arrugginite del vecchio carcere coloniale e, soprattutto, preparandosi a sferrare il colpo di grazia quando i tempi saranno maturi e i carcerieri disarmati e allo sbando. Pessoa diceva che la tirannia consiste nel costringere le persone a scegliere tra due mali, ad esempio tacere o essere arrestati. In questo senso, possiamo vedere la tirannia in tutto ciò che caratterizza lo scenario politico contemporaneo. Lo vediamo anche nel dibattito sulla situazione iraniana, che ci costringe a decidere se preferiamo una repressione sanguinosa da parte di un governo teocratico o il loop senza fine di una modalità di annientamento delle nazioni che abbiamo già visto ripetersi in innumerevoli occasioni nel corso dell’ultimo secolo. Ognuno scelga il suo male minore. Per me il male minore è quello che può portare, col tempo, all’affermazione di un bene; e il bene è per me sinonimo di cambiamento, e non si perviene ad esso sclerotizzandosi sulle decrepite categorie morali di un panorama storico in via di rapida dissoluzione. In questo senso non ho problemi a dire che auspico una sopravvivenza, e anzi un rafforzamento, dell’attuale establishment politico iraniano, il quale possiede – e lo ha dimostrato – alcune delle doti di determinazione necessarie a condurci fuori da questo deserto. Che poi tale fuoriuscita avvenga o no all’insegna dell’assolutismo e del fondamentalismo, chiedo scusa, ma mi pare assolutamente e fondamentalisticamente privo di rilievo.

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