25 settembre 2013

Intervista a Stefano Lucarelli: "Privato non vuol dire efficiente"

Intervista a Stefano Lucarelli, ricercatore all'Università di Bergamo e insegna Economia monetaria internazionale. Dal sito Controlacrisi .
Stefano Lucarelli, ricercatore all'Università di Bergamo e insegna Economia monetaria internazionale, mentre sta per ripartire una nuova stagione di privatizzazione ci troviamo di fronte al crollo di Telecom, che può essere considerata un po’ uno degli esempi italiani della via italiana alle dismissioni di aziende pubbliche.
In una situazione in cui ci si trova ad essere debitori con un debito che continua a crescere laddove le entrate non sono sufficienti si passa alla vendita del patrimonio. E lo si fa su servizi che sono potenzialmente redditizi. Un’impresa impegnata nel settore delle telecomunicazioni può essere molto attraente soprattutto se viene acquistata ad un valore inferiore alle sue capacità di creare reddito.
Sì, ma un bilancio sulle privatizzazioni si può tentare?
Certo. Guardando ad esperienze come quelle della Gran Bretagna non c’è da stare allegri. Smentito chi dice che la privatizzazione è inevitabile nel momento in cui bisogna raggiungere risultati di efficienza. Hanno sempre sostenuto che con il mercato in gioco il manager sarà più incentivato sulla riduzione dei costi. E questo insieme a una regolamentazione adeguata anche se siamo quasi sempre una situazione di monopolio naturale, dovrebbe spingere in basso il livello dei prezzi.
E invece cosa è accaduto?
Per quanto riguarda il servizio idrico integrato i dati dimostrano che l’efficienza è una variabile complessa che non si può studiare solo in riferimento ai prezzi ma alla struttura produttiva complessiva. Un acquedotto è efficiente se non perde acqua per esempio o usa tecnologie più avanzate. Con questo criterio salta la correlazione tra efficienza e assetto proprietario perché anche le aziende pubbliche sono efficienti e anche tra le private trovi le inefficienti.
E la Gran Bretagna?
Nel suo saggio “Th Great Divesture”, Massimo Florio dimostra che se andiamo a calcolarci in tutto e per tutto gli effetti della telefonia privatizzata in Inghilterra prendendo non solo i prezzi ma i salari degli addetti, e i rendimenti degli azionisti ci accorgiamo che il bilancio non è certo rose e fiori. Innanzitutto nella prima fase il governo ci ha rimesso 14 miliardi di sterline, svendendo il proprio patrimonio. E non ci furono nemmeno i guadagni di borsa ventilati, quanto meno non per tutti, perché ad intascare furono i ricchi che diventarono ancora più ricchi. I salariati no di certo. Non c’è una correlazione, quantomeno non è significativa in senso statistico - nemmeno tra tasso di crescita dell’economia britannica e le privatizzazioni. Anzi, le privatizzazioni sono state legate a effetti redistributivi e i risultati in termini di contenimento delle tariffe del servizio non è stato significativo.
C’è poi un discorso in relazione alla crescita del Paese. In Italia alienare aziende strategiche non farà bene. Poi ci lamentiamo se lo spread aumenta…
Sì è vero lo spread dipende di più dai tassi di crescita che dai risultati di finanza pubblica. Basta leggere i rapporti del Fmi. E basta guardare al dibattito ai piani alti. Ciò che interessa non è tanto l’ammontare di debito pubblico sul prodotto interno lordo. Questa cosa è diventata importante perché nel dibattito sulla stabilità politica Ue è diventato centrale in modo pretestuoso. Ma il vero problema sono i tassi di crescita. E i tassi di crescita aumentano se il sistema economico nazionale investe nei settori strategicicamente importanti, come le Tlc, appunto. C’è un tasso di interesse alto sui titoli del debito pubblico perché c’è sfiducia nella competitività del paese, ma anche a causa di una politica monetaria europea che non disincentiva la speculazione finanziaria sui titoli di Stato.
Siamo in una congiuntura in cui il confronto sulla crescita non si può più eludere…
Le politiche industriali sono importantissime. E’ vero che la quota dell’high tech sugli scambi commerciali è crescente e dominante, ma questo segnala un cambiamento da un paradigma produttivo ad un altro in cui il settore manifatturiero continua a contare; non possiamo distruggerlo, dobbiamo trasformarlo. High tech e biotecnologie sono manifatturiero e non terziario. Tra i settori trainanti ci sono anche le telecomunicazioni e molti servizi di pubblica utilità come energia e acqua sono strategici. Ma una politica industriale in Italia non sembra esserci. I distretti tecnologici dopo il 2010 sono entrati in difficoltà proprio per l’assenza di politiche pubbliche adeguate. Nella divisione internazionale del lavoro il ruolo italiano è quello di un paese subfornitore di secondo livello. La classe politica italiana non può essere contenta di questa situazione, quella tedesca e francese certamente sì proprio perché in questo modo le proprie aziende si sono ricollocate a monte della filiera produttiva ed hanno difeso e addirittura ampliato le proprie quote di mercato.
Non si vede lo sbocco però…
Questa situazione ci sta conducendo a un punto di minimo. Il problema è che se ne esce solo con la politica. Il profilo di politica economica del governo è estremamente confuso. Si ritiene che si può giocare un ruolo con gli incentivi ai giovani attraverso i fondi europei che sono pochi e non prendono il toro per le corna. Una impresa può sfruttare questa opportunità ma se quell’impresa non ha commesse deve ridefinire al rìbasso comunque la struttura produttiva, despecializzandosi. E’ chiaro che tutto questo si accompagna ad una occupazione che viene umiliata, per usare le parole di un sociologo, Federico Chicchi. Le competenze alte di chi cerca lavoro non corrispondono alle richieste dei datori di lavoro italiani.

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